Ironia su Facebook: condannato per diffamazione

Messaggi pubblicati online per censurare e deridere i presunti comportamenti autoritari di un ‘capo area’ verso i propri operai. Secondo i Giudici, però, il contenuto degli scritti è chiaramente offensivo.

Ironia a piene mani su Facebook. Nel mirino i presunti atteggiamenti autoritari di un ‘capo area’ in uno stabilimento in Puglia. I messaggi pubblicati però comportano ripercussioni a livello penale l’autore viene condannato per il reato di diffamazione Cassazione, sentenza n. 49506/2017, Sezione Quinta Penale, depositata il 27 ottobre 2017 . Contenuto. Ricostruita la vicenda, anche grazie a un monitoraggio dei post sul social network, i Giudici, prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello, ritengono incontestabile il fatto che l’autore dei messaggi, ironici e sprezzanti, sia responsabile di avere offeso la reputazione della persona citata, a cui sono stati attribuiti atteggiamenti autoritari nei confronti degli operai dell’area di cui era responsabile all’interno dello stabilimento. Consequenziale è la condanna per diffamazione , con pena fissata in 1.000 euro . E questa decisione viene ora resa definitiva dai magistrati della Cassazione, i quali considerano evidente l’offensività del contenuto dei messaggi condivisi su Facebook. In particolare, viene sottolineato che le frasi pubblicate on line hanno un contenuto immediatamente offensivo, in quanto evocativo di una gestione autoritaria , poi estremizzata col riferimento al ‘grande Adolf’ . Inequivocabile il connotato delle parole utilizzate, legittima, di conseguenza, la condanna per diffamazione .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 19 luglio – 27 ottobre 2017, n. 49506 Presidente Lapalorcia – Relatore Mazzitelli Ritenuto in fatto Con sentenza, emessa in data 13/12/2016, la Corte d'Appello di Lecce confermava la sentenza, emessa in data 27/01/2015, dal Tribunale di Taranto, con cui Se. Lo., previa concessione delle attenuanti generiche, equivalenti alla contestata aggravante, era stato condannato alla pena di Euro 1.000,00, oltre al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore della parte civile costituita, in relazione al delitto di cui agli art. 81 cpv e 595, comma 3, cod. pen., per aver offeso l'onore ed il decoro di Al. Fr., in qualità di capo area del reparto PNA2, presso lo stabilimento ILVA spa di Taranto, e, segnatamente, per aver, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, offeso la reputazione del predetto, mediante la diffusione, via internet, attraverso il social network Facebook , di messaggi, contenenti riferimenti ad atteggiamenti autoritari del medesimo, nei confronti degli operai dell'area lavorativa, di cui l'Alba era responsabile, quali comunicati del seguente tenore in data 26 maggio 2010, un comunicato nel quale si legge fossi stato io il capo di quel reparto, avrei reagito solo come il grande Adolf avrei posto in ferie forzate i miei più stretti collaboratori, avrei negato anche quel piccolo diritto che si chiama respirare a tutti i miei leccapiedi soprattutto avrei trasferito in aree a rischio cassa integrazione tutti quelli che mi sono antipatici avrei continuato ad urlare per tutto il treno ..qui comando io e non si parla di libertà in data 2 luglio 2010, altro comunicato del tenore testuale In data di ieri, i lavoratori che non avrebbero dovuto lavorare sabato e domenica, sono stati requisiti dal capo e invitati allo straordinario di sabato e domenica i misteri dell' alba che molto tranqui fina impone il suo volere ai lavoratori e, grazie ad un sindacato che non c'è, continua ad esercitare il suo potere ed ancora, in data 5 agosto 2010 e 21 agosto 2010, altri due messaggi, contenenti analoghe affermazioni, fatto commesso in Palagiano, sino al 21 agosto 2010. La corte territoriale, nella sentenza, evidenziava che era certa la riconducibilità dei messaggi al Se., non avendo costui denunciato furti di account Facebook e comparendo la sua immagine nella foto della pagina Facebook, tanto più che in uno dei post si era fatto riferimento ad una querela subita, sporta nei confronti del Se. dall'attuale parte civile, per i fatti oggetti di causa e che le affermazioni, contenute nei messaggi, erano chiaramente offensive, non essendo stato dedotto nulla, per di più, circa la veridicità dei fatti addebitati all'Alba e, da ultimo, che i fatti in contestazione, stante la loro gravità, non potevano essere ricondotti alla disposizione, contenuta nell'art. 131 bis cod. pen., e che si dovevano ritenere infondate le doglianze, mosse dall'imputato, in relazione al trattamento sanzionatorio. Se. Lo., tramite difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo 1 inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b , mancando un contenuto offensivo, tale da porre in pericolo il bene giuridico tutelato, ossia l'onore ed il decoro della presunta persona offesa. Apparirebbe, nei messaggi in contestazione, un gioco di ruolo , essendo chiara la volontà dell'autore di esternare i propri intendimenti in una situazione ipotetica, in cui il medesimo avesse ricoperto il ruolo di capo reparto, in concreto esercitato dalla P.O., sicché non sarebbe ravvisabile un attacco diretto alla figura dell'odierna parte civile. Ciò, tanto più, considerato il fatto che negli altri post , era emergente un risentimento, da attribuirsi maggiormente al sindacato, che alla sedicente persona offesa. Non essendo stata sporta alcuna denuncia-querela da parte del sindacato, ne deriverebbe un vizio del procedimento ab initio 2 carenza di motivazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b , posto che, nel provvedimento impugnato, mancherebbe la spiegazione dimostrativa, circa l'offensività delle espressioni, attribuite al Se. 3 mancata assunzione di una prova decisiva, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d cod. proc. pen., essendo stata richiesta, nel corso del procedimento, dalla difesa dell'imputato l'ammissione di una consulenza tecnica, atta a verificare, mediante ricerche di natura informatica, la provenienza dei messaggi, attribuibile al Se., accertamento tecnico poi rivelatosi impossibile, a detta del consulente, nominato in primo grado. Il giudice del secondo grado, nonostante la questione fosse stata riproposta, non aveva preso posizioni sul punto, per cui, sotto tale profilo, la motivazione si doveva ritenere carente 4 contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e , codice di rito, in considerazione del fatto che, nella sentenza impugnata, non era stato chiarito se i messaggi, scritti sulla bakeca, luogo virtuale, come tale accessibile a tutti gli utilizzatori del social network, provenienti dall'account del Se., in effetti erano stati inviati dal medesimo ovvero da altri utenti che in ipotesi avessero avuto accesso al profilo dell'odierno ricorrente. Ciò, tanto più, considerati gli interventi di altri utenti sull'argomento e l'impossibilità di certezze tecniche. In sostanza, secondo parte ricorrente, le argomentazioni, contenute nella sentenza di secondo grado, non comproverebbero, in modo assoluto, l'identificazione dell'autore del reato. Parte ricorrente ha poi concluso, chiedendo l'annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio ad altra corte d'appello, per vizi di violazione di legge, ovvero l'annullamento, senza rinvio, con contestuale assoluzione del Se., con formula di giustizia, per vizi di natura argomentativa. Considerato in diritto Il presente ricorso è inammissibile, stante la manifesta infondatezza delle censure, sottese al medesimo. Segnatamente, non colgono nel segno i rilievi, essenzialmente di natura argomentativa, ancorché connessi, altresì, alla dedotta violazione della legge penale, con riferimento precipuo all'ipotesi criminosa della diffamazione, concernenti la mancata percezione, per l'inverso, immediata, della carenza di offensività del contenuto dei messaggi in contestazione e, nel contempo, la mancata dimostrazione, nel provvedimento impugnato, di tale requisito, essenziale per l'accertamento della responsabilità. Le frasi, riportate nel testo del provvedimento impugnato, fanno un chiaro riferimento al ruolo dell'Alba, peraltro citato, sia pure per perifrasi, con un contenuto immediatamente offensivo, in quanto evocativo di una gestione autoritaria, ironicamente portata alle estreme conseguenze, in un apparente gioco delle parti. Questo è il senso complessivo del provvedimento, inequivocabile, sia pure, in talune parti, implicito trattasi di una motivazione, del tutto congruente, pienamente conforme al caso concreto, immancabilmente connotato da una direzione degli scritti, verso la figura dell'odierna parte civile, essendo il riferimento al sindacato, non partecipe alle vicende interne dello stabilimento Ilva, meramente complementare e sostanzialmente finalizzato ad una constatazione della realtà. Altrettanto incongruenti devono considerarsi le restanti censure, pertinenti, alla mancata ammissione di una prova decisiva, profilo, questo, immancabilmente legato alla dimostrazione della rilevanza della prova richiesta, nello specifico contesto processuale, e, per l'inverso, nella fattispecie, destituito di ogni valenza, ad opera dello stesso ricorrente, a seguito del riferimento al riscontro di un'impossibilità di natura tecnica. Parimenti, non sono accoglibili le prospettazioni di incertezza, su un piano astratto, circa l'identificazione dell'autore del reato nel Se., avendo il giudice del merito fornito un'adeguata motivazione, incentrata, oltre che sulla provenienza dei messaggi dall'account del Se., sulla carenza di denunciati abusi e sull'allegazione di riproduzioni fotografiche personali dell'odierno ricorrente e di post, contenenti precisi riferimenti alla presente vicenda giudiziaria. All'inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma, che si reputa equo stimare in Euro 2.000,00, a favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 a favore della Cassa delle ammende.