Vino ‘annacquato’ nella cantina: frode commerciale anche senza prova di vendita

Confermato l’addebito nei confronti dell’unico responsabile della cantina. Nonostante il prodotto fosse ancora in lavorazione, è da considerare scontata la destinazione alla messa in commercio.

Vino ‘da bambini’, ossia ‘allungato’ con l’acqua. Ma se a prepararlo non è una mamma, ma il titolare di una cantina, allora si può parlare legittimamente di «tentata frode in commercio». Anche se il vino ‘alterato’ è rimasto fermo in cantina, e quindi non è stato mai messo in vendita Cassazione, sentenza numero 11827, Terza sezione Penale, depositata oggi . Colore chiaro, troppo chiaro Fatali alcune analisi ‘a campione’ effettuate sui vini conservati in una cantina i risultati parlano di «vino bianco, da tavola, annata 2006» e, aggiungono, «alterato con aggiunta di zucchero e acqua». Nessun dubbio sulla contestazione nei confronti dell’unico responsabile della cantina ‘incriminata’ «tentata frode in commercio». Accusa assolutamente fondata, chiariscono i giudici, sia di primo che di secondo grado, ricordando che «il tentativo di frode in commercio non richiede l’effettiva messa in vendita del prodotto, essendo sufficiente la destinazione alla vendita». E, come aggiunta, nessun dubbio è possibile sul «dolo», poiché l’uomo finito sul banco degli imputati risulta essere «unico responsabile della cantina e, quindi, certamente consapevole dei trattamenti cui il vino era stato sottoposto». Frode. E questa ottica viene confermata, in maniera definitiva, anche in Cassazione, laddove i giudici respingono le opposizioni del rappresentante legale della cantina vinicola, il quale ha sostenuto che «per la configurazione del reato tentato» è necessario «un inizio di contrattazione con un determinato acquirente, non essendo sufficiente la mera detenzione», aggiungendo poi che «il prodotto si trovava in fase di lavorazione, per cui oggettivamente non poteva essere posto in vendita». A fare chiarezza, dando ulteriormente forza a una linea di pensiero già tracciata da precedenti giurisprudenziali, provvedono i giudici, spiegando che per il «tentativo di frode in commercio» è «sufficiente l’accertamento della destinazione alla vendita del prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite». Esattamente ciò che si è appurato in questa vicenda, col vino ‘alterato’ «contenuto nei serbatoi di una cantina» e quindi «destinato alla vendita». Assolutamente cristallino, quindi, l’addebito della «tentata frode nell’esercizio del commercio», e assolutamente logico accreditare come colpevole l’uomo perché «unico responsabile e rappresentante della cantina vinicola» e quindi «assolutamente consapevole del trattamento cui veniva sottoposto il vino contenuto nei serbatoi».

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 febbraio – 13 marzo 2013, numero 11827 Presidente Squassoni – Relatore Amoresano Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 25.1.2012 la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Palermo, sez. dist. di Partinico, emessa il 22.7.2010, con la quale L.G. era stato condannato alla pena sospesa alle condizioni di legge di giorni 25 di reclusione per i reati di cui agli articolo 56, 515 c.p. capo a e 516 c.p. capo b , riteneva assorbito il reato di cui al capo b in quello contestato al capo a , rideterminando la pena in giorni 20 di reclusione, e concedeva altresì il beneficio della non menzione, confermando nel resto l’impugnata sentenza. Premetteva la Corte territoriale che il L. era strato condannato in primo grado per tentata frode in commercio e detenzione per la vendita di vino bianco da tavola, annata 2006, con valori isotopici anormali per provenienza e annata, alterato con aggiunta di zucchero e acqua. Tanto premesso, rilevava la Corte territoriale, richiamando la giurisprudenza di legittimità, che il tentativo di frode in commercio non richiede per la sua configurabilità, l’effettiva messa in vendita del prodotto, essendo sufficiente la destinazione alla vendita. E che il vino detenuto fosse destinato alla vendita era confermato dallo stesso imputato nell’atto di appello. Infondato era anche il motivo in ordire all’esistenza del dolo, risultando l’imputato unico responsabile della cantina e quindi certamente consapevole dei trattamenti cui il vino era stato sottoposto. Infine, gli esiti delle analisi non risultavano inficiati dai rilievi difensivi, non essendovi dubbi, anche alla luce delle testimonianze della dr.ssa M. e della dr.ssa C., in ordine al carattere contraffatto del vino. 2. Propone ricorso per cassazione L.G., a mezzo del difensore, denunciando la violazione di legge in relazione agli articolo 56, 515 c.p., DPR 327/80, D.M. 12.3.1986, 125 co. 3, 192, 530, 533 c.p.p. La Corte di Appello avrebbe dovuto assolvere il ricorrente dal reato di cui agli articolo 56 e 515 c.p La giurisprudenza richiamata dalla sentenza impugnata è minoritaria, ritenendo il prevalente indirizzo necessario, per la configurazione del reato tentato, un inizio di contrattazione con un determinato acquirente, non essendo sufficiente la mera detenzione. Peraltro, la Corte territoriale non ha tenuto conto che il prodotto si trovava in fase di preparazione, per cui oggettivamente non poteva essere posto in vendita. Né ha adeguatamente valutato la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, omettendo di considerare che se il L. fosse stato a conoscenza della presunta alterazione avrebbe potuto disfarsi del prodotto nel periodo intercorrente tra il prelevamento 27.10.2006 ed il sequestro 4.6.2007 . E, con tale ovvio rilievo, non si intendeva certo riconoscere, come ha inteso la Corte di merito, la destinazione alla vendita del prodotto. Non ricorrendo l’elemento soggettivo, erroneamente è stato ritenuto sussistente il reato contestato. I Giudici di merito hanno fondato l’affermazione di responsabilità su indizi non precisi e non concordanti, in violazione dell’articolo 192 c.p.p. Le modalità di prelievo dei campioni per le analisi sono state eseguite, poi, come ampiamente dimostrato nel giudizio di merito, in totale difformità di quanto previsto dalla normativa vigente. La Corte territoriale nel ritenere infondati i motivi di appello sul punto non ha considerato che le analisi isotopiche effettuate su aliquote addizionate di soluzioni acquose al 30% di idrossido di sodio, vale a dire addizionate di una quantità di acqua di fonte, rendeva completamente errati i risultati delle analisi medesime. Con il secondo motivo denuncia la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla presunta ammissione da parte dell’appellante della volontà di porre in vendita il prodotto, intendendosi soltanto, come si è visto, rimarcare l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, su cui la sentenza omette completamente di motivare, ricorrendo a clausole di stile. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato, e va, pertanto, rigettato. 2. La giurisprudenza di questa Corte è andata consolidandosi nel ritenere che il tentativo di frode in commercio non richieda, ai fini della sua configurabilità, l’effettiva messa in vendita del prodotto, essendo sufficiente l’accertamento della destinazione alla vendita del prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite. Si è, infatti evidenziato cfr. Cass. penumero sez. 3 numero 41758 del 28.10.2010 che “il codice penale vigente, nel configurare la fattispecie delittuosa del tentativo, ha abbandonato l’antica distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi del reato, secondo la quale il tentativo era configurabile solo allorché fosse effettivamente iniziata la fase esecutiva della azione criminosa, per adottare il diverso criterio, fissato nell’articolo 56 c.p., che configura il delitto, nella forma tentata, ovvero la messa in concreto pericolo del bene protetto dalla norma, allorché siano posti in essere atti idonei, univocamente diretti a commetterlo. Ai fini dell’accertamento del tentativo deve, pertanto, tenersi conto della idoneità degli atti posti in essere e della loro univocità nella direzione della commissione del reato. Il requisito della univocità deve consistere nella presenza di elementi fattuali in base ai quali possa affermarsi con sostanziale certezza che le condotta posta in essere era diretta alla commissione del reato, di cui si configura il tentativo. Deve, pertanto, essere accertato il compimento di atti che, anche per gli elementi circostanziali che li connotano, evidenzino il progetto criminoso perseguito dall’agente e che lo stesso non si esaurisca in un mero proposito. Il requisito della idoneità si configura allorché l’azione posta in essere sia tale da dimostrare, mediante un giudizio da effettuarsi ex ante, la sua capacità potenziale di produrre l’evento che la norma penale mira ad impedire. Il pronostico circa la verificazione dell’evento, quale conseguenza dell’azione posta in essere, deve attingere al requisito della rilevante probabilità, secondo l’id quod plerumque accidit, prescindendo dalla valutazione dell’intervento di elementi ignoti al momento in cui è stata posta in essere la condotta criminosa che possano vanificarne l’esito. In applicazione di tali principi di diritto è stato, perciò, da tempo affermato da questa Corte, in relazione al reato di frode in commercio, che per la configurabilità del tentativo non occorre l’inizio di una trattativa con il potenziale acquirente, essendo sufficiente che sia accertata la destinazione alla vendita del prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite sez. unumero 25.10.2000 numero 28, Morfei, RV 217295 . E’ stata così ritenuta sussistente la fattispecie del tentativo di frode in commercio nell’ipotesi di deposito nel magazzino di una ditta esercente la vendita all’ingrosso di prodotti diversi per origine, provenienza, qualità e quantità da quelle indicate sulle confezioni, in quanto dimostrativo della successiva immissione nel circolo distributivo di prodotti aventi differenti caratteristiche rispetto a quelle dichiarate o pattuite, cfr. sez. 3^, 18.12.2008 numero 3479 del 2009, Urbani ed altro, RV 242288 . Analogo principio di diritto è stato affermato con riferimento all’ipotesi della detenzione di prodotti di qualità diversa da quella indicata sulle confezioni nei magazzini di un’azienda produttrice, allorché tale azienda produca esclusivamente merce destinata alla vendita, sez. 3^, 5.11.2.008 numero 1454 del 2009, Frescobaldi, RV 242263 . Anche la giurisprudenza successiva ha ribadito che la detenzione per la vendita di prodotti diversi per origine, provenienza, qualità o quantità integra il tentativo di frode in commercio di cui all’articolo 515 c.p. cfr. Cass. penumero Sez. 3 numero 1061 del 3.12.2010 Cass. penumero Sez. 3 numero 37058 del 28.9.2011 . 3. Il Tribunale aveva evidenziato che l’imputato, quale rappresentante legale della Cantina Vinicola C.V., con stabilimento in Partinico, oltre che della produzione, si occupava della vendita nel prodotto realizzato pag. 4 sent. Trib. . La Corte territoriale, al di là del riferimento alle “ammissioni” contenute nell’atto di appello, ha comunque ribadito si trattava di vino contenuto nei serbatoi di una cantina vinicola ed ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui deve ritenersi destinato univocamente alla vendita il prodotto depositato nei magazzini di un’azienda che produca esclusivamente prodotti destinati alla vendita già sopra ricordata cfr. Cass. Sez. 3 numero 1454 del 2009 Cass. Sez. 3 numero 22313 del 15.2.2011. Quanto al dolo generico non è esatto che la Corte di merito abbia fatto ricorso a clausole, di stile, avendo piuttosto sottolineato che l’imputato, in qualità di unico responsabile e rappresentante legale della cantina vinicola, era assolutamente consapevole del trattamento cui veniva sottoposto il vino contenuto nei serbatoi. Peraltro neppure con il ricorso, è stato dedotto alcunché in ordine ad eventuali deleghe ad altri soggetti della responsabilità di gestione e, palesemente, non vale ad escludere l’elemento soggettivo la circostanza che il vino, dopo il prelevamento dei campioni e prima del sequestro, non sia stato venduto una tale condotta, infatti, avrebbe soltanto aggravato la posizione dell’indagato . 4. Corretta ed immune, da vizi è anche la motivazione in ordine alle analisi espletate. La Corte territoriale, attraverso, l’esame puntuale ed argomentato delle risultanze processuali, è pervenuta infatti alla conclusione che non sussistessero dubbi in ordine al carattere contraffatto del vino detenuto nei serbatoi della cantina e che eventuali mere irregolarità della procedura di prelievo non avessero avuto alcuna incidenza pag. 5 e ss. sent. . Il ricorrente contesta le valutazioni della Corte di merito e continua a ribadire che la presenza dell’acqua “ha determinato proprio il frazionamento isotopico, alterando così ogni tipo di analisi”. Tali censure non tengono conto, però, che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo. Anche a seguito della modifica dell’articolo 606 lett. e c.p.p., con la L. 46/06, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non attribuisce, al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata cfr. Cass. penumero sez. 6 numero 752 del 18.12.2006 Cass. penumero sez. 2, numero 23419/2001 Vignaroli . P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.