Salvo il professionista sorpreso con software abusivamente duplicato, e privo del contrassegno SIAE, detenuto sui computer in uso presso il proprio studio. Perché? All’epoca dei fatti non era ancora stata approvata la regola tecnica in adempimento della direttiva europea 83/179/CE.
Questo è quanto emerge dalla sentenza numero 44279, depositata il 31 ottobre scorso. La fattispecie. Un professionista veniva condannato per aver detenuto e utilizzato, a scopo commerciale, sui computer in uso presso il proprio studio, un software abusivamente duplicato e privo del contrassegno SIAE articolo 171 bis, legge numero 633/1941 . Vista la conferma della condanna anche da parte della Corte di appello, l’imputato si rivolge alla Corte di Cassazione. Manca il contrassegno SIAE. Occorre premettere, come fatto dalla S.C., che l’articolo in questione prevede, nel primo periodo, 2 distinte ipotesi di reato. La prima delle quali concerne l’abusiva duplicazione, per fine di profitto, di programmi per elaboratore mentre la seconda riguarda le attività, poste in essere sempre per fine di profitto, di importazione, distribuzione, vendita, detenzione a scopo commerciale o imprenditoriale o concessione in locazione di programmi contenuti in supporti di contrassegno SIAE. Tra gli aspetti presi in esame dalla S.C., quindi, quello che assume rilievo determinante nella fattispecie riguarda il reato di illecita importazione, distribuzione, vendita, detenzione, concessione in locazione di programmi per elaboratore di cui alla seconda ipotesi della prima parte del comma 1 dell’articolo 171 bis, legge numero 633/1941. Tale fattispecie ha ad oggetto esclusivamente programmi contenuti su supporti privi di contrassegno e non anche quelli abusivamente duplicati, di cui tratta la prima ipotesi. Viene dunque punita la violazione dell’obbligo di apporre il contrassegno SIAE sui supporti nel caso di detenzione degli stessi a fine commerciale o imprenditoriale. L’obbligo può esser fatto valere nei confronti di un privato? Tale obbligo, secondo la giurisprudenza comunitaria Corte di Giustizia europea 8 novembre 2007, Schwibbert , «costituisce una ‘regola tecnica’ che, qualora non sia stata notificata alla Commissione della Comunità europea, non può essere fatta valere nei confronti di un privato». È stato solo dopo l’accertamento della condotta oggetto di contestazione nel caso di specie 28 giugno 2006 , che è entrato in vigore il d.p.c.m. numero 31/2009, di approvazione della regola tecnica in adempimento della direttiva europea 83/179/CE procedura di informazione comunitaria nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche , la quale ha reso perseguibili penalmente le condotte successive al 21 aprile 2009. Per tali ragioni, di conseguenza, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 15 – 31 ottobre 2013, numero 44279 Presidente Squassoni – Relatore Ramacci Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Milano, con sentenza del 5.12.2012 ha confermato la decisione con la quale, in data 5.2.2008, il Tribunale di Corno aveva riconosciuto M M. responsabile del reato di cui all'articolo 171-bis legge 633/1941, per avere detenuto ed utilizzato, a scopo commerciale, sui computer in uso presso il proprio studio professionale, software abusivamente duplicati privi del contrassegno S.I.A.E. in omissis . Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione. 2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge, rilevando che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto come rientrante nell'attività di impresa contemplata dall'articolo 171-bis legge 633/1941 anche l'attività libero professionale, senza tenere conto del contrasto della disposizione penale applicata con la disciplina comunitaria. 3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta il vizio di motivazione, rilevando che l'imputazione contiene riferimenti alla sola detenzione per scopo commerciale del software, mentre la sentenza impugnata avrebbe considerato il diverso scopo imprenditoriale. Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso Considerato in diritto 4. Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati. Occorre preliminarmente rilevare che, per quanto è dato rilevare dall'imputazione e dal tenore del provvedimento impugnato, il ricorrente è stato chiamato a rispondere della illecita detenzione ed utilizzazione per scopo commerciale di software privo di “licenza S.I.A.E.”, rinvenuto installato su alcuni computer in uso presso il suo studio professionale di architetto. Va poi osservato che il ricorrente formula le sue censure sulla base di una pronuncia di questa Corte Sez. III numero 49385, 22 dicembre 2009 che il Collegio condivide pienamente. 5. Ciò premesso, appare opportuno richiamare sommariamente i principi stabiliti con la richiamata decisione. La sentenza ha, in primo luogo, chiaramente delimitato l'ambito di operatività dell'articolo 171-bis legge 633/1941, rilevando come esso preveda, nel primo periodo, due distinte ipotesi di reato, la prima delle quali concerne la abusiva duplicazione, per fine di profitto, di programmi per elaboratore, mentre la seconda riguarda le attività, poste in essere sempre per fine di profitto, di importazione, distribuzione, vendita, detenzione a scopo commerciale o imprenditoriale o concessione in locazione di programmi contenuti in supporti privi di contrassegno S.I.A.E. Viene poi precisato che il richiamo, contenuto nell'attuale formulazione della norma, allo scopo “commerciale o imprenditoriale” cui deve essere indirizzata la condotta prevista dalla seconda ipotesi della prima parte del comma 1, deve ritenersi riferito non soltanto alla finalità di futura rivendita a terzi, ma anche all'utilizzo dei programmi abusivi per le finalità proprie di una attività di impresa e ciò sul presupposto che il legislatore abbia appositamente considerato che l'utilizzo dei programmi, da parte di un imprenditore, per finalità riconducibili all'attività d'impresa, abbia caratteri tali da giustificare una disciplina diversa da quella di tutti gli altri utilizzi, meritevole di sanzione penale ed equiparabile alla detenzione per la commercializzazione. Sulla base di tali premesse, la richiamata pronuncia rileva che l'utilizzo dei programmi abusivi nell'ambito della attività di uno studio di un libero professionista non possa farsi rientrare nella nozione di attività di impresa, in primo luogo perché non sarebbe ragionevole sostenere la previsione, da parte del legislatore, di solo tre categorie di utilizzi commerciale, imprenditoriale e privato, ritenendo conseguentemente riconducibili tutti gli utilizzi diversi da quello privato nelle altre due categorie, poiché, dal tenore letterale della norma e dalla sua ratio emerge il contrario e, cioè, che gli usi individuati dal legislatore commerciale e imprenditoriale siano i soli ritenuti penalmente rilevanti. In secondo luogo, l’irrilevanza penale dell'utilizzazione in un'attività libero professionale viene esclusa sul presupposto che, avuto riguardo anche al più ampio significato del termine “imprenditoriale”, in esso non potrebbe comunque rientrare l'attività di un libero professionista che non sia esercitata nell'ambito di una attività organizzata nella forma di impresa, stante anche la evidente distinzione tra le diverse attività nelle disposizioni del codice civile e nella giurisprudenza civile di questa Corte. 6. Tali considerazioni, come si è detto, sono state poste a sostegno del ricorso. Esse sono pienamente condivisibili ma, con riferimento alla fattispecie esaminata dalla Corte territoriale, non paiono pertinenti, perché i giudici del gravame hanno esplicitamente valorizzato un dato fattuale trascurato dal ricorrente ma decisamente rilevante e concernente la circostanza che lo studio professionale era anche sede di una società a responsabilità limitata Ma.Vi s.r.l. della quale l'imputato è socio unico ed amministratore ed attraverso la quale venivano gestite e controllate altre società aventi sedi nei medesimi locali, ove prestavano la propria attività altri architetti che utilizzavano le strutture presenti e, per la remunerazione del loro operato, emettevano fatture alla suddetta società. Dunque, la compresenza di più società commerciali negli stessi locali con uso degli stessi mezzi rappresentano un accertamento in fatto sull'assetto imprenditoriale o commerciale dell'attività svolta dal ricorrente che consentiva ai giudici di merito di superare, in quanto estranee alla fattispecie esaminata, le opzioni ermeneutiche suggerite dalla sentenza 493852.p.l.d.d.p.p.d.c.S.numero d.u.l.p.e.r.s.a.l.d.,.c.i.r.,.t.l.c.,.r.a.c.d.p.e.l.m.,.c.s.a.r.l.i . .7 .N.,.v.è.u.a.a.c.l.r.p.p.i.e.e.c.i.a.r.d.a.numero f . .L.s.4. 2009 ha anche chiarito che il reato di illecita importazione, distribuzione, vendita, detenzione, concessione in locazione di programmi per elaboratore di cui alla seconda ipotesi della prima parte del comma 1 dell'articolo 171-bis legge 633/1941 ha ad oggetto esclusivamente programmi contenuti su supporti privi del contrassegno SIAE e non anche quelli abusivamente duplicati, di cui tratta la prima ipotesi. Viene dunque punita la violazione dell'obbligo di apporre il contrassegno S.I.A.E. sui supporti nel caso di detenzione degli stessi a fine commerciale o imprenditoriale o di importazione, distribuzione, vendita, concessione in locazione e tale evenienza, si ricorda, impone di prendere in considerazione la nota “sentenza Schwibbert” della Corte di giustizia Europea, ritenuta applicabile anche al reato in esame. 8. Occorre ricordare, a tale proposito, che, in tema di diritto d'autore, relativamente ai reati di detenzione per la vendita di supporti privi del contrassegno S.I.A.E., secondo la giurisprudenza comunitaria Corte di Giustizia Europea 8 novembre 2007, Schwibbert , dopo l'entrata in vigore della direttiva Europea 83/189/CEE, la quale ha previsto una procedura di informazione comunitaria nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche, l'obbligo di apporre sui compact disk contenenti opere d'arte figurativa il contrassegno SIAE in vista della loro commercializzazione nello Stato membro interessato, costituisce una regola tecnica che, qualora non sia stata notificata alla Commissione della Comunità Europea, non può essere fatta valere nei confronti di un privato. L'obbligo di apposizione del contrassegno sui supporti è stato introdotto successivamente all'entrata in vigore della menzionata direttiva comunitaria, senza che ne sia stata fatta comunicazione alla Commissione. Sulla base di tale presupposto, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto l'inopponibilità nei confronti dei privati dell'obbligo di apposizione del predetto contrassegno quale effetto dalla mancata comunicazione alla Commissione dell'Unione Europea di tale regola tecnica in adempimento della direttiva Europea 83/179/CE cfr. Sez. II numero 30493, 22 luglio 2009 Sez. III numero 34553, 3 settembre 2008 Sez. III numero 13816, 2 aprile 2008 . La successiva entrata in vigore del d.P.C.M. 23 febbraio 2009, numero 31, di approvazione della regola tecnica oggetto del procedimento di notifica alla Commissione UÈ numero 2008/0162/1, ha reso nuovamente perseguibili penalmente le condotte successive al 21 aprile 2009. 9. Nella fattispecie, tuttavia, la condotta oggetto di contestazione risulta accertata il 28.6.2006, quindi antecedentemente a tale data. Ne consegue che in adesione ai richiamati principi ed in accoglimento del ricorso la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con la formula “perché il fatto non sussiste”, secondo l'indirizzo maggioritario espresso dalla giurisprudenza di questa Corte cfr. Sez. III numero 1073, 13 gennaio 2010 . P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.