Il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore. La previsione del d.lgs. numero 6/2006 secondo cui il piccolo imprenditore non è soggetto alla disciplina del fallimento, non influenza minimamente i procedimenti penali in corso.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 11256, depositata l’11 marzo 2013. Bancarotta a 4 mani, anzi, 8. Due coppie di coniugi concorrono nella commissione del reato di bancarotta fraudolenta. I due uomini sono i reali gestori, una delle mogli collabora nella gestione e viene processata con procedimento separato. All’altra moglie, poco prima del fallimento, viene ceduta la ditta. I due gestori effettivi vengono quindi condannati a 2 anni di reclusione. Ma la bancarotta per i piccoli imprenditori non è più prevista. I due imputati ricorrono per cassazione, sostenendo che erroneamente non sarebbe stata valutata l’abolitio criminis, visto che l’articolo 1 della legge fallimentare è stato modificato dal d.lgs. numero 6/2006, prevedendo che le disposizioni sul fallimento non sono applicabili a quelle imprese medio piccole che non abbiano raggiunto, nei tre anni precedenti, determinate soglie di guadagno e di fatturato. Essendo piccola l’impresa, non sarebbero condannabili per bancarotta, non potendo essere dichiarato il fallimento. Il processo penale si basa su una sentenza di fallimento pre-riforma. La Corte rileva che le modifiche non influenzano i processi penali in corso che si basano su una sentenza dichiarativa di fallimento pervenuta secondo la precedente previsione, che appunto non escludeva i piccoli imprenditori. «Il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore». Corretta valutazione di colpevolezza. Rispetto alle censure circa l’errata valutazione di colpevolezza, la Corte afferma che i due risultano senza alcun dubbio come reali gestori dell’attività e che quindi non potevano non essere a conoscenza dell’ammanco di 23mln di lire dalla cassa. Rispetto a tale somma i due imputati non hanno fornito alcuna giustificazione. Irrilevante poi la cessione dell’azienda alla moglie di uno dei due, poco prima del fallimento, «essendo chiara la volontà degli odierni ricorrenti di agire in frode ai creditori con il tentativo di proseguire l’attività di impresa sotto diverso nome». Per questi motivi la Corte rigetta il ricorso, confermando le decisioni di condanna.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 18 gennaio – 11 marzo 2013, numero 11256 Presidente Marasca – Relatore Palla Fatto e diritto B.D. e R.R. ricorrono avverso la sentenza 8.6.11 della Corte di appello di Palermo che ha confermato quella in data 21.5.09 del locale tribunale con la quale sono stati condannati, per il reato di bancarotta fraudolenta loro ascritto in concorso ed anche con V.M.C. , separatamente giudicata , riconosciuta la prevalenza della attenuante di cui all'ultimo comma dell'articolo 219 l.fall. sulla recidiva contestata al B. , alla pena di due anni di reclusione ciascuno, oltre le pene accessorie di legge. B. deduce, con il primo motivo, violazione dell'articolo 606, comma 1, lett. b ed e c.p.p. per averne la Corte di merito illogicamente ritenuto la responsabilità senza considerare che il fallimento era stato originato da un'istanza avanzata, per un credito, corrispondente a due assegni postali emessi da V.M. moglie del coimputato R. e risultati insoluti, di Euro 5.529,46, comprensivo di spese legali, dal condominio dello stabile ove aveva sede la ditta che l'atto di cessione dell'azienda alla moglie del B. , A.A. , in data 11.2.02, non era mai stato registrato alla Camera di commercio e, infine, che la fallita aveva tenuto la contabilità in maniera semplificata, ai sensi dell'articolo 2214 c.c., mentre le scritture contabili, affidate nel tempo a due commercialisti, erano state depositate nella cancelleria del tribunale fallimentare il 31.3.03 dal coimputato R. , il quale aveva coadiuvato la V. nella gestione dell'azienda, circostanza ignorata dai giudici di appello, residuando il dubbio che il Bonito potesse ignorare il presunto ammanco di cassa, mai essendo entrato in possesso delle scritture contabili. Con il secondo motivo si lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche, illegittimamente negate con determinazione di una pena non proporzionata al disvalore della condotta posta in essere. R. lamenta, con il primo motivo, violazione dell'articolo 606, comma 1, lett. b ed e c.p.p. per non essere stato assolto in conseguenza della intervenuta abolitio criminis di cui al d.lgs. numero 5/06, trattandosi di piccolo imprenditore e, con il secondo, si duole della mancata concessione delle attenuanti generiche, erroneamente negate nonostante lo stato di incensuratezza. Osserva la Corte che i ricorsi non sono fondati. Ricordato, quanto alla prima doglianza del R. , come il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta non possa sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell'imprenditore, sicché le modifiche apportate all'articolo 1 della legge fallimentare dal d.lgs. numero 5/06 e dal d.lgs. numero 169/07 non esercitano influenza, ai sensi dell'articolo 2 c.p., sui procedimenti penali in corso Sez. unumero , 28 febbraio 2008, Niccoli, rv 239398 , in ordine al secondo motivo va rilevato come non evidenzi il ricorrente quali elementi di segno positivo non sarebbero stati presi in considerazione dai giudici di appello ai fini della concessione delle attenuanti generiche, al di là del dato formale dell'incensuratezza, laddove peraltro la Corte di merito, seppure laconicamente, fatto riferimento “comunque” ai criteri di cui all'articolo 133 c.p. nel ritenere congruo il trattamento sanzionatorio determinato dal primo giudice. In ordine alla posizione di B.D. , i giudici territoriali hanno compiutamente motivato circa il ruolo di amministratore di fatto rivestito dal prevenuto all'interno della ditta individuale “Jack D. Caffè”, sottolineando come il coacervo probatorio acquisito abbia consentito di accertare senza alcun margine di dubbio che B. e R. erano i reali gestori dell'attività imprenditoriale in argomento, agendo in concorso anche con V.M.C. separatamente giudicata , essendo in tal modo loro riferibile l'ammanco di 23 milioni di lire accertato dalla Guardia di finanza all'esito dell'esame della contabilità depositata nel corso della procedura fallimentare, somma in ordine alla quale - ha rimarcato ancora la Corte palermitana - non era stata fornita dai prevenuti giustificazione alcuna, laddove poi correttamente è stato ritenuto irrilevante, ai fini della esclusione della responsabilità, l'avvenuta cessione alla moglie del B. , in tempo di poco anteriore alla dichiarazione di fallimento, del complesso aziendale, essendo chiara la volontà degli odierni ricorrenti di agire in frode ai creditori con il tentativo di proseguire l’attività di impresa sotto diverso nome. Infine, del tutto legittimamente sono state negate al B. le invocate attenuanti generiche, in considerazione dei precedenti penali a suo carico, trattandosi di parametro considerato dall’articolo 133 c.p. ed applicabile anche ai fini di cui all’articolo 62-bis c.p Al rigetto dei ricorsi segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese processuali.