La transazione con i subacquirenti non rappresenta un ostacolo …

Nel caso in cui colui che ha acquistato dal soggetto poi fallito abbia rivenduto a terzi e il curatore abbia raggiunto con questi un accordo transattivo risolutivamente condizionato al rigetto della domanda nei confronti dell’acquirente, l’azione revocatoria promossa nei confronti di quest’ultimo non diviene improcedibile per impossibilità di conseguire il risultato dell’azione.

È quanto risulta dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 26041, depositata il 20 novembre 2013. Il caso. Il fallimento di una s.r.l. aveva chiesto in giudizio l’accertamento della simulazione o la revoca dell’atto con cui la società aveva venduto a un convenuto, nell’anno anteriore alla dichiarazione del fallimento, un terreno. Inoltre, aveva chiesto, nei confronti di coloro che avevano acquistato successivamente il terreno, la declaratoria di inefficacia del relativo atto di acquisto. Tra i secondi acquirenti e il fallimento era intervenuta una transazione, in virtù della quale questi ultimi avevano corrisposto alla procedura una somma di denaro. A seguito di ciò, il fallimento aveva rinunciato alla domanda nei loro confronti, che avevano accettato la rinunzia. Quindi, il Tribunale, dichiarato estinto il giudizio tra le parti della transazione, aveva dichiarato cessata la materia del contendere anche tra l’attore e il primo acquirente, affermando che nei confronti di quest’ultimo non era stata formulata una domanda di risarcimento del danno per equivalente. Il fallimento aveva proposto appello, accolto dalla Corte territoriale, per la quale, anche dopo la transazione permaneva l’interesse del fallimento a una pronuncia sulla domanda proposta nei confronti del primo acquirente. Secondo la statuizione di secondo grado, la compravendita tra quest’ultimo e la società fallita si collocava nell’ambito di un accordo simulatorio – confessato dai secondi acquirenti, effettivi beneficiari dell’operazione -. Questi conoscevano lo stato di decozione della società, quindi, a detta dei giudici di secondo grado, anche il convenuto ancora in giudizio doveva ritenersi pienamente consapevole dello stato della venditrice, considerato che aveva partecipato all’accordo simulatorio confessato. Il primo acquirente ha proposto ricorso per cassazione, lamentando che erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto sussistente un interesse del fallimento alla decisione della domanda proposta nei suoi confronti. A suo dire, la rinunzia incondizionata al diritto e all’azione nei confronti dei subacquirenti aveva reso inattuabile la finalità della revocatoria fallimentare. La Suprema Corte il motivo è infondato. Il petitum della revocatoria fallimentare è la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori. Infatti, gli Ermellini hanno evidenziato che, nel caso di specie, l’accordo simulatorio intervenuto tra i convenuti originari è stato preso in considerazione soltanto ai fini della prova della conoscenza dello stato di insolvenza e da esso non può discendere alcuna conseguenza sul piano degli effetti, nei confronti del fallimento, della compravendita tra la s.r.l. e il ricorrente. Quest’ultimo, secondo i giudici di legittimità, pertanto, non può fondare sulla simulazione e sull’intervenuta transazione tra il fallimento e i subacquirenti la carenza di interesse del primo alla decisione sull’azione revocatoria. Qualora l’acquirente dal soggetto poi fallito abbia rivenduto il bene ad altri, l’inefficacia nei confronti della massa del primo atto di vendita è normalmente il presupposto per la dichiarazione dell’inefficacia dei successivi atti di vendita. Invece, come sottolineato da Piazza Cavour, nel caso in esame, l’inefficacia del primo atto rappresenta il presupposto per il consolidamento degli effetti della transazione che ha consentito al fallimento di acquisire in tutto o in parte il controvalore del bene. Quindi, il Collegio ha chiarito che la dichiarazione di inefficacia consente di conseguire un risultato utile. Ciò, in quanto, oggetto della domanda di revocatoria fallimentare non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l’assoggettabilità a esecuzione e, quindi, la liquidazione di un bene che, rispetto all’interesse dei creditori, viene in considerazione soltanto per il suo valore . Ne consegue, per il S.C., che quando l’assoggettabilità del bene all’esecuzione diviene impossibile perché il bene è stato alienato a terzi, la reintegrazione per equivalente pecuniario rappresenta il naturale sostitutivo. Alla luce di ciò, il ricorso è stato rigettato.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, 25 settembre - 20 novembre 2013, sentenza n. 26041 Presidente Rordorf – Relatore Di Amato Svolgimento del processo Il fallimento della s.r.l. Cash e Carry Cassia conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma, G M. nonché Carlo, P.R. e A. chiedendo, nei confronti del primo, l'accertamento della simulazione o la revoca, ai sensi dell'art. 67 l. fall., dell'atto con cui la società aveva venduto al convenuto, nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, un terreno sito in località omissis e chiedendo, nei confronti degli altri convenuti, che avevano successivamente acquistato il terreno dal M. , la declaratoria di inefficacia del relativo atto di acquisto. Interveniva, quindi, tra il fallimento ed i P. , una transazione in virtù della quale questi ultimi corrispondevano alla procedura la complessiva somma di lire 180.000.000, prevedendo tuttavia la restituzione ai P. della somma di lire 150.000.000 in caso di mancato accoglimento della domanda proposta dal fallimento nei confronti del M. . A seguito di detta transazione il fallimento rinunziava alla domanda ed agli atti del giudizio nei confronti dei P. che accettavano la rinunzia. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 12 marzo 2004, dichiarava estinto ex art. 306 c.p.c. il giudizio tra il fallimento ed i convenuti P. inoltre, come si evinceva dalla motivazione, malgrado l'erroneo riferimento in dispositivo, dichiarava cessata la materia del contendere tra lo stesso fallimento ed il M. , affermando che la menzionata transazione aveva reso impossibile la reintegrazione della garanzia patrimoniale e che, d'altro canto, nei confronti del M. non era stata formulata una domanda di risarcimento del danno per equivalente. Pertanto, secondo il Tribunale era venuto meno l'interesse dell'attore e del convenuto M. ad una pronunzia nel merito. Il fallimento proponeva appello che la Corte territoriale di Roma accoglieva con sentenza del 17 marzo 2008, osservando che anche dopo la transazione permaneva l'interesse del fallimento ad una pronunzia sulla domanda proposta nei confronti del M. infatti, se tale domanda non fosse stata accolta sarebbe caduto automaticamente l'accordo transattivo con i P. , con l'obbligo di restituire a questi ultimi la somma di Euro 77.468,00 pari a lit. 150 milioni , secondo quanto previsto dal punto 9 della transazione del 16.9.2003. Tanto premesso, la Corte riteneva che il fallimento avesse voluto far valere in appello, nei confronti del M. , soltanto l'azione revocatoria prevista dal secondo comma dell'art. 67 l. fall., e concludeva per la fondatezza di tale domanda. In particolare, la Corte affermava che la compravendita tra la fallita società ed il M. si collocava nell'ambito di un accordo simulatorio, confessato dai P. effettivi beneficiari dell'operazione e provato dalle modalità di pagamento del prezzo di acquisto del terreno asseritamente in contanti - senza riscontri documentali da parte del M. in 33 rate mensili, senza interessi, da parte dei P. ”. Questi ultimi, secondo la Corte, ben conoscevano lo stato di decozione della s.r.l. Cash e Carry Cassia in quanto operanti nello stesso contesto territoriale destinato ad attività produttive pertanto, anche il M. doveva ritenersi pienamente consapevole dello stato di decozione della venditrice considerato che aveva partecipato all'accordo simulatorio confessato dai P. , interponendosi nella vendita tra questi e la società poi fallita. Avverso detta sentenza propone ricorso G M. , deducendo due motivi. Il fallimento nonché P.C. , R. e A. resistono con controricorso il fallimento propone anche ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo illustrato anche con memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo il ricorrente principale deduce la violazione degli artt. 100 c.p.c. e 67 l. fall, nonché il vizio di motivazione, lamentando che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto sussistente un interesse del fallimento alla decisione della domanda proposta nei suoi confronti infatti, indipendentemente da quanto previsto dalla transazione, alla quale egli era rimasto estraneo, la rinuncia incondizionata al diritto ed all'azione nei confronti dei P. aveva reso inattuabile la finalità della revocatoria fallimentare, in quanto la rinuncia ad acquisire il bene dal subacquirente rendeva inutile una pronuncia restitutoria nei confronti del primo acquirente, anche perché il fallimento non aveva avanzato né poteva più avanzarla una domanda diretta ad ottenere dal M. un risarcimento per equivalente. Inoltre, se gli effettivi acquirenti del bene dovevano ritenersi i P. , la rinuncia nei loro confronti non poteva non comportare la cessazione della materia del contendere nei confronti del M. . Il motivo è infondato. Quanto all'ultimo rilievo si deve premettere, come già riferito in narrativa, che la Corte di appello ha ritenuto che il fallimento non abbia coltivato l'azione di simulazione ed abbia insistito solo nell'azione revocatoria. Da ciò discende l'irrilevanza della eventuale simulazione, il cui accertamento, del resto, non è stato chiesto neppure dall'odierno ricorrente. Infatti, ai sensi degli artt. 1414 e 1415 c.c., l'atto simulato è privo di effetti soltanto tra le parti, mentre i terzi nella specie i creditori e per essi il curatore del fallimento hanno la facoltà di scegliere se far valere o meno possono la simulazione quando pregiudica i loro diritti. In tale contesto l'accordo intervenuto tra le parti definito come simulatorio dalla Corte di appello, ma la cui portata è, peraltro, descritta in termini compatibili con una interposizione reale è stato preso in considerazione soltanto ai fini della prova della conoscenza dello stato di insolvenza e da esso non può discendere alcuna conseguenza sul piano degli effetti, nei confronti del fallimento, della compravendita tra la s.r.l. Cash e Carry Cassia in bonis ed il M. . Quest'ultimo, pertanto, non può fondare sulla simulazione e sull'intervenuta transazione tra il fallimento ed i subacquirenti la carenza di interesse del primo alla decisione sulla azione revocatoria. Quanto agli altri rilievi, si deve convenire che, qualora l'acquirente dal soggetto poi fallito abbia rivenduto il bene ad altri, l'inefficacia nei confronti della massa del primo atto di vendita è normalmente il presupposto per la dichiarazione dell'inefficacia dei successivi atti di vendita. Nel caso in esame, invece, l'inefficacia del primo atto rappresenta il presupposto per il consolidamento degli effetti della transazione che ha consentito al fallimento di acquisire in tutto o in parte il controvalore del bene. La dichiarazione di inefficacia consente, quindi, di conseguire un risultato utile essa, inoltre, è anche provvedimento possibile pur in presenza di una transazione con i subacquirenti. Invero, come è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, oggetto della domanda di revocatoria fallimentare non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l'assoggettabilità ad esecuzione e, quindi, la liquidazione di un bene che, rispetto all'interesse dei creditori, viene in considerazione soltanto per il suo valore. Sicché, quando l'assoggettabilità del bene all'esecuzione diviene impossibile perché il bene è stato alienato a terzi, la reintegrazione per equivalente pecuniario rappresenta il naturale sostitutivo. Da tale principio si è tratta la conclusione che, nel caso in cui il curatore del fallimento abbia richiesto nell'atto introduttivo del giudizio la revoca di una compravendita, non costituisce domanda nuova quella dal medesimo formulata in sede di precisazione della conclusioni, consistente nella condanna al pagamento dell'equivalente monetario, per avere il convenuto alienato l'oggetto della compravendita Cass. 20 luglio 1999, n. 7790 Cass. 17 giugno 2009, n. 14098 . Da quanto detto discende che non è di ostacolo alla dichiarazione di inefficacia il fatto che tra il fallimento ed i subacquirenti sia intervenuta una transazione risolutivamente condizionata, in tutto o in parte, al rigetto della domanda nei confronti del primo acquirente. Infatti, poiché il petitum della revocatoria fallimentare è rappresentato dal recupero alla garanzia patrimoniale dei creditori del valore del bene che è uscito dal patrimonio del fallito, la transazione non impedisce di conseguire il risultato dell'azione, lasciando immutati gli elementi strutturali della domanda. In conclusione, oggetto della domanda di revocatoria fallimentare non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l'assoggettabilità ad esecuzione e, quindi, la liquidazione di un bene che, rispetto all'interesse dei creditori, viene in considerazione soltanto per il suo valore ne consegue che nel caso in cui colui che ha acquistato dal soggetto poi fallito abbia rivenduto a terzi ed il curatore abbia raggiunto con questi un accordo transattivo risolutivamente condizionato al rigetto della domanda nei confronti dell'acquirente, l'azione revocatoria promossa nei confronti di quest'ultimo non diviene improcedibile per impossibilità di conseguire il risultato dell'azione, che mantiene inalterati il petitum del quale eventualmente può ridursi soltanto il quantum e la causa petendi . Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 2697 e 2730 c.c. e dell'art. 67, comma 2, l. fall., nonché vizio di motivazione, lamentando che erroneamente la Corte di appello aveva desunto la conoscenza dello stato di insolvenza dalla dichiarazione confessoria dei P. , atteso che tale dichiarazione non poteva avere alcun effetto nei suoi confronti, e da una asserita esistenza di protesti ed esecuzioni dei quali il fallimento non aveva dato prova. Il motivo è parte infondato e in parte inammissibile. Quanto alle dedotte violazioni di legge, è vero che le dichiarazioni a sé sfavorevoli rese dal confitente non possono avere valore di prova legale nei confronti di altre parti del processo nella specie, peraltro, non risulta il tenore esatto delle dichiarazioni e neppure se si tratta di confessione giudiziale o stragiudiziale tuttavia, il giudice ben può apprezzare liberamente la dichiarazione e trame elementi indiziari di giudizio nei confronti delle altre parti e plurimis Cass. 24 febbraio 2011, n. 4486 . Ciò è quanto è avvenuto nel caso di specie, dato che la Corte ha valutato la dichiarazione confessoria dei P. relativa ad un accordo diretto ad interporre il M. nell'acquisto inserendola in un contesto indiziario più ampio nel quale confluivano l'inattendibilità di un acquisto effettuato dal M. in data 25 giugno 1998 al prezzo convenuto e pagato in contanti ma senza riscontri documentali di lit. 196 milioni e di una successiva vendita effettuata dopo poco più di tre mesi al prezzo di lit. 198 milioni da pagarsi senza interessi in 33 rate mensili, nonché l'inattendibilità, in tale contesto, di un interesse del M. , di professione odontotecnico, per un terreno destinato dal piano urbanistico ad insediamenti produttivi. Quanto al dedotto vizio di motivazione il motivo è inammissibile in quanto manca il momento di sintesi prescritto dall'art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis . Resta assorbita l'ulteriore ragione di inammissibilità conseguente al fatto che il motivo propone censure di merito. Con il ricorso incidentale condizionato il fallimento deduce violazione dell'art. 329, comma 2, c.p.c. nonché vizio di motivazione lamentando che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto non riproposte le domande di simulazione e di revocatoria, ai sensi dell'art. 67, comma 1, l. fall., atteso che il fallimento aveva concluso chiedendo alla Corte di accogliere tutte le domande proposte con l'atto di citazione . integrate nella memoria ex art. 183 c.p.c richiamate nelle conclusioni del 24/9/2003 . Il motivo resta assorbito dal rigetto del ricorso principale. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo nei rapporti tra il fallimento ed il ricorrente soccorrono, invece, giusti motivi per compensare le spese nei rapporti tra il M. e P.C. , R. e A. , poiché questi ultimi si sono limitati a partecipare al giudizio, rimettendosi alla decisione di questa Corte. P.Q.M. rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito l'incidentale condanna il ricorrente al rimborso in favore del fallimento delle spese di lite, liquidandole in Euro 5.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CP compensa le spese nei rapporti tra il ricorrente ed i controricorrenti P.C. , R. e A