Assegno familiare dichiarato, ma non corrisposto: la fine della storia si trova nel codice penale

Se il datore di lavoro non si limita ad esporre fatti e notizie false in sede di denunce obbligatorie, ma dichiara falsamente di aver corrisposto ad un suo dipendente un’indennità di disoccupazione, di maternità, assegni familiari o altre indennità a carico dell’ente previdenziale, conseguendo così l’ingiusto profitto di conguagliare il relativo importo con i contributi dovuti all’INPS, realizza il reato di truffa, non quello disciplinato dall’articolo 10-quater d.lgs. numero 74/2000 indebita compensazione .

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza numero 45225, depositata il 3 novembre 2014. Il caso. All’amministratore di una società veniva contestato il reato di truffa, per aver posto a conguaglio con delle somme dovute all’INPS a titolo di assegni familiari, nei modelli DM/10, una cifra dovuta ad un lavoratore, ma in realtà mai corrisposta. Il gup presso il tribunale di Chieti riqualificava il fatto ai sensi dell’articolo 10-quater d.lgs. numero 74/2000 indebita compensazione e dichiarava il non luogo a procedere. Il Procuratore della Repubblica ricorreva in Cassazione, assumendo che, per l’integrazione del reato di truffa, è sufficiente il ricorso alla semplice menzogna oppure all’indicazione di fatti non corrispondenti al vero, purché idonei ad ottenere, da parte del destinatario, atti di disposizione patrimoniale atti di disposizione patrimoniale tali da consentire il perseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno. Inoltre, il fatto contestato non sarebbe sussumibile nella fattispecie ex articolo 10-quater d.lgs. numero 74/2000, perché tale norma ha ad oggetto solo obbligazioni di natura tributaria, con esclusione, quindi, dell’indennità di malattia dovuta al lavoratore. Ingiusto profitto. La Corte di Cassazione ricorda che integra il delitto di truffa la condotta del datore di lavoro che, mediante un artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme dichiarata come corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di tali somme, mai corrisposte, realizzando in questo modo un ingiusto profitto e non una semplice evasione contributiva. Conguaglio illecito. Perciò, se il datore di lavoro non si limita ad esporre fatti e notizie false in sede di denunce obbligatorie, ma dichiara falsamente di aver corrisposto ad un suo dipendente un’indennità di disoccupazione, di maternità, assegni familiari o altre indennità a carico dell’ente previdenziale, conseguendo così l’ingiusto profitto di conguagliare il relativo importo con i contributi dovuti all’INPS, realizza il reato di truffa, non quello disciplinato dall’articolo 10-quater d.lgs. numero 74/2000. Per questi motivi, la Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata e rimanda la decisione ai giudici di Chieti.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 3 luglio – 3 novembre 2014, numero 45225 Presidente Squassoni – Relatore Di Nicola Ritenuto in fatto 1. È impugnata la sentenza indicata in epigrafe emessa dal Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Chieti che ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di P.P. , previa riqualificazione del fatto nel reato di cui all'articolo 10 quater del d.lgs. 10 marzo 2000, numero 74, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. A P.P. era contestato il reato previsto dagli articolo 81 cpv., 640, comma 2, numero 1, cod. penumero perché, in qualità di amministratore unico della ditta società Prix S.r.l. Spedizioni e Logistica , con artifici e raggiri consistiti nel porre a conguaglio con le somme dovute all'INPS a titolo di assegni familiari, nei Mod. DM/10 relativi ai mesi novembre e dicembre 2011 la complessiva somma di Euro 211,54 dovuta al lavoratore Angelo Santoro, somme mai corrisposte allo stesso, traeva in inganno i competenti funzionari dell'INPS sull'ammontare delle somme dovute all'Ente per contributi previdenziali ed assistenziali, così procurandosi un ingiusto profitto pari all'importo delle somme suindicate indebitamente poste a conguaglio. In , nei periodi suindicati. Nel pervenire a tale conclusione il Gup premetteva che P.P. aveva presentato, con il mezzo telematico, un DM 10 in cui, contrariamente al vero, aveva dichiarato di aver corrisposto al lavoratore Angelo Santoro gli emolumenti dovuti allo stesso dall'INPS a titolo di assegni familiari. Da tale dichiarazione menzognera era disceso che il P. avesse omesso di pagare quanto dovuto a titolo di debito che egli aveva nei confronti dell'INPS per altre ragioni, ritenendoli conguagliati con il credito dallo stesso asseritamente vantato verso l'ente previdenziale. Le dichiarazioni menzognere erano quindi servite per conseguire indebitamente un vantaggio patrimoniale costituito dal veder compensato un debito nei confronti dell'INPS. Nel fatto, così come ricostruito, il Gup ha ritenuto di non ravvisare una condotta che avesse effettivamente indotto in errore l'autore della disposizione patrimoniale in quanto, nel caso di specie, il diritto alla compensazione, e dunque il diritto al mancato pagamento dei contributi dovuti, non presupponeva l'effettivo accertamento da parte dell'INPS dei presupposti fondanti il diritto stesso, che era riconosciuto sulla base di una sorta di autocertificazione dell'interessato il DM 10 attestante appunto i presupposti per la compensazione, essendo demandato in prima battuta all'Inps di raccogliere le dichiarazioni del datore di lavoro e sgravare il dichiarante dall'obbligo di versamento dei contribuiti da lui dovuti all'ente previdenziale e viceversa compensati sulla base della dichiarazione contenuta nel DM 10, senza alcuna valutazione del merito delle stesse. In sostanza, all'Inps competeva semplicemente una verifica di carattere meramente formale sulle condizioni dichiarate da ciascun datore di lavoro e l'ente previdenziale non doveva affatto svolgere un controllo sostanziale sulla effettiva esistenza di tali condizioni. Non vi era dunque la possibilità di induzione in errore poiché il soggetto destinatario della dichiarazione menzognera doveva limitarsi a recepire la dichiarazione stessa e ad applicare quanto previsto dalla legge il diritto alla compensazione sulla base di tale semplice presupposto, di cui nulla avrebbe potuto o dovuto sindacare in prima battuta. Le false dichiarazioni rese dall'imputato non valevano pertanto a configurare gli estremi del reato di truffa in mancanza del necessario requisito dell'induzione in errore. La condotta era invece sussumibile nella fattispecie di cui all'articolo 10 quater d.lgs. numero 74 del 2000 reato di indebita compensazione con la conseguenza che, sulla base del rinvio contenuto nell'articolo 10 quater ai limiti di cui all'articolo 10 bis d.lgs. numero 74 del 2000, non essendo stata integrata la soglia di punibilità di 50.000 Euro, il fatto doveva ritenersi privo di rilevanza penale e dunque non previsto dalla legge come reato. 2. Per la cassazione dell'impugnata sentenza, ricorre il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Chieti che affida il gravame ad un unico motivo col quale lamenta violazione di legge per erronea e falsa applicazione delle legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale articolo 606, comma 1, lett. b cod. proc. penumero . Assume il ricorrente come, per l'integrazione del reato di truffa, sia sufficiente il ricorso alla semplice menzogna ovvero all'indicazione di fatti non corrispondenti al vero purché idonei ad ottenere, da parte del destinatario, atti di diposizione patrimoniale tali da consentire il perseguimento di in ingiusto profitto con altrui danno. Peraltro, aggiunge il ricorrente che non sarebbe neppure condivisibile l'assunto del Gup, laddove ha ritenuto il fatto sussumibile nella fattispecie incriminatrice prevista dall'articolo 10 quater d.lgs. numero 74 del 2000, in quanto detta norma ha ad oggetto solo ed esclusivamente le obbligazioni di natura tributaria non rientrando in detta categoria l'indennità di malattia dovuta al lavoratore. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 2. Il Gup ritiene che la condotta addebitata all'imputato integri il reato di cui all'articolo 10 quater del d.lgs. numero 74 del 2000 reato di indebita compensazione che punisce chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, numero 241, crediti non spettanti o inesistenti e tanto sul rilevo che il d.lgs. numero 241 del 1997 abbia previsto il cosiddetto versamento unitario che comprende le imposte sui redditi nonché le relative addizionali e le ritenute , l'Iva, le imposte sostitutive delle imposte sui redditi e dell'Iva, gli interessi dovuti in ipotesi di pagamenti rateali, i contributi previdenziali ed assistenziali dovuti all'INPS, i premi per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e le altre somme dovute allo Stato, alle regioni e agli enti previdenziali risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche. Secondo il Tribunale nell'ambito di operatività dei versamenti unitari rientrano dunque non soltanto le imposte sui redditi, IVA, IRAP , ma anche i rapporti con gli enti previdenziali e gli enti locali, con la conseguenza che il d.lgs. numero 241 del 1997 all'articolo 17, comma 1, ha così previsto che il contribuente possa compensare le imposte, i contributi ed altre somme, con eventuali crediti vantati nei confronti dei medesimi soggetti, relative alle dichiarazioni e alle denunce periodiche presentate successivamente all'entrata in vigore di detto decreto, sanzionando penalmente le infedeltà dichiarative con l'articolo 10 quater d.lgs. numero 74 del 2000. 3. La tesi non è fondata. Dal capo di imputazione e dal testo del provvedimento impugnato, unici atti ai quali la Corte ha accesso ai fini del richiesto sindacato di legittimità, si evince I come la condotta contestata esuli dalla fattispecie di reato prevista dall'articolo 10 quater d.lgs. numero 74 del 2000 il cui modello legale indipendentemente dalla controversa questione, che qui non rileva, circa l'ambito di applicazione della fattispecie se cioè relativa alla sole imposte dei redditi ed Iva o se a tutti i tributi erariali esige che non siano versate somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, numero 241, crediti non spettanti o inesistenti con superamento della soglia di punibilità prevista dall'articolo 10 bis. Va infatti ricordato che, anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. numero 241 del 1997, l'ammissibilità dell'istituto della compensazione in materia tributaria era generalmente negata e l'articolo 17 del predetto decreto ha consentito di superare tale impostazione mediante la previsione di un versamento unitario cosiddetto modello F24 delle imposte, dei contributi Inps e delle altre somme dovute a Stato, regioni e ad altri enti previdenziali. L'articolo 10 quater, al pari dell'articolo 10 ter, è stato poi inserito nella legge 10 marzo 2000, numero 74 l'articolo 35, comma 7, D.L. 4 luglio 2006, numero 223, convertito in legge 4 agosto 2006, numero 248 disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale perché si rilevò che un danno alle ragioni erariali può essere cagionato tanto da un omesso versamento delle imposte quanto dalla compensazione con crediti non spettanti o inesistenti. In materia previdenziale già esisteva una copertura sanzionatoria prevista dall'articolo 37 legge 24 novembre 1981, numero 689, come sostituito dal comma 19 dell'articolo 116 della legge 23 dicembre 2000, numero 388 secondo il quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, il datore di lavoro che, al fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie, omette una o più registrazioni o denunce obbligatorie, ovvero esegue una o più denunce obbligatorie in tutto o in parte non conformi al vero, è punito con la reclusione fino a due anni quando dal fatto deriva l'omesso versamento di contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza ed assistenza obbligatorie per un importo mensile non inferiore al maggiore importo fra cinque milioni di lire Euro 2.582,28 mensili e il cinquanta per cento dei contributi complessivamente dovuti per lo stesso mese. 4. Ciò posto, lo stesso Tribunale sembra infatti fare leva per escludere il reato di truffa e ritenere invece quello previsto dall'articolo 10 quater d.lgs. numero 74 del 1 2000, sul rapporto di specialità unilaterale esistente tra le rispettive fattispecie, epilogo più volte convalidato da questa Corte ma in relazione ad ipotesi diverse da ultimo Sez. 2, numero 22191 del 04/04/2014, P.M. in proc. Libertone, Rv. 259578 ossia a comportamenti fraudolenti diretti a porre in compensazione, ai sensi dell'articolo 17 d.l.gs. numero 241 del 1997, partite debitorie in favore del fisco con crediti inesistenti attraverso il versamento unitario, essendosi affermato che in tal caso si realizza il solo reato tributario. Salvo poi a convalidare, contraddittoriamente, l'impostazione accusatoria contenuta nel capo di imputazione, affermando che l'artifizio ossia l'avere falsamente dichiarato di aver corrisposto ad un lavoratore emolumenti dovuti allo stesso dall'INPS a titolo di assegni familiari ritenendoli conguagliati con il credito dall'imputato asseritamente vantato verso l'ente previdenziale sia stato posto in essere attraverso una condotta realizzata non attraverso la pura e semplice rivendicazione di un credito inesistente ma con la dichiarazione fraudolenta perché falsa di avere corrisposto somme ad un determinato lavoratore, veicolando detta falsità attraverso la presentazione del modello DM 10 che il Tribunale, invece di considerare come un quid pluris idoneo ad ingannare l'ente previdenziale, svaluta considerandolo come una sorta di autocertificazione dell'interessato attestante i presupposti per la compensazione, senza che competesse all'ente previdenziale alcuna valutazione circa il merito della dichiarazione e non essendovi pertanto possibilità di induzione in errore poiché il soggetto destinatario della dichiarazione menzognera doveva limitarsi a recepire la dichiarazione stessa e ad applicare quanto previsto dalla legge il diritto alla compensazione sulla base di tale semplice presupposto. Va allora ricordato l'orientamento più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale integra il delitto di truffa la condotta del datore di lavoro che, per mezzo dell'artificio costituito dalla ftttlzia esposizione di somme dichiarate come corrisposte al lavoratore, induce in errore l'istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva Sez. 2, numero 11184 del 27/02/2007, Maravalle, Rv. 236131 Sez. 2, numero 42937 del 03/10/2012, Riondato, Rv. 253646 Sez. 3, numero 12169 dei 19/10/2000, P.M. in proc. Doti, Rv. 217657 . Ne deriva che quando il datore di lavoro non si limiti ad esporre dati e notizie false in sede di denunce obbligatorie, ma dichiari falsamente di avere corrisposto ad un lavoratore dipendente un'indennità di disoccupazione, di maternità, assegni familiari o altra indennità a carico dell'ente previdenziale, così conseguendo l'ingiusto profitto di conguagliare il relativo importo con i contributi dovuti all'INPS, realizza il reato di truffa e non il reato di cui all'articolo 37 della legge 24 novembre 1981 numero 689 e neppure il reato di cui all'articolo 10 quater d.lgs. n 74 del 2000. 5. Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata va annullata con rinvio al tribunale di Chieti. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Chieti.