Commerciante nel mirino per l'esposizione di prodotti che richiamano l'artigianato, come gondole e maschere. Ma ciò non implica il tentativo di trarre in inganno il consumatore.
di Attilio IevolellaVenezia meta top per i turisti, soprattutto stranieri, alla scoperta dell'Italia. Luoghi e scenari affascinanti. E prodotti artigianali che richiamano cultura, tradizioni e territorio. Anche se, alle volte, può scapparci la sorpresa ovvero oggettistica che rappresenta, in piccolo, gondole e maschere veneziane, e che si rivela come un prodotto completamente estraneo all'artigianato locale. Si può parlare di truffa? Mettiamola così lo può pensare il turista gabbato, certo non lo può dire il giudice.Prodotti in bilico. La rilevazione della Guardia di Finanza prima, il sequestro poi. Sotto i riflettori oltre 30mila oggetti, molti richiamanti cultura e tradizioni di Venezia, commercializzati nella città lagunare, e la mancanza di riferimenti diretti ai luoghi di produzione. Sulle etichette solo un richiamo a Venezia, ma nessuna indicazioni tale da non indurre il consumatore in errore , indispensabile perché molti degli oggetti sequestrati contenevano, intrinsecamente, per la foggia e per la tipologia del soggetto raffigurato, una intrinseca indicazione di italianità, ed anzi di venezianità .Per il Tribunale del riesame di Venezia, quindi, il decreto di sequestro era ampiamente legittimo. I prodotti commercializzati erano in bilico, tra semplice oggettistica e artigianato locale, e quindi potenzialmente utili a trarre in inganno i turisti-consumatori.Il peso del marchio. Per il commerciante finito sotto accusa, però, la battaglia era appena iniziata. Obiettivo rivendicare la legittimità del proprio operato. Forse borderline, ma comunque nei limiti della legge. Ecco spiegata la decisione di ricorrere in Cassazione.E il Palazzaccio, alla fine di una lunga valutazione, ha sostanzialmente bocciato il sequestro del materiale finito sotto la lente di ingrandimento. Diversi i riferimenti utilizzati dai giudici, con occhio rivolto, in contemporanea, alla legislazione nazionale, alla giurisprudenza della Suprema Corte e alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea.Il quadro delineato è chiaro. Primo punto, la definizione di provenienza ed origine della merce, intese come provenienza da un determinato imprenditore, che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione, e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti . Quindi, il marchio corrisponde alla ditta produttrice o solo importatrice che si è assunta il ruolo di garante della qualità della merce. Ulteriore conseguenza è che si può ipotizzare il reato quando oltre al proprio marchio o alla indicazione della località in cui ha la sede, l'imprenditore apponga anche una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un Paese diverso da quello di effettiva fabbricazione .E questo è il secondo punto la falsa apposizione del made in Italy o la falsa attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un Paese diverso da quello dove materialmente è stato realizzato dovrà essere punita. Perché essa è idonea a ingannare il consumatore e ad incidere sulle sue scelte .In materia di venezianità. Dal generale, poi, si passa al particolare, ovvero alla questione specifica affrontata dai giudici di piazza Cavour. Ebbene, gli oggetti sequestrati erano detenuti per le vendita in un negozio sulle cui vetrine ed espositori interni era applicata la denominazione sociale dell'impresa che li commercializzava in Italia e che ne aveva assunto la responsabilità e la garanzia di qualità . Di conseguenza, era assente una indicazione di realizzazione nel territorio italiano. E mancava altresì l'idoneità a ingenerare nel consumatore il convincimento che gli articoli dovessero essere stati fabbricati in Italia , perché la dicitura aveva lo stesso valore semantico rappresentativo del marchio imprenditoriale e non era idonea a dimostrare una realizzazione dei beni in Italia .Alla luce di queste ultime considerazioni, salta come un tappo la tesi del Tribunale del riesame, che richiama la italianità e la venezianità degli oggetti sequestrati perché essi rappresentavano, in alcuni casi, gondole e maschere. Tesi senza fondamento, questa, per i giudici di Cassazione, perché la legge fa riferimento a indicazioni di vendita che presentino il prodotto come interamente realizzato in Italia, ossia esplicitamente alle indicazioni del tipo '100% made in Italy' o ad altre indicazioni idonee a ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto oppure alla apposizione di segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione di un prodotto realizzato interamente in Italia . Evidente, quindi, che la norma penale può applicarsi solo alla diciture, indicazioni o segni che inequivocabilmente dichiarino o inducano a ritenere che il prodotto è stato interamente realizzato in Italia .Ebbene, ritornando a bomba, la dicitura applicata sulle vetrine e sui contenitori siti nel negozio non era idonea a far ritenere che il prodotto fosse stato fabbricato in Italia e nemmeno avrebbe potuto ritenersi idonea a ingenerare nel consumatore la convinzione di un prodotto fabbricato interamente in Italia .Casi a mo' di esempio. L'elenco di precedenti è lungo. E i giudici della Cassazione ne richiamano numerosi, come esempio di diciture, relative a prodotti diversi, che non comportano automaticamente la presunzione che il prodotto sia made in Italy. Dagli occhiali agli orologi, passando per il vasellame, l'apposizione della parola Italia , o, come in questo caso, della parola Venezia , non porta a conseguenze estreme, ovvero non identifica il luogo di produzione. E, quindi, non trae in inganno il consumatore.Peraltro, neppure la foggia degli oggetti può essere utilizzata come riferimento. Per essere più chiari, se viene rappresentata una gondola, è illogico presumere che quel prodotto sia stato realizzato a Venezia. Se si portasse avanti questo ragionamento, allora, ogni oggetto raffigurante il Colosseo dovrebbe essere realizzato a Roma!Nessun reato. Il discorso condotto dai giudici di piazza Cavour arriva sino alla sua logica conclusione. Né l'indicazione di riferimento alla città - Venezia - né la foggia dell'oggetto rappresentato - una gondola, ad esempio - possono costituire elementi utili a far ipotizzare una produzione sul territorio o a far pensare che il consumatore possa essere stato tratto in inganno. E se anche si ipotizzasse, per estremo, che l'oggetto sia stato utilizzato per 'bluffare' nell'approccio col consumatore, comunque, la mancata indicazione della loro origine o provenienza estera potrebbe integrare l'illecito amministrativo . Quindi, in conclusione, completamente bocciato il decreto di sequestro e la relativa ordinanza di conferma, con restituzione degli oggetti al commerciante.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 5 aprile - 18 luglio 2011, numero 28220Presidente Ferrua - Relatore FrancoPer scaricare la sentenza in formato pdf clicca qui