Il comportamento della madre che minaccia il figlio al fine di costringerlo a rimettere la querela presentata nei suoi confronti dal padre - poi defunto -del ragazzo, è configurabile come tentata violenza privata continuata.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 37324, depositata l’11 settembre 2013. Madre vuole raggiungere il proprio obiettivo, a discapito del figlio. Una madre è stata condannata per il reato di tentata violenza privata continuata. Secondo l’accusa, al fine di costringere il figlio a rimettere la querela presentata nei suoi confronti dal padre del ragazzo poi defunto -, aveva minacciato di separarlo dalla nonna paterna, con cui il ragazzo conviveva da tempo e con cui aveva stabilito un significativo rapporto affettivo, ritrovando, così, uno spazio di vita funzionale alla sua serenità. Contro la decisione di condanna, la donna ha presentato ricorso, deducendo che non può essere considerata minaccia la prospettazione della madre di allontanare il figlio dalla nonna al fine di ricondurlo a vivere con lei, come consentito dall’esercizio della potestà genitoriale. Con una seconda censura, invece, la ricorrente ha affermato la inidoneità della condotta al raggiungimento dello scopo, e quindi al perfezionamento del reato, giacché la volontà del minore avrebbe comunque dovuto essere integrata da quella di un tutore. Per la Suprema Corte il ricorso è infondato. La potestà genitoriale non è di natura padronale. Infatti, gli Ermellini hanno affermato che è vero che la potestà genitoriale comprende la facoltà di stabilire in quale ambito debba vivere il figlio, ma tale facoltà non può essere esercitata in contrasto con le aspirazioni del figlio, tantomeno per costringerlo a comportamenti funzionali alla soddisfazione di interessi morali ed economici del genitore e allo stesso tempo contrastanti con quelli, della stessa natura, del figlio. Nella specie, per Piazza Cavour, il minore ha subito forti pressioni dall’imputata, non per migliorare la condizione del minore o per recuperare il rapporto con lui, ma per ottenere comportamenti che soddisfacevano il suo esclusivo interesse personale contrastante con quello del figlio . Comportamento punibile. Relativamente al secondo motivo di ricorso, per il S.C., il fatto che la rimessione della querela, operata dal minore, fosse soggetta ad approvazione del rappresentante art. 153 c.p. non elide la capacità offensiva della condotta, giacché nessun rappresentante avrebbe potuto fare a meno di tener conto del volere del ragazzo, con la conseguenza che, seppur la volontà di quest’ultimo non è, da sola, sufficiente a produrre l’effetto remissorio, è tuttavia sufficiente a innescare il meccanismo funzionale alla remissione . Pertanto, per i giudici di legittimità, è di tutta evidenza che l’evento dannoso o pericoloso, di cui all’art. 49 c.p., non era affatto impossibile in conseguenza dell’azione della madre.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 26 giugno - 11 settembre 2013, n. 37324 Presidente Ferrua Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. La Corte d'appello di Brescia, con sentenza del 21-2-2012, ha confermato quella emessa dal Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di elusone, che ha condannato B.M.B. a pena di giustizia per il reato di tentata violenza privata continuata, commesso tra i mesi di omissis . Secondo l'accusa la B. , al fine di costringere il figlio M. a rimettere la querela presentata nei suoi confronti, prima di morire, dal padre del ragazzo C.G. , minacciò di separarlo dalla nonna paterna, con cui il ragazzo nato il omissis conviveva da tempo. 2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'imputata, l'avv. Giorgio Bottani, il quale censura la sentenza per omessa motivazione e violazione di legge. Col primo motivo lamenta che la Corte d'appello non abbia motivato intorno alla dedotta insussistenza del reato. Deduce che non può essere considerata minaccia la prospettazione della madre di allontanare il figlio dalla nonna paterna, al fine di ricondurlo a vivere con lei, dacché l'esercizio della potestà genitoriale comprende il potere di stabilire in quale ambito debba vivere il figlio. Col secondo deduce la inidoneità della condotta al raggiungimento dello scopo, e quindi al perfezionamento del reato, giacché la volontà del minore avrebbe comunque dovuto essere integrata da quella di un tutore. 3. In data 10-6-2013 è stata presentata memoria difensiva da parte di C.M. , con cui chiede il rigetto del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato. È ben vero che la potestà genitoriale comprende la facoltà di stabilire in quale ambito - spaziale e personale - debba vivere il figlio, ma tale facoltà non può essere esercitata in contrasto con le aspirazioni dei figli art. 147 cc e, a maggior ragione, con i loro bisogni più profondi, giacché, altrimenti, quella potestà si risolverebbe in una forma di tutela - ormai vieta di natura padronale concezione da gran tempo superata da tutte le legislazioni moderne a noi più vicine e, tra queste, del legislatore italiano. Soprattutto, la potestà tra poco responsabilità genitoriale non può essere esercitata per costringere il figlio a comportamenti funzionali alla soddisfazione di interessi - morali ed economici - del genitore e allo stesso tempo contrastanti con quelli, della stessa natura, del figlio, giacché, in caso contrario, oltre alla risoluzione del conflitto d'interessi a vantaggio della parte più forte, si assisterebbe ad un utilizzo distorto delle facoltà concesse al genitore in funzione, invece, dell'interesse della famiglia e di quelle, preminenti, del minore stesso. Nella specie il minore ha subito, da parte della madre, una forte pressione, rivolta a costringerlo a rimettere la querela presentata, contro di lei, dal padre, prima di morire. Pressione esercitata con la minaccia di separarlo dalla nonna paterna, con cui il ragazzo conviveva dalla morte del padre 2003 e con cui aveva stabilito un significativo rapporto affettivo insieme alla quale aveva ritrovato uno spazio di vita funzionale alla sua serenità. E ciò è stato fatto dall'imputata non per migliorare la condizione del minore o per recuperare il rapporto con lui, ma per ottenere comportamenti che soddisfacevano il suo esclusivo interesse personale contrastante con quello del figlio . Logica e coerente, oltre che giuridicamente corretta, è, pertanto, la conclusione cui è pervenuta la Corte d'appello, secondo cui la vicenda va ricondotta alla fattispecie di cui agli artt. 56 - 610 cod. pen., sotto forma di tentativo non andato in porto. 2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso. Correttamente la Corte d'appello ha rilevato che il minore ultra quattordicenne può rimettere la querela, per cui la minaccia esercitata dalla madre era idonea a produrre l'effetto avuto di mira. Il fatto che la rimessione della querela, operata dal minore, fosse soggetta ad approvazione del rappresentante art. 153 cod. pen. non elide la capacità offensiva della condotta, giacché nessun rappresentante avrebbe potuto fare a meno di tener conto dei desiderata del minore anche solo per contrastarli , con la conseguenza che, seppur la volontà di quest'ultimo non è, da sola, sufficiente a produrre l'effetto remissorio, è tuttavia sufficiente ad innescare il meccanismo funzionale alle remissione. È di tutta evidenza, quindi, che l'evento dannoso o pericoloso , di cui all'art. 49 cod. pen., non era affatto impossibile in conseguenza dell'azione della B. , ma era nel novero delle alte probabilità, sol che alla remissione del minore si fosse accompagnata l'acquiescenza del rappresentante. Fatto che esclude in radice l'inidoneità della condotta. Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché a quelle di rappresentanza della parte civile, che si liquidano in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché di quelle sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 1.500,00, oltre accessori secondo legge.