Compassione

Le periferie del c.d. biotestamento sono popolate da note intersezioni tra diritto e medicina. La persona è al centro del primo e della seconda, ma questo, a volte, non basta.

In medicina c’è poco o niente di matematico, di esatto, come del resto dimostra il suo continuo evolversi accade in ambito strumentale prima che diagnostico e terapeutico. Le patologie sono lette secondo nuovi lessemi, non per un capriccio retorico ma per il progresso anche negli strumenti di cura. Epatite C e tumori ematologici alcuni si attestano quali campi di emersione del perenne maquillage della medicina, da intendersi quale riassetto scientifico piuttosto che ridefinizione d’immagine. Nelle disposizioni sul c.d. fine vita e sul “biotestamento” si misurano inciampi semantici che tristemente contraddicono ed invertono il trend evolutivo della scienza medica. Facili spunti in tema di consenso informato. Dalla concezione paternalistica tradizionalmente fondante il rapporto tra medico e paziente si va verso esigenze di conoscenza dal volto ormai chiaro. A cosa si ac consente, se non all’intervento di chi ha giurato di prendersi cura della salute dell’altro? Se un tempo il medico doveva evitare di nascondere – tanto bastava a dire adeguatamente consapevole il paziente – oggi il professionista deve informare, che, si badi, è molto più che comunicare. Non basta dire, occorre spiegare, dar modo di avere una percezione piena, talvolta persino alfabetizzare. Tutto semplice, o forse no, restando ad una coerenza dialettica, ma poi, in concreto, occorre sapere, comprendere, ma cosa si può conoscere? E chi può “insegnare”? Consentire a qualcosa implica l’individuazione di quel qualcosa, ed oggi l’impresa si fa più che mai ardua nutrizione e idratazione artificiali, per esempio vi si fa ricorso anche per fronteggiare situazioni patologiche del tutto reversibili e, dunque, nient’affatto terminali l’habitus mentale le colloca tra le emergenze di fine vita. Oltre al consenso come oggetto, c’è il problema del consenso come responsabilità. L’articolo 3, comma 5, l. 22 dicembre 2017, numero 219 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento dispone che «Nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l'amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento DAT di cui all'articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice», dal che si coglie un possibile contrasto tra parenti del malato e medico in ordine all’intervento terapeutico al margine, ma senza per questo rivestire una posizione secondaria, la clausola di salvezza che accorda importanza primaria alle disposizioni anticipate di trattamento homo faber fortunae suae. Torniamo all’oggetto del consenso l’articolo 5, comma 2, prevede che «Il paziente e, con il suo consenso, i suoi familiari o la parte dell'unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia sono adeguatamente informati , in particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure palliative». Qui l’horror vacui ci assale inevitabilmente quali patologie meritano tale consenso? Come fare a stabilire se sono in atto oppure no? Basta una patologia qualsiasi a introdurre il tema del fine vita? Anche una prognosi impossibile l’evolversi della patologia quale può essere? Soggettivo «quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità di vita» è parametro utile? Prima ancora, è oggettivo? E ancor prima, è conoscibile? Le cose si complicano ulteriormente cimentandosi con il futuro della medicina tout court – forse lo fa un legislatore sprovveduto, o populista, tanto per cambiare – come predire di anni e/o decenni la/le patologie che saranno incurabili e quelle che non lo saranno? Con quale percentuale di probabilità o certezza affrontiamo un “consenso informato” di questo tipo? E come può percepire e comprendere l’informazione un soggetto che non è provvisto di strumenti conoscitivi “pieni”, o semplicemente di una condizione giuridica di piena disponibilità dei diritti perché minore o interdetto, per esempio . Di più, chi vive un momento così critico è mai veramente libero di decidere? A volte – va dato questo elemento – il malato cronico è visto in modo diverso, dismesso l’aut aut, e gli viene consentita una possibilità di vita utile alternativa al fine vita, un “piano B” di tutto rispetto. Il punto, del resto, non è nemmeno quale sia lo standard assistenziale fuori dall’Italia, bensì, più semplicemente, la libertà di scelta, perché la morte non può/non deve mai essere l’unica scelta. Persino nel caso di morte cerebrale, le cose sono meno semplici di quel che appare, anzitutto perché si fanno ancora i conti con l’ampiezza del concetto la prassi invalsa da tempo in Paesi di tutto il mondo fornisce uno spunto prezioso col consenso dei parenti più stretti DAT , magari alla donazione degli organi, si giunge a “staccare la spina”. La SLA o la sclerosi multipla, per esempio, implicano soluzioni difficilmente generalizzabili il rapporto medico paziente è tutt’affatto particolare, connotato da grande sintonia e affezione, oltre che da necessaria professionalità e preparazione del dottore. Così, non tutti i malati di sclerosi multipla muoiono o si ammalano presentando uguali sintomi o segni la malattia, pur conosciuta e definita nei suoi aspetti generali, si rende unica ed irripetibile in ragione della persona che la soffre! Per i profani, capita spesso di riflettere su questi temi per rispondere a luoghi comuni e stimoli provvisti di risonanza mediatica tentazioni alle quali un “giurista” dovrebbe restare immune. Per i medici, in una visione ideale del mondo, l’essere vivente “uomo” e l’essere vivente “uomo malato” non sono mai pienamente prevedibili ogni medico lo sa ogni medico lo vive, ogni giorno. La morte attende tutti e in tal senso. come dire, essa non è un problema banalmente, non c’è scienza o diritto che possa mutare questo dato. Tuttavia, se il problema di medicina e bio diritto non è la morte ineluttabile, si possono impiegare ed impegnare risorse comuni per fare dell’umana compassione la cifra comune delle situazioni di malattia che volgono inesorabilmente al fine della vita . * Dott.ssa Annabella Burdi, nata a Bari il 10-04-1973, laureata in medicina con il massimo dei voti presso l’Università Cattolica del Sacro cuore di Roma e specializzata in anestesia e rianimazione sempre presso l’Università Cattolica del Sacro cuore di Roma con tesi sulla terapia del dolore, merito . Vincitrice di concorso come dirigente medico di primo livello 2001 .