In materia di illecita coltivazione di sostanze stupefacenti, la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti rientra in quanto tale nell’ambito delle condotte di cui all’articolo 73 d.P.R. numero 309/1990.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza numero 38868/18, depositata il 24 agosto. La vicenda. Il Tribunale di Rimini condannava alla pena condizionalmente sospesa di 8 mesi di reclusione e 2mila euro di multa un imputato accusato di aver coltivato e detenuto presso la propria abitazione e a fini di spaccio alcune piante di canapa indiana. La Corte d’Appello di Bologna ha ridotta la pena confermando nel resto la condanna. Avverso tale pronuncia ricorre per cassazione l’imputato. Offensività della condotta. In materia di illecita coltivazione di sostanze stupefacenti, le Sezioni Unite della Corte Suprema sentenza numero 28605/08 hanno affermato che la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanza stupefacenti rientra in quanto tale nell’ambito delle condotte di cui all’articolo 73 d.P.R. numero 309/1990 in quanto i reati che puniscono le varie forme di detenzione di sostanze stupefacenti sono reati di pericolo astratto. Ne consegue che, laddove il fatto sia conforme alla fattispecie tipica, ricorre l’offensività astratta della condotta. Tale idoneità offensiva può anche essere oggetto di accertamento in concreto e deve essere esclusa laddove la sostanza ricavabile dalla coltivazione non sia idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile oppure non abbia la qualità minima per svolgere la funzione di droga. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato atto dell’idoneità di tre delle piante rinvenute nell’abitazione del ricorrente a consentire di ricavare immediatamente la sostanza stupefacente e della potenzialità delle altre piante, seppur non ancora mature, a produrre in futuro lo stupefacente. In conclusione, il ricorso risulta inammissibile.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 aprile – 24 agosto 2018, numero 38868 Presidente Di Nicola – Relatore Liberati Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 19 luglio 2013 R.D. , in esito a giudizio abbreviato, era stato condannato dal Tribunale di Rimini alla pena condizionalmente sospesa di mesi otto di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, in relazione al reato di cui all’articolo 73, comma 5, d.P.R. 309/90 ascrittogli per avere coltivato e detenuto a fine di spaccio presso la propria abitazione sette piante di canapa indiana, suddivise in sette vasi, del peso complessivo di grammi 243,00 . La Corte d’appello di Bologna, provvedendo con la sentenza del 6 giugno 2017 sulla impugnazione dell’imputato, ha ridotto la pena inflittagli a mesi quattro di reclusione ed Euro 800,00 di multa, confermando nel resto la sentenza impugnata. 2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari ai fini della motivazione. 2.1. Con un primo motivo ha lamentato la violazione degli articolo 13, comma 2, 25, comma 2, e 27, comma 3, Cost., prospettando la mancanza di offensività della condotta di coltivazione della canapa indiana rinvenuta presso la propria abitazione, non essendo sufficiente a tale scopo l’accertamento del possesso di efficacia drogante di tali piante, in considerazione del loro numero esiguo e della destinazione al consumo personale, non essendovi indici rivelatori della volontà dell’imputato di cedere a terzi le foglie una volta tagliate dalle piante, con la conseguente insussistenza di un pregiudizio per l’interesse protetto dalla norma incriminatrice. 2.2. Con un secondo motivo ha lamentato la mancanza e l’illogicità manifesta della motivazione, ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lett. e , cod. proc. penumero , in riferimento alla affermazione della propria responsabilità, fondata esclusivamente sul richiamo a precedenti giurisprudenziali, disgiunto dall’analisi della fattispecie concreta. Considerato in diritto 1. Il ricorso, riproduttivo del primo motivo d’appello e affidato a censure generiche, prive di autentico confronto critico con la struttura argomentativa della sentenza impugnata, ma consistenti solamente nel generico richiamo a orientamenti interpretativi affermati a proposito della coltivazione di sostanze stupefacenti, è manifestamente infondato. La Corte d’appello di Bologna ha espressamente e diffusamente richiamato la consolidata interpretazione della nozione di illecita coltivazione di sostanze stupefacenti, derivante dalla sentenza delle Sezioni Unite numero 28605 del 24/04/2008 Sez. U, numero 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920 conf., ex p/urimis, Sez. 6, numero 49528 del 13/10/2009, Lanzo, Rv. 245648 Sez. 6, numero 12612 del 10/12/2012, dep. 18/03/2013, Floriano, Rv. 254891 Sez. 6, numero 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732 Sez. 3, numero 9700 del 09/12/2016, dep. 28/02/2017, Iocco, Rv. 269353, circa la conformità della disciplina interna a quella comunitaria , nella quale è stato chiarito che la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti rientra tout court nell’ambito delle condotte di cui al d.P.R. numero 309 del 1990, articolo 73, in quanto i reati che puniscono le varie forme di detenzione di sostanze stupefacenti sono reati di pericolo astratto, sicché, laddove il fatto sia conforme alla fattispecie tipica, ricorre necessariamente l’astratta offensività della condotta. Le Sezioni Unite, nella medesima sentenza, hanno, poi, dato atto della possibilità di verificare l’offensività in concreto della condotta che, nel caso della coltivazione, non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile , ovvero allorquando la sostanza sia conforme al tipo , ma non abbia la qualità minima per svolgere la funzione di droga. Ora, nella vicenda in esame, la Corte territoriale ha dato atto della idoneità di tre delle piante rinvenute nella abitazione del ricorrente a consentire di ricavare immediatamente da esse sostanza stupefacente, e anche della potenzialità delle altre quattro pure ivi rinvenute a produrre, in futuro, sostanza stupefacente. Ciò consente di escludere la prospettata mancanza di offensività della coltivazione ascritta al ricorrente, stante la accertata idoneità di tutte le piante coltivate dall’imputato a produrre un effetto stupefacente, essendo, tra l’altro, stato affermato che ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il coltivare è attività che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico Sez. 6, numero 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998 conf. Sez. 4, numero 44136 del 27/10/2015, Cinus, Rv. 264910 Sez. 6, Sentenza numero 52547 del 22/11/2016, Losi, Rv. 268938 Sez. 6, numero 10931 del 01/02/2017, D’Antoni, Rv. 270495 . Il ricorso risulta, dunque, manifestamente infondato, per la sua contrarietà a principi da tempo consolidati e per l’evidente offensività in concreto della coltivazione ascritta al ricorrente, essendo stata accertata la capacità drogante della sostanza cannabis sativa L contenuta almeno nelle tre piante più sviluppate e l’idoneità delle altre a produrre in futuro sostanze stupefacenti, sicché esso deve essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex articolo 616 cod. proc. penumero , non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente Corte Cost. sentenza 7 - 13 giugno 2000, numero 186 , l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.