Confermata la condanna nei confronti di un giovane che aveva preso di mira una coppia. Respinta la tesi del difensore, che aveva richiamato come elemento a favore la condizione psicologica borderline dell’uomo. L’assunzione volontaria di droghe ha sì annullato la capacità di intendere e di volere, ma ciò non può condurre a una condizione di non imputabilità.
Psiche borderline, di partenza. Aggravata, però, dall’uso volontario di sostanze stupefacenti. E proprio questo passaggio azzera la possibilità di appigliarsi alla non imputabilità per incapacità di intendere e di volere Cassazione, sentenza numero 9847/2013, Quinta Sezione Penale, depositata oggi . Psiche. A finire sotto accusa è un giovane, al quale vengono addebitati i reati di «violazione di domicilio, porto abusivo di due coltelli, ingiuria e minaccia», commessi ai danni di una coppia. Nessun dubbio per i giudici, che optano per la condanna. Nonostante la tesi difensiva della «incapacità di intendere e di volere», poggiata sulla perizia compiuta su incarico del Giudice per le indagini preliminari, perizia che si era conclusa con «la rilevazione di una condizione borderline, ossia una malattia psichica a cavallo tra la nevrosi e la psicosi» e con la affermazione che «la capacità di intendere e di volere» del giovane al momento dei fatti «era verosimilmente abolita per gli effetti che le sostanze stupefacenti», ‘Lsd’ per la precisione, «assunte avevano determinato». Abuso. E questo nodo viene riproposto, dal difensore del giovane, anche in Cassazione, laddove è duramente criticata la decisione di secondo grado, perché fondata su una perizia – assolutamente in controtendenza rispetto a quella effettuata in primo grado – in cui si asserisce che le sostanze stupefacenti «produttive di effetti limitati in un soggetto che non ne risultava dipendente, doveva ritenersi fossero state assunte in forma del tutto volontaria» e, quindi, «era possibile affermare che i fatti fossero stati commessi sotto l’effetto della ‘Lsd’». Perché privilegiare questa visione, domanda il difensore, rispetto a quella emersa nel primo grado di giudizio? E comunque, sostiene ancora il difensore, deve esser dato maggiore peso alla «condizione borderline» del giovane, soprattutto tenendone presente «il pregresso stato di malattia psichica». Ai dubbi proposti dal difensore, però, i giudici della Cassazione ribattono in maniera netta, specificando che il giudice di secondo grado aveva tenuto conto di entrambe le perizie per affermare che «la condizione borderline non era di intensità tale da far configurare una causa autonoma di esclusione della capacità di intendere e di volere, essendo stata solo ‘slatentizzata’, e per un periodo di tempo circoscritto, dalla successiva assunzione delle anfetamine». Volendo essere più chiari, è assolutamente fondata la considerazione che la condizione borderline del giovane era «non particolarmente intensa e grave, dunque non idonea a costituire infermità mentale», mentre le sostanze stupefacenti ne «avevano sì abolito la capacità di intendere e di volere». Ciò comporta, in maniera logica, che il giovane ha «commesso i reati dopo avere assunto consapevolmente e volontariamente sostanze stupefacenti», che, quindi, «non escludevano né diminuivano l’imputabilità».
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 30 gennaio – 1° marzo 2013, numero 9847 Presidente Grassi – Relatore Vessichelli Fatto e diritto Propone ricorso per cassazione B.M. avverso la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta in data 31 gennaio 2012 con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna in ordine ai reati di violazione di domicilio, porto abusivo di due coltelli, ingiuria e minaccia, commessi il 21 luglio 2006 ai danni di numero E. e S.A. Con l’unico motivo di ricorso deduce la violazione di legge articoli 85, 88, 89 c.p. nonché 125 c.p.p. in relazione all’omesso riconoscimento, in suo favore, dell’incapacità di intendere di volere nella forma totale o parziale. Evidenzia che agli atti del processo risultano acquisite due perizie una prima eseguita dal Dott. V., su incarico del Gip, a ridosso dei fatti per i quali è processo che aveva concluso con la rilevazione, a carico dell’imputato, di una condizione borderline ossia una “malattia psichica” a cavallo tra la nevrosi e la psicosi. Tale perito aveva, invero, anche affermato che la capacità di intendere di volere del periziato, al momento in cui furono commessi fatti, era verosimilmente abolita per gli effetti che le sostanze stupefacenti da esso assunte, avevano determinato. Una seconda perizia, su incarico del Tribunale di Gela, era stata eseguita tre anni dopo la prima, nel 2009. Anche tale perito, dottor B. aveva rilevato un disturbo di personalità di tipo borderline in soggetto con pregresso abuso di sostanze stupefacenti. Aveva tuttavia aggiunto che tali sostanze, produttive di effetti limitati nel tempo in un soggetto che non ne risultava dipendente, doveva ritenersi fossero state assunte in forma del tutto volontaria ed era anche possibile affermare che i fatti di reato in contestazione fossero stati commessi sotto l’effetto dell’LSD. Ciò posto, rilevava il difensore di avere già argomentato dinanzi al giudice dell’appello come la tesi del primo perito fosse quella da preferire, avendo quella attribuito la commissione del fatto ad un soggetto affetto da patologia psichica, indipendentemente dall’uso di sostanze stupefacenti e ciò sul rilievo che la giurisprudenza di legittimità riconosce al disturbo di personalità la possibile qualità infermità psichica, sulla base della sua intensità e gravità. Denuncia oggi, la stessa difesa, che la Corte d’appello ha ritenuto di poter confermare la decisione del primo giudice ricomponendo in maniera autonoma le conclusioni dei due periti e ritenendole - con motivazione però manifestamente illogica - non difformi l’una dall’altra. In sostanza, la difesa critica la decisione della Corte d’appello consistita nell’aver ritenuto -diversamente dal primo giudice e comunque in contrasto con la giurisprudenza di legittimità - non decisiva la condizione borderline. Secondo la difesa, cioè, la Corte d’appello non avrebbe dovuto arrestarsi alla affermazione che gli atti erano stati commessi da soggetto indotto, dall’uso di droghe, in stato di incapacità di intendere e di volere, mentre si sarebbe dovuto adeguatamente valorizzare anche il pregresso stato di malattia psichica. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato. Non sono qui in discussione i principi di diritto evocati dalla difesa nel ricorso, tutti tesi a riconoscere che in tema di imputabilità, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di infermità, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere dell’autore del reato, e a condizione che sussista un nesso eziologico per effetto del quale il fatto di reato possa ritenersi causalmente determinato dal disturbo mentale Rv. 245253 Conformi numero 1038 del 2006 Rv. 233278, numero 8282 del 2006 Rv. 233228, numero 2774 del 2009 Rv., 242710 Sez. U, Sentenza numero 9163 del 25/01/2005 Ud. dep. 08/03/2005 Rv. 230317 . Ed infatti, nella sentenza impugnata si sostiene, in maniera argomentata, che il primo perito si era limitato a rilevare che la condizione psichica borderline riconoscibile in capo all’imputato non era la causa diretta ed immediata dei fatti per i quali è processo posto che la effettiva determinazione causale era da ricondurre, piuttosto, all’assunzione delle sostanze stupefacenti del tipo LSD che avevano, esse sì, abolito la capacità di intendere di volere dell’imputato per un periodo di tempo circoscritto a poche ore e coincidente con quello in cui erano stati commessi reati. In altri termini, secondo la conclusione motivatamente raggiunta dal giudice dell’appello, desunta da entrambe le perizie, la condizione borderline non era di intensità tale da far configurare una causa autonoma di esclusione della capacità di intendere di volere, essendo stata solo “slatentizzata”, e per un periodo di tempo circoscritto, dalla successiva assunzione delle anfetamine. Ed infatti lo stesso dottor V. aveva anche aggiunto di avere verificato che le analisi cui aveva sottoposto l’imputato ne avevano dimostrato l’assenza di dipendenza da sostanze stupefacenti, tanto da poter concludere, appunto, che la capacità di intendere di volere era rimasta esclusa per l’effetto delle sostanze stupefacenti medesime. Queste, secondo lo stesso perito, erano all’origine della trasformazione della condizione borderline - in sé capace di indurre nell’imputato una semplice nevrosi - in una vera propria condizione psicologica nella quale è esclusa la capacità di intendere di volere. Tale conclusione era, come dimostrato, concorde con quella del secondo perito dottor B. A costui si doveva infatti la analoga affermazione del riconoscimento, in capo all’imputato, di una condizione borderline non particolarmente intensa e grave e dunque non idonea a costituire infermità mentale. Il ragionamento esibito dal giudice dell’appello risulta, come è evidente, del tutto logico e plausibile e non è dunque ulteriormente censurabile nella presente sede, dovendosi ritenere congruamente motivata la tesi del avere, l’imputato, commesso i reati che gli sono stati contestati dopo avere assunto consapevolmente e volontariamente sostanze stupefacenti che non escludevano, dunque ne diminuivano l’imputabilità, secondo gli scherni degli articoli 93 e 92 primo comma cp. P.Q.M. rigetta il ricorso a condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.