‘Fratelli coltelli’ per il percorso condominiale che dal palazzo conduce fino ai garage. A scatenare la bagarre è la realizzazione di alcuni muri e la sostituzione delle chiavi del catenaccio di un cancello così viene bloccato l’approdo diretto al proprietario di un appartamento al relativo garage. Però si tratta di un’operazione illegittima non regge, anche alla luce della durata temporale, l’ipotesi della semplice cortesia. Riconosciuto, quindi, il diritto alla reintegra nel possesso, e quindi il ripristino della possibilità di accesso al garage.
Tragitto ‘consolidato’ nel corso degli anni, per arrivare al garage, anche calpestando lo spazio di proprietà di un parente. Semplice cortesia? Assolutamente no. Piuttosto diritto in piena regola, tanto da legittimare la reintegra nel possesso, definendo quindi illegittimi i ‘blocchi’ piazzati lungo il percorso Cassazione, sent. numero 99/2013, Seconda Sezione Civile, depositata venerdì 4 gennaio . Muri divisori. Casus belli, in questa vicenda, è la realizzazione di alcuni muri a mattoni, che ‘rompono’ il collegamento tra un garage e le scale che conducono ai sovrastanti appartamenti. A lamentarsene è il proprietario di un appartamento e del relativo garage , e a finire nel mirino è una coppia che ha realizzato quei lavori e che, allo stesso tempo, ha «sostituito le chiavi del catenaccio apposto al cancello d’ingresso ai garage ed il telecomando per l’apertura automatica», cancello utilizzato pur attraversando il garage della coppia. Conseguenziale è la richiesta dell’uomo, avanzata nei confronti della coppia – composta anche dal fratello –, di vedere tutelato il proprio possesso, richiesta accolta prima dal Pretore e poi confermata dal Tribunale e, infine, dalla Corte d’Appello. Secondo i giudici, difatti, «era stata raggiunta la prova dello spoglio» mentre «non era stato dimostrato che il possesso avesse fondamento nella mera tolleranza e nei rapporti di parentela e di buon vicinato». Nessuna cortesia. Ad avviso della coppia, però, è assolutamente incomprensibile la valutazione compiuta dai giudici sulla sussistenza di un «possesso giuridicamente rilevante in ordine al passaggio attraverso il cancello e la scivola d’ingresso del garage» di loro «proprietà esclusiva». Per una ragione semplicissima l’uomo «non aveva una copia personale delle chiavi». Eppure, contesta la coppia, è stato escluso «l’utilizzo precario ed a titolo di cortesia del passaggio verso il garage», senza considerare che era stato dato «il consenso al passaggio nell’area» di loro proprietà «solo fino al momento della realizzazione dei tramezzi divisori previsti nella piantina allegata all’atto di vendita». Ma per i giudici di Cassazione la prospettiva proposta dalla coppia non può essere condivisa. Perché emerge dalla vicenda che l’uomo «sin dalla data di acquisto dell’appartamento e del garage, utilizzava, per accedere in quest’ultimo, sia le scale condominiali che il cancello che delimitava l’area di proprietà» della coppia «delle cui chiavi aveva la disponibilità». Peraltro, se anche l’uomo «non avesse personalmente una copia delle chiavi» ma «dovesse prelevare quelle lasciate nell’officina contigua al fabbricato», officina di proprietà del fratello, comunque, chiariscono i giudici, «non si potrebbe parlare di un utilizzo precario e a titolo di cortesia», per la semplice ragione che la coppia aveva dato «un consenso preventivo e generalizzato al passaggio nell’area di proprietà». Seguendo questa linea di pensiero, che richiama quella adottata dalla Corte territoriale, è giusto attribuire all’uomo, «in virtù del consenso preventivo e generalizzato al passaggio datogli» dalla coppia, un «titolo di detenzione qualificata, tale da legittimarlo alla proposizione dell’azione di reintegrazione». A maggior ragione, evidenziano ancora i giudici, tenendo conto della «disponibilità delle chiavi di accesso» e del «lungo tempo per il quale è stato esercitato in modo pacifico il passaggio», elementi, questi, «poco compatibili con la tesi di una utilizzazione precaria ed a mero titolo di cortesia» e che quindi portano alla conferma reintegra nel possesso cristallizzata in Appello.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 21 novembre 2012 – 4 gennaio 2013, numero 99 Presidente Oddo – Relatore Matera Svolgimento del processo Con ricorso depositato il 28-6-1997 presso la Pretura di Catania, Sezione Distaccata di Giarre, C.C.G., premesso di aver sempre esercitato l’accesso al suo garage sia dalla scala condominiale sia dal cancello che immette anche al garage di O.R., deduceva che nel settembre 1996 quest’ultima e C.F.P. avevano occultamente chiuso lo spazio destinato a garage del ricorrente, mediante l’erezione di muri a mattoni, impedendo qualsiasi collegamento tra tale garage e le scale che conducono ai sovrastanti appartamenti, ed avevano altresì sostituito le chiavi del catenaccio apposto al cancello d’ingresso ai garage ed il telecomando per l’apertura automatica. Il ricorrente, inoltre, affermava che i convenuti avevano sostituito la serratura del cancello d’ingresso ad un terreno posto in Nunziata di Mascali, coltivato a vigneto, con annesso casotto per il deposito degli attrezzi, del quale il deducente aveva il pacifico possesso da circa atto anni. Tanto premesso, il C. chiedeva l’adozione dei provvedimenti necessari alla tutela del suo possesso. Con ordinanza in data 31-12-1997 il Pretore disponeva la reintegra del ricorrente nel possesso. Tale ordinanza veniva successivamente confermata dal Tribunale di Catania, Sezione Distaccata di Giarre, con sentenza del 7-6-2401. Il Tribunale, in particolare, osservava che era stata raggiunta la prova dello spoglio sofferto dal ricorrente, e che per contro non era stato dimostrato che il possesso avesse fondamento nella mera tolleranza e nei rapporti di parentela e di buon vicinato. Con sentenza depositata il 17-9-2005 la Corte di Appello di Catania rigettava il gravame proposto avverso la predetta decisione da C.F.P. e P.R. Questi ultimi hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, sulla base di tre motivi. C.C.G. non ha svolto attività difensive. Motivi della decisione 1 Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza, in capo a C.C.G., di un possesso giuridicamente rilevante in ordine al passaggio attraverso il cancello e la scivola d’ingresso del garage di proprietà esclusiva della P. Lamentano, in particolare, che il giudice di appello, pur dando atto che C.C. non aveva una copia personale delle chiavi, abbia escluso l’utilizzo precario ed a titolo di cortesia del passaggio verso il garage, senza considerare che i convenuti avevano dato all’attore il consenso al passaggio nell’area di loro proprietà solo fino al momento della realizzazione dei tramezzi divisori previsti nella piantina allegata all’atto di vendita dell’8-11-1989. Sostengono che le valutazioni espresse dalla Corte di Appello circa la sussistenza di un possesso tutelabile contrastano con le risultanze della prova testimoniale e documentale. Il motivo è infondato. La Corte di Appello, sulla base delle deposizioni testimoniali e delle dichiarazioni rese nella fase cautelare da C.F.P., ha accertato, in punto di fatto, che C.C.G. sin dalla data di acquisto dell’appartamento e del garage utilizzava per accedere in quest’ultimo sia le scale condominiali che il cancello che delimitava l’area di proprietà della P., delle cui chiavi aveva la disponibilità. Ciò posto, il giudice del gravame ha osservato che, anche a voler ritenere che il C. non avesse personalmente una copia delle chiavi, ma dovesse prelevare quelle lasciate dal fratello nella sua officina, contigua al fabbricato, non si potrebbe parlare di un utilizzo precario e a titolo di cortesia, in quanto gli appellanti avevano dato un consenso preventivo e generalizzato al passaggio nell’area di loro proprietà. Esso ha evidenziato, infatti, che lo stesso C.F.P., nel corso del suo interrogatorio, ha ammesso che il fratello C. “usufruiva del passaggio regolarmente ed a partire dal 1989”, e che le chiavi “erano appese dentro l’officina che si trova di fronte all’immobile per cui è causa”. Così motivando, la Corte territoriale ha sostanzialmente attribuito a C.C.G., in virtù del consenso preventivo e generalizzato al passaggio datogli dagli aventi diritto, un titolo di detenzione qualificata, tale da legittimarlo alla proposizione dell’azione di reintegrazione, ai sensi dell’articolo 1168 c.c. In tal modo, essa si è uniformata alla giurisprudenza di questa Corte, che distingue tra detenzione nell’interesse proprio del detentore detenzione qualificata , in forza di un rapporto contrattuale anche atipico, e detenzione nell’interesse del possessore detenzione non qualificata, quale quella del mandatario o del gestore , riconoscendo al detentore qualificato la legittimazione alla proposizione dell’azione di reintegra verso i terzi ed anche verso il possessore v. Cass. 20-5-2008 numero 12751 Cass. 22-7-2002 numero 10676 Cass. 29-5-1998 numero 5314 , ed al detentore non qualificato la legittimazione all’azione di reintegra verso i terzi, ma non verso il possessore Cass. 22-7-2002 numero 10676 Cass. 29-10-1974 numero 3276 . L’apprezzamento espresso in ordine all’esistenza di un titolo e alla qualificazione dell’interesse dell’attore, d’altro canto, costituendo oggetto di un’indagine riservata al giudice di merito, non è censurabile in sede dì legittimità, essendo supportato da una motivazione congruente ed esaustiva, con la quale sono stati valorizzati elementi, quali la disponibilità delle chiavi di accesso e il lungo tempo per il quale è stato esercitato in modo pacifico il passaggio, poco compatibili con la tesi di una utilizzazione precaria ed a mero titolo di cortesia. La decisione impugnata, pertanto, si sottrae alle censure mosse dai ricorrenti, essendo sorretta da una motivazione priva di vizi logici, ed avendo fatto corretta applicazione dei principi di diritto che disciplinano la materia. 2 Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione di norme di diritto, in relazione all’affermazione del giudice di appello, secondo cui C.C.G., avendo per anni coltivato il terreno ed avendo avuto le chiavi del cancello d’ingresso, aveva la qualifica di detentore ed era, quindi, legittimato all’esercizio dell’azione di spoglio. Deducono che la detenzione qualificata ricorre solo nelle ipotesi in cui il possessore conceda a terzi il godimento di un bene in virtù di un titolo giuridico che, nella specie, non sussiste. Il fondo, infatti, non era coltivato dal resistente, il quale aveva con esso un rapporto del tutto precario, dovuto ai rapporti di parentela, ed aveva la disponibilità delle chiavi di accesso al terreno per mera tolleranza dell’avente diritto. Sostengono che, a fronte delle contestazioni mosse dai convenuti, incombeva sul ricorrente in possessoria l’onere di provare la propria detenzione qualificata, mentre non spettava alla controparte la prova della detenzione precaria. Anche tale motivo è privo di fondamento. La Corte di Appello, sulla base delle deposizioni testimoniali acquisite, ha accertato che C.C. “da parecchi anni” coltivava il terreno di proprietà del fratello ed aveva le chiavi del cancello d’ingresso al fondo e del casotto sullo stesso insistente. Legittimamente, di conseguenza, essa ha attribuito all’odierno intimato la qualifica, se non di possessore, quanto meno di detentore qualificato, abilitato alla proposizione dell’azione di spoglio. Per considerazioni analoghe a quelle svolte in relazione al primo motivo, infatti, non par dubbio che il protrarsi nel tempo della coltivazione del fondo nel proprio interesse da parte dell’intimato e la libertà di accesso al terreno ed al caseggiato rurale al medesimo concessa dal fratello mediante la dazione delle chiavi, costituiscono elementi dai quali il giudice del gravame ha ragionevolmente desunto l’esistenza di un autonomo titolo di detenzione in capo a C.C. Anche in tal caso, pertanto, la tesi della precarietà del rapporto e della mera tolleranza dell’avente diritto è stata disattesa dal giudice di merito sulla base di argomentazioni corrette sul piano logico e giuridico, che rendono la decisione impugnata immune dai vizi denunciati dai ricorrenti. 3 Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono dell’erronea condanna alle spese, sostenendo che, per effetto dell’accoglimento del ricorso, queste devono essere poste a carico del resistente. Il motivo è privo di autonomia, essendo basato sul presupposto, rivelatosi erroneo, della fondatezza degli altri motivi di ricorso e della conseguente soccombenza del resistente. 4 Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato. Poichè l’intimato non ha svolto alcuna attività difensiva, non vi è pronuncia sulle spese. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso.