Sul treno senza biglietto, il capotreno la ferma e lei bluffa sulla propria identità: condannata

Confermata la sanzione stabilita in Appello otto mesi di reclusione. Evidente, anche secondo i Giudici della Cassazione, l’obiettivo della donna, cioè fornire false generalità al controllore che l’aveva fermata per verificare il suo titolo di viaggio.

Bluff subito scoperto e punito con otto mesi di reclusione. Questa la sanzione per una donna che, beccata a viaggiare senza biglietto su un convoglio ferroviario, ha fornito false generalità al capotreno che stava controllando i titoli di viaggio dei passeggeri Cassazione, sentenza numero 41824, sezione quinta penale, depositata il 26 settembre 2018 . Indicazioni. Ricostruito l’episodio, i Giudici del Tribunale e quelli della Corte d’Appello si sono mostrati concordi sulla lettura del comportamento tenuto dalla passeggera del treno. A loro parere è legittima la condanna per «falsa dichiarazione sulla propria identità a un pubblico ufficiale». Questa visione – con la connessa sanzione penale – viene contestata dall’avvocato della donna. In particolare, il legale sostiene che «il controllore non aveva mai ricevuto vere generalità, essendo confuse le espressioni utilizzate» dalla sua cliente e sicuramente «inidonee a trarre in inganno» il capotreno. L’obiezione difensiva non convince però i Giudici della Cassazione, i quali confermano la pronuncia emessa in secondo grado, rendendo così definitiva la condanna della donna a otto mesi di reclusione. Per i magistrati è inaccettabile la tesi prospettata dalla difesa e centrata sulla presunta «assenza di un intento della donna di fornire false generalità. A smentire il legale è il dato delle «false indicazioni, circa la data di nascita ed il luogo di residenza» fornite dalla donna. E significativo è ritenuto, in ottica accusatoria, anche il fatto che «ella, appena interpellata dall’agente ferroviario, aveva esordito asserendo, contrariamente al vero, di non avere con sé alcun documento d’identità».

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 5 aprile – 26 settembre 2018, numero 41824 Presidente Bruno – Relatore Mazzitelli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza, emessa in data 14/10/2016, la Corte d'Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza emessa in data 13/04/2015 dal Tribunale di Bologna, assolveva Eg. Ha. dal delitto, sub b , ex articolo 594 c.p., perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, e riduceva a mesi 8 di reclusione la pena inflitta per il reato, sub A , contestato ai sensi dell'articolo 495 c.p., per aver fornito false generalità al capo treno Minardi Marco, il quale le aveva contestato la violazione amministrativa di aver viaggiato su un treno senza biglietto ferroviario. 2. L'imputata, tramite difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione avverso tale provvedimento, con cui deduce l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, stante la notificazione all'imputata dell'avviso di fissazione dell'udienza avanti alla Corte d'Appello a mezzo PEC. Parte ricorrente allega che l'utilizzo della PEC, da parte delle cancellerie, è consentito, nei procedimenti penali, a norma dell'articolo 148 c.p.p., e. 2 bis, 149 e 150 c.p.p., e 151 c.p.p., comma 2, a persona diversa dall'imputato. La notificazione in questione all'imputata avrebbe dovuto essere completata con mezzi ordinari ai sensi dell'articolo 148, comma 1 c.p.p. e dunque a mezzo dell'ufficiale giudiziario o al più a mezzo del servizio postale. La ricorrente allega altresì la carenza di motivazione circa l'idoneità o meno della condotta della prevenuta a ledere il bene giuridico protetto dalla norma asseritamente violata ai sensi dell'articolo 49, secondo comma, c.p L'analisi del modulo per la rilevazione delle generalità dei viaggiatori conteneva, nella parte relativa al cognome del viaggiatore, varie espressioni, tra cui EG , cancellata con due tratti di penna. In sostanza, il controllore non aveva mai ricevuto vere generalità, essendo confuse le espressioni utilizzate dall'imputata, inidonee a trarre in inganno chicchessia. Ne conseguirebbe l'inidoneità della condotta, ai sensi dell'articolo 49, secondo comma, c.p., profilo del tutto pretermesso dal giudice del secondo grado. A ciò si aggiungerebbe la considerazione secondo cui la ratio sottesa all'articolo 495 c.p. sarebbe connessa alla tutela della pubblica fede, implicante la valutazione dell'idoneità della condotta a ledere il bene giuridico protetto. Considerato in diritto 1. Il ricorso è manifestamente infondato. Innanzitutto va posto in evidenza che la notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza avanti alla Corte d'Appello a mezzo PEC risulta effettuata presso il difensore di fiducia, avv. Ar., presso il quale era stato eletto il domicilio, essendo l'utilizzo della PEC consentito nei confronti del difensore domiciliatario. E' sufficiente osservare, al riguardo, che un recente orientamento giurisprudenziale ha riconosciuto la validità della notificazione, fatta tramite l'ausilio delle comunicazioni elettroniche al difensore, sia in proprio sia in qualità di domiciliatario, con un'unica copia Sez. 1, numero 12309 del 29/01/2018 - dep. 16/03/2018, Vi., Rv. 272313 . E ciò in considerazione evidente di principi di economia processuale, avuto riguardo al rapporto fiduciario, intercorrente tra il difensore e l'imputato. 2. Per quanto poi attiene ai restanti profili, trattati nel ricorso, e, in particolare, ai vizi, di natura argomentativa, circa l'idoneità della condotta, tenuta dall'imputata, rispetto alla lesione del bene, protetto dalla norma, ossia dall'articolo 495 c.p., con riferimento all'articolo 49 c.p., va osservato che sul punto specifico il provvedimento impugnato è congruamente motivato. L'estensore, invero, ha ribadito l'inaccettabilità della tesi, prospettata dalla difesa circa l'assenza di un intento della prevenuta di fornire false generalità, essendo detta tesi smentita dalle false indicazioni, circa la data di nascita ed il luogo di residenza. Parimenti, ha poi osservato il Tribunale, l'imputata, appena interpellata dall'agente ferroviario, aveva esordito, asserendo, contrariamente al vero, di non avere con sé alcun documento d'identità. La motivazione risulta esaustiva e determinante, a nulla valendo le argomentazioni odierne della difesa, circa indicazioni confuse, di per se inidonee a trarre in inganno circa l'effettiva identità della prevenuta, alla stregua del cd. reato impossibile, ex articolo 49 c.p., rispetto al bene giuridico tutelato dalla disposizione incriminatrice, coincidente con la tutela della pubblica fede. 2. Alla luce delle considerazioni esposte, si deve, pertanto, dichiarare l'inammissibilità del ricorso, con contestuale condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma, che si reputa equo determinare in Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 a favore della Cassa delle ammende.