Il giudice del merito può (stringatamente) motivare

Dunque può richiamare, solo per relationem , l’esito di una relazione peritale. E non può costituire motivo di censura una prospettazione alternativa dei fatti.

Il caso. Un procuratore generale ricorre avverso la sentenza assolutoria di merito mossa nei confronti di un medico che avrebbe prodotto lesioni ad una paziente sottoposta ad un delicato trattamento chirurgico. Nel corso dell’operazione erano insorte alcune complicazioni, tali da cagionare consistenti lesioni alla paziente. Nel merito si erano accertate imprevedibili preesistenti condizioni patologiche concausanti l’ulteriore esito patologico. Nel ricorso il Procuratore Generale denunciava un vizio logico e motivazionale, contestava le perizie licenziate e prospettava una differente ricostruzione dei fatti, anche in punto di verifica del nesso causale. La Cassazione, Quarta Sezione Penale, numero 3925 depositata il 31 gennaio 2012, rigettava il ricorso e precisava «Compito del giudizio di legittimità non è di sovrapporre la propria valutazione a quella dei giudici del merito, bensì se questi hanno esaminato tutti gli elementi a disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione degli stessi e se abbiano correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni rispetto ad altre. La dimostrazione della carenza sul piano logico non ha nulla a che fare con la prospettazione di un altro iter , quand’anche corretto sul piano logico. Costituisce giudizio di fatto, insindacabile in questa sede, se logicamente e congruamente motivato, la valutazione, positiva o negativa, dell’elaborato peritale e delle relative conclusioni di guisa che il giudice del merito può far proprie le conclusioni del perito, rimettendo ad esse il supporto critico della decisione assunta». La Cassazione preferisce la coerenza interna alla completezza della motivazione della sentenza di merito. Con questo intervento chiarificatore la Cassazione conferma che il ventaglio del ricorso di legittimità possa estendersi anche ad atti processuali esterni al testo impugnato, purché siano richiamati e collocati all’interno della motivazione e al quadro argomentativo ivi contenuto, in aderenza a quanto consentito dal testo dell’articolo 606, comma e , c.p.p., come novellato. Altresì, aderisce a quell’orientamento che reputa bastevole in motivazione la mera indicazione delle risultanze di un atto interno al processo e dal forte tenore tecnico e valutativo, quale la relazione peritale, non essendo richiesta – necessariamente - l’apposizione di argomentazioni che a quell’esito specialistico aggiungano ulteriori elementi di conforto. Come è ben intuibile da quanto esposto, sull’altare di esigenze di economia processuale anche in punto di stesura della motivazione si rischia il pregiudizio di quelle esigenze di chiarezza e completezza delle decisioni ultime giudiziali che dovrebbero orientare ogni fase processuale. È possibile infatti, specificano gli Ermellini, affidarsi al nudo e crudo dato peritale e dunque spendere, in punto di accertamento causale affidato allo specialista tecnico, pochi o nessun riferimento di sostegno a quella conclusione, limitandosi ad aderire a quell’esito che di sovente, nelle relazioni peritali, viene succintamente confinato nella sezione finale della relazione licenziata. Occorre che quel dato peritale sia comunque stato reso conoscibile in ogni sua parte dalla difesa dei ricorrenti, perché maturato all’interno delle dialettiche processuali scandite dal codice di procedura. In tal modo la Cassazione supera le resistenze, prevalenti in dottrina, alla legittimità di un impianto motivazionale non completo dei dati istruttori eppur rilevanti tuttavia non presenti per l’intero nell’atto impugnato. Gli Ermellini, nel caso in commento, mostrano quindi di preferire le esigenze di coerenza interna alla motivazione - che raccoglie il dato peritale e lo colloca all’interno delle strutture sillogistiche che permeano la decisione - a quelle di completezza ed esaustività dei dati contenuti. I derivati limiti al ricorso per Cassazione. Il giudicante del merito, sì facendo, pone un limite al gravame, siccome confina all’interno di quella ermetica adesione al dato peritale un giudizio di fatto, come tale irreclamabile di fronte al giudice delle leggi. In tal modo il ricorrente - sebbene l’articolo 606, comma e , cit., gli consenta di poter ampliare l’oggetto del ricorso a quanto contenuto ab extrinseco alla motivazione – è chiuso da quel valore di giudizio di fatto contro cui non è possibile ricorrere, a meno che nella sentenza di merito appellata siano contenuti più elementi di sostegno all’esito peritale, in grado di ampliare il thema decidendum , siccome risultanti dal testo del provvedimento impugnato, ed in quanto tali di entrare nel tessuto logico passibile di censura nei motivi di gravame. In tal modo il giudice del merito, motivando, seleziona il censurabile in sede di legittimità e fissa la soglia sotto alla quale il dato processuale non contenuto in motivazione non può far parte di quanto il ricorrente utilizza al fine di aggredire la tenuta logica della sentenza. Ne segue che, sotto un relato profilo, la Cassazione – con il beneplacito di una fu invocata Corte Costituzionale - concede al giudice di merito di chiudere gli spazi ad un ricorso vertente in punto di articolo 606, comma e , cod. cit., mediante un’articolazione motivazionale che affidi al nudo dato peritale, in ordine al quesito prospettato in sede istruttoria, un valore giudiziale la cui forza riposa su incensurabili deduzioni di fatto, composte da dati e valutazioni estrinseci al testo della motivazione. Quanto più stringata dunque è la motivazione all’esito del giudizio del merito, quanto meno è logicamente censurabile e quindi aggredibile in sede di legittimità. Oggetto del ricorso per cassazione non è una prospettazione alternativa dei fatti, conducente a condanna. Al fine di suffragare l’insostenibilità di una sequela argomentativa contenuta in motivazione, di sovente i ricorrenti allegano una prospettazione alternativa in grado di coniugare i dati istruttori maturati nel processo. La Cassazione precisa che nessun valore ha l’attendibilità logica di una ricostruzione differente da quella sostenuta dal giudice del merito, in quanto il ricorso deve mirare a decostruire un quadro argomentativo giudizialmente sostenuto. Il sindacato di un accertamento processuale che ha condotto ad assoluzione, per essere confutato, deve essere necessariamente negato sotto ogni profilo prima facie verificabile in motivazione. Tale esigenza pare ben allineata con quel giudizio di «ragionevole certezza» che, anche in questo caso, la Cassazione propugna al fine di consentire l’accesso ad un giudizio di colpevolezza. Prospettare una ricostruzione alternativa conducente a condanna, per l’alta certezza razionale che la deve sostenere pur anche in giudizi caratterizzati da alti indici di complessità tecnica, implica, sic et simpliciter , il superamento in radice di quella conducente all’assoluzione dell’imputato, che ne costituisce un anteposto logico impossibile. Tale ultima operazione, conferma la Cassazione, costituisce l’oggetto primario del ricorso avverso una sentenza di assoluzione, mai surrogabile dalla proposizione di elementi indiretti o semplicemente sintomatici di una ipotesi di colpevolezza contenuti in prospettazioni alternative. Quest’ultime sono eventualmente avanzabili solo a sostegno di argomentazioni di per sé in grado di demolire la motivazione assolutoria del giudice del merito.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 24 giugno 2011 – 31 gennaio 2012, numero 3925 Presidente Marzano – Relatore Casella Ritenuto in fatto Con sentenza in data 3 febbraio 2010, la Corte d'appello di Palermo confermava l'assoluzione pronunziata dal Tribunale di Agrigento, con sentenza emessa il 19 ottobre 2005, nei confronti di B.S. e di F.A.M.R. , rispettivamente perché il fatto non sussiste e per non aver commesso il fatto , dal delitto di cui agli articolo 113, 590, comma 2 in relazione all'articolo 583 comma 1 cod. penumero , commesso il omissis in danno di C.F. . Agli imputati, in qualità di chirurghi in servizio al reparto di ostetricia e ginecologia dell'Ospedale S. Giovanni di Dio di omissis , si addebitava di aver cagionato alla C. lesioni colpose gravi - comportanti una malattia ed un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a giorni quaranta - in conseguenza dell'ulteriore intervento cui la donna era stata sottoposta per la resecazione del segmento del sigma perforato, per il confezionamento di un ano preternaturale e per la saturazione del fondo dell'utero dopochè, nell'esecuzione del primo intervento di polipectomia endometriale iniziato in isteroscopia dalla F.A. , ma poi completato dal B. con l'estrazione del polipo unitamente a mucosa di grosso Intestino per grave imperizia, gli imputati avevano perforato la parete dell'utero e del sigma della paziente lesioni delle quali, per una negligente ispezione uterina, non si erano accorti al termine dell'intervento sì da cagionare alla donna una complicanza peritonitica che aveva reso indispensabile procedere al secondo intervento. In occasione di tale intervento - come riportato dalla cartella clinica - veniva evidenziata dai chirurghi un peritonite diffusa con un piccolo tramite sul fondo uterino e con perforazione del sigma, in presenza di frammenti di materiale fecale. Il Giudice di prime cure escluse che potesse dirsi accertato, con sufficiente grado di certezza, che la perforazione dell'utero e del sigma e la conseguente peritonite fossero conseguenza della condotta degli imputati. Alla stregua dei pareri espressi dai consulenti medico - legali delle parti, la pinza ad anelli modificata, con la quale fu eseguito l'intervento di polipectomia uterina, da un lato, appariva strumento chirurgico corretto e comunque non tale da determinare la perforazione dell'utero e del sigma, non essendo tagliente e non corrispondendo peraltro la perforazione puntiforme con le dimensioni e la foggia della pinza stessa. D'altro canto, avevano altresì evidenziato i consulenti la sussistenza di diversi fattori concausali dell'evento. L'accertata mancanza di tessuto endometriale tra quello asportato dalla cavità uterina quale reperto operatorio in presenza di diverticolosi massiva soggetta ad infiammazione confortava, nel consulente della difesa, il convincimento di un diverticolo intestinale perforante la parete uterina e protundente in cavità. Il medesimo ruolo di concausa veniva attribuita alla condizione di utero malacico della donna perché indebolito da gravidanze ed in maniera più rilevante da un aborto eseguito con taglio cesareo nel corso della ventiduesima settimana di gravidanza, per di più colpito da malattia neoplastica evidenziata dall'esame istologico eseguito a seguito di isterectomia coinvolgente anche un polipo endometriale. La concomitante sussistenza di altri fattori, dotati di autonoma efficienza causale neppure consentiva di ravvisare, nella mancata ispezione della cavità uterina, la causa dell'Insorgenza della peritonite,avendo a tanto proceduto il B. con una courette circostanza mai contraddetta nemmeno dal P.M. donde il difetto di prova certa in ordine al nesso di causalità tra le condotte e le omissioni, ascritte agli imputati e l'evento lesivo subito dalla paziente. La Corte d'appello di Palermo, disposta ed espletata, in sede di parziale rinnovazione del dibattimento, perizia medico - legale al fine di accertare se l'intervento chirurgico di asportazione del polipo uterino fosse stato correttamente eseguito in conformità alle regole ed alle tecniche dell'arte chirurgica più adeguata al caso, ha condiviso le conclusioni formulate dal collegio peritale nominato, che ebbe ad accertare che - la perforazione della parete uterina e di quella intestinale era indubbia conseguenza diretta dell'intervento di asportazione, per via isteroscopica, del polipo uterino complicanza favorita o resa possibile dalle condizioni anatomo - patologiche della mucosa uterina utero malacico a cagione delle due gravidanze e di un pregresso aborto nonché della diagnosticata presenza di un adenocarcinoma dell'endometrio, associata ad un quadro di diverticolosi con diverticolite donde il probabile sviluppo di aderenze tra la parete uterina e quella intestinale - in esito a detta complicanza, la paziente sviluppò un quadro di addome acuto da peritonite post - operatoria e fu sottoposta ad un ulteriore intervento chirurgico di laparotomia con sutura della parete uterina e con resezione di un tratto di 5 cm, del sigma perforato, senzachè tale intervento l'avesse esposta a pericolo di vita, subendo un periodo di malattia non superiore a giorni 40 - le dimensioni della lacerazione uterina puntiforme , secondo i periti, non corrispondeva a quelle della pinza ad anelli usata per l'asportazione del polipo né era possibile che la pinza avesse potuto raggiungere il fondo dell'utero - la mancanza di tessuto endometriale tra il materiale asportato dalla cavità uterina, come comprovato dai risultati dell’esame bioptico del polipo eseguito il OMISSIS , dimostrava che la perforazione dell'utero e dello stesso intestino non poteva risalire a fatto manuale iatrogeno, ma all'azione di un diverticolo intestinale perforante,correttamente asportato dal chirurgo. - la puntiforme lacerazione doveva farsi risalire all'esito dell' asportazione per torsione sul peduncolo di diverticolo intestinale , tanto più che non era stata mai registrata alcuna perdita ematica - nessuna responsabilità colposa poteva quindi ascriversi al B. in difetto di condotte od omissioni connotate da imperizia o da negligenza - nessun addebito colposo poteva attribuirsi alla imputata F.A. giacche, qualunque fosse stata la causa della lesione, il prodursi della stessa comportò necessariamente il compimento di attività di torsione/trazione e di estrazione che, come documentalmente comprovato, non risaliva alla stessa prevenuta, che ben prima aveva abbandonato il campo operatorio. La Corte d'appello di Palermo ha quindi conclusivamente ritenuto di confermare la sentenza assolutoria di primo grado non avendo il compendio probatorio evidenziato elementi certi in ordine all'efficienza causale della condotta negligente ed imperita contestata. Avverso la sentenza ricorre per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica di Palermo, denunziando vizi di erronea applicazione della legge penale e di manifesta illogicità della motivazione. Secondo i periti nominati nel giudizio in grado d'appello, doveva ritenersi incontroverso che la perforazione delle pareti uterina ed intestinale erano diretta conseguenza dell'intervento di asportazione per via isteroscopica del polipo uterino perforazione che cagionò a sua volta la complicanza peritonitica con conseguente allungamento del periodo di malattia superiore a giorni 40 e con la successiva necessità di derivare all'esterno lo sbocco intestinale con la creazione di un ano preternaturale, sia pure temporaneo. Gli stessi periti, a giudizio del ricorrente, avevano poi evidenziato che le cause di siffatte lesioni derivarono, come si verifica nella maggior parte dei casi, dal mancato od improprio riconoscimento dell'esatto posizionamento dell'utero, dovuto al non corretto impiego dello strumento ginecologico fattori causali quindi legati all'intervento dell'operatore. La Corte distrettuale, a giudizio del ricorrente, con motivazione palesemente illogica ed incorrendo nell'erronea applicazione degli articolo 40 e 41 cod. penumero in tema di nesso di causalità e di concorso di cause, è pervenuta a confermare la pronunzia di assoluzione di primo grado del B. , affermando, per un verso, che la perforazione intestinale subita dalla paziente fu conseguenza diretta dell'intervento di polipectomia e, per altro verso contraddittoriamente che l'intervento riparatore di sutura chirurgica e gli altri due cui la C. venne sottoposta non oggetto della imputazione erano eziologicamente collegati ad una serie di fattori rilevante indebolimento della parete uterina per pregresse gravidanze diverticolosi probabile aderenze tra utero e sigma ipotizzati dai consulenti della difesa ed, in ultima analisi, alla trascuratezza della stessa parte offesa nel non sottoporsi, dopo l'intervento, ai prescritti controlli sanitari. Insta in conclusione il ricorrente per l'annullamento della sentenza. Considerato in diritto Ritiene la Corte che la sentenza impugnata sia immune dai vizi lamentati dal ricorrente. Giova innanzitutto premettere che, per consolidato, pacifico e risalente assunto giurisprudenziale di questa Corte, in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione se abbiano fornito una corretta interpretazione degli stessi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti e se abbiano correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre Cass., Sez. Unumero , 13.12.1995, numero 930/1996 id., Sez. Unumero , 31.5.2000, numero 12 . Il vizio di motivazione, poi, deducibile in sede di legittimità deve risultare, per espressa previsione normativa, dal testo del provvedimento impugnato, ovvero - a seguito della modifica apportata all'articolo 606.1, lett. e , cod.proc.penumero dall'articolo 8 della L. 20.2.2006, numero 46 - da altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame , il che implica - quanto al vizio di manifesta illogicità -, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l'iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro iter, quand'anche in tesi egualmente corretti sul piano logico ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché, in tesi, munite di eguale crisma di logicità cfr. Cass., Sez. Unumero , 27.9.1995, numero 30 . Nella concreta fattispecie, la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali - quali sopra riportati nella parte narrativa e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni - forniscono, con argomentazioni basate su di una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti la vicenda oggetto del processo. La Corte distrettuale è giunta alla conferma dell'assoluzione dell'imputato B. , pronunziata dal Giudice di prime cure, seguendo un corretto iter argomentativo, alla stregua del rilevato difetto di prova certa circa l'efficienza causale della condotta negligente ascritta all'imputato. Deve quindi rilevarsi che, al di là della rivalutazione delle risultanze sostanzialmente propugnata dal ricorrente attraverso la prospettazione di un'ipotesi causale alternativa e la rilettura degli elementi di fatto posti a sostegno della decisione - ovviamente improponibile in sede di legittimità siccome rimessa all'esclusivo apprezzamento del giudice di merito cfr. S.U. numero 6402/1997 - il tessuto argomentativo della sentenza impugnata ha coerentemente dato atto della obiettiva impossibilità di pervenire ad una ricostruzione univoca della sequenza causale eziologicamente collegata alla perforazione della parete uterina e di quella del sigma dalla quale, com'è intuitivo, ha poi avuto origine la patologia peritonitica. Per ciò che attiene poi alle specifiche censure dedotte dal ricorrente, giova ricordare che, secondo quanto ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di prova, costituisce giudizio di fatto, insindacabile in questa sede, se logicamente e congruamente motivato, la valutazione, positiva o negativa, dell'elaborato peritale e delle relative conclusioni di guisa che il giudice del merito può far proprie le conclusioni del perito, rimettendo ad esse il supporto critico della decisione assunta cfr. Sez. % numero 10836/1988 . Orbene, nel caso di specie,la Corte d'appello di Palermo ha compiutamente soddisfatto all'onere della motivazione recependo e condividendo, alla stregua di congrue e coerenti argomentazioni, l'avviso espresso dal collegio peritale dalla stessa nominato e disattendendo criticamente, per altro verso, le prospettazioni tecnico - scientifiche di segno contrario alle quali ha fatto invece riferimento il ricorrente. Conclusivamente ritiene il Collegio che, posta l'incertezza in ordine alla ricostruzione causale dell'evento, puntualmente evidenziata dalla motivazione della sentenza impugnata come pure dal Giudice di prime cure la Corte distrettuale sia pervenuta alla conferma della sentenza di assoluzione di primo grado facendo altresì corretta applicazione della disciplina del nesso di causalità. In sostanza i Giudici di seconda istanza si sono attenuti a quell’orientamento prevalente e consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in difetto di riscontro probatorio improntato ad un rilevante grado di certezza sull'esistenza del nesso di causalità tale da escludere l'interferenza di serie causali alternative non possa che correttamente pervenirsi al proscioglimento dell'imputato. P.Q.M. Rigetta il ricorso.