Quali sono i limiti del giudizio di legittimità?

La mera prospettazione di una soluzione interpretativa delle acquisizioni probatorie alternativa a quella fatta propria dai Giudici di merito, non è idonea ad integrare il vizio processuale della manifesta illogicità della motivazione derivante dal travisamento della prova.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 28624 del 3 luglio 2013. Il caso. La Corte di Appello di Venezia, pur riformando parzialmente la sentenza emessa dal Giudice dell’Udienza Preliminare di Padova, condannava M.G. per i reati di lesioni personali aggravate nonché, unitamente al coimputato P.M., per falso ideologico. In particolare, il primo, assistente capo della Polizia Penitenziaria, dopo aver condotto il detenuto M.P. nel proprio ufficio, per motivi futili usava violenza nei suoi confronti, aggredendolo violentemente e, al fine di occultare il fatto, redigeva una relazione di servizio in cui attestava, falsamente, che le lesioni erano state provocate da una caduta. Il coimputato P.M., collega in servizio all’epoca dei fatti, pur avendo assistito all’aggressione, al fine di occultare il reato perpetrato da M.G., si rendeva autore di una relazione di servizio dall’identico contenuto falsato. I Giudici di merito pervenivano all’affermazione di responsabilità per entrambi sulla scorta delle dichiarazioni della p.o., suffragate sia delle certificazioni sanitarie attestanti le lesioni subite, che da quanto appreso dai filmati delle telecamere dell’Istituto Penitenziario. Avverso tale statuizione, gli imputati ricorrevano per Cassazione, deducendo plurimi motivi di gravame sostanzialmente afferenti la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, derivante dal travisamento della prova, nonché la violazione del divieto di reformatio in peius , non essendo stata condizionalmente sospesa la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, nonostante la sospensione della pena principale. L’imputato P.M., inoltre, lamentava l’erronea applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p., ed il vizio di motivazione mancante relativamente alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Limiti del giudizio di legittimità ed applicazione delle pene accessorie. La Quinta Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, nel rigettare in toto i ricorsi, ha avuto modo di riprendere e specificare alcuni consolidati principi di diritto. Anzitutto, la dedotta illogicità della motivazione ex art. 606 comma I lett. e c.p.p., derivante dal presunto travisamento della prova, può essere censurata solo allorquando sia talmente evidente da essere percepibile ictu oculi , ovvero caratterizzata dalla palese assenza di un logico apparato argomentativo, il tutto senza che la Corte debba operare una rilettura degli elementi fattuali caratterizzanti il caso specifico, non potendo essere superati i limiti del giudizio di legittimità. Altrimenti detto, la mera prospettazione di una soluzione interpretativa delle acquisizioni probatorie alternativa a quella fatta propria dai Giudici di merito, non è idonea ad integrare il vizio processuale de quo , travalicando i predetti limiti del rito, ed essendo meramente caratterizzata da censure in punto di fatto non sindacabili in sede di legittimità. Quanto, poi, alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena accessoria, i Supremi Giudici si limitano a chiarire come la stessa sia automaticamente consequenziale alla sospensione della pena principale, senza che sia necessaria una esplicita delibazione in tal senso infatti, avendo la Corte territoriale utilizzato la formula della conferma nel resto, si evince pacificamente come sia stata, appunto, confermata la sospensione de qua già concessa dal GUP. Fermo restando che, in ogni caso, la Corte Regolatrice specifica come l’applicazione d’ufficio da parte del Giudice d’Appello, anche in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero, di pene accessorie non applicate in primo grado è legittima, non violando il principio di reformatio in peius che, infatti, non rileva per tali pene. Aggravante teleologica ed attenuanti generiche. Per ciò che concerne, inoltre, la dedotta erronea applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p., il Supremo Collegio precisa come la stessa, c.d. aggravante teleologica, non richiede – così come erroneamente affermato nel ricorso – che il reato mezzo ed il reato fine siano perpetrati dallo stesso soggetto in effetti, la circostanza in argomento risulta applicabile laddove il reato mezzo venga posto in essere per assicurare a se, o ad altri, il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato. Infine, quanto al motivo di ricorso precipuamente inerente la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, i Supremi Giudici hanno ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’applicazione delle stesse è interamente subordinata e rimessa alla facoltà discrezionale del Giudice di merito, il cui unico onere è rappresentato dalla sussistenza della necessaria motivazione – ritenuta sussistente nel caso de quo – afferente gli elementi sulla cui scorta lo stesso opti per una decisione positiva o negativa.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 26 febbraio - 3 luglio 2013, n. 28624 Presidente Zecca – Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. La Corte d'appello di Venezia, con sentenza del 13-2-2012, in parziale riforma di quella emessa dal Giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Padova, all'esito di giudizio abbreviato, condannava M G. a pena di giustizia per lesioni personali aggravate in danno di Pu.Ma. e per falso ideologico, nonché P.M. per falso ideologico. Secondo la prospettazione accusatoria, condivisa dai giudici del merito, il G. , assistente capo della Polizia penitenziaria in servizio presso la Casa di reclusione di , dopo aver condotto il Pu. , detenuto nella stessa Casa, nel proprio ufficio, per futili motivi lo picchiò selvaggiamente e, al fine di garantirsi l'impunità da tale reato, stilò una relazione informativa falsa, asserendo che il detenuto si era infortunato cadendo dalle scale. Il P. , anch'egli assistente nella Casa circondariale di , dal canto suo, stilò anch'egli una relazione informativa dall'identico contenuto, pur avendo assistito all'aggressione, al fine di coprire le malefatte del collega. All'affermazione di responsabilità i giudici sono pervenuti sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, del medico dell'istituto penitenziario e della visione di alcuni filmati ripresi dalle telecamere dell'Istituto. 2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse di G.M. , l'avv. Paola Porzio lamentando a la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, fondata sul travisamento della prova. Deduce che il dr. M. , medico dell'Istituto, non ha escluso che le lesioni riportate dal Pu. sette costole rotte possano essere state conseguenza di una caduta dalle scale, solo esigendosi, in tal caso, che si sia trattato di una caduta rovinosa e che lo stesso Pu. ha, in tre occasioni, affermato di essersi infortunato cadendo dalle scale in una delle quali riferendo all'ispettore che lo interrogava , prima di cambiare versione. Inoltre, i sanitari del nosocomio presso cui fu ricoverato il Pu. non hanno mai messo in dubbio la dinamica da questi riferita. Deduce, inoltre, che la Corte territoriale ha travisato le dichiarazioni dei compagni di cella del Pu. , che nulla potevano sapere di quanto accaduto al compagno, e che la Corte d'appello abbia travisato il contenuto dei filmati, dai quali nulla è possibile desumere a carico dell'imputato b la violazione degli artt. 166, comma 1, cod. pen. e 597, comma 3, cod. proc. pen., per non essere stata condizionalmente sospesa la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, in conformità alla sospensione disposta per la pena principale. 3. Ha proposto altresì ricorso, nell'interesse di P.M. , l'avv. Achille Vellucci, che si avvale di cinque motivi. Col primo lamenta l'erronea applicazione dell'art. 61, n. 2, cod. pen., in quanto l'aggravante in questione presuppone che il reato mezzo e il reato fine siano posti in essere dalla stessa persona cosa che non è avvenuta nella specie. Inoltre, perché l'aggravante è di carattere soggettivo ed esige la rappresentazione dell'evento. Col secondo si duole dell'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Col terzo lamenta una reformatio in peius della sentenza d'appello, in violazione dell'art. 597, comma 3, cod. proc. pen., essendo stata applicata, in appello, la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici in mancanza di impugnazione del Pubblico Ministero. Col quarto di duole della mancata concessione delle attenuanti generiche e deduce il vizio di motivazione al riguardo, essendo stata indebitamente equiparata la condotta del P. a quella del coimputato, da ritenere ben più grave. Col quinto lamenta il vizio di motivazione in ordine alla prova della responsabilità, essendosi desunta la prova della consapevolezza circa il pestaggio attuato dal G. dalla visione di filmati nient'affatto chiari. 3.1. In data 11-2-2013 sono stati depositati nuovi motivi, nell'interesse del P. , da parte dell'avv. Simone Faiella, il quale censura la sentenza per illogicità della motivazione sia in punto di ricostruzione del fatto che di applicazione del diritto. Deduce che la sentenza non motiva in ordine alla prova della consapevolezza, in capo al P. , di quanto avvenuto nell'ambulatorio del carcere in danno del Pu. e al fatto che questi abbia dichiarato al P. cose diverse da quelle relazionate. Deduce che la relazione riporta quanto effettivamente riferito dal detenuto all'assistente di polizia penitenziaria di essere caduto mentre scendeva le scale , e non ciò che era avvenuto nell'ambulatorio del carcere. Considerato in diritto I motivi di ricorso sono infondati e vanno pertanto disattesi. 1.1. Il primo motivo sollevato dal difensore di G.M. è infondato e ai limiti? dell'ammissibilità, in quanto, sotto la veste del vizio di motivazione, propone censure che attengono alla valutazione delle risultanze istruttorie, riservata al giudice di merito. Come è noto la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto, pressocché costantemente, che l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e c.p.p., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi , in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali Cfr. Cass. 24.9.2003 n. 18 conformi, sempre a sezioni unite Cass. n. 12/2000 n. 24/1999 n. 6402/1997 . Più specificamente esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali Cass. sezioni unite 30.4.1997, Dessimone . Nella specie, la Corte di merito è pervenuta all'affermazione di responsabilità del ricorrente in base alle dichiarazioni del Pu. , di cui ha sondato l'attendibilità e valutato il tortuoso percorso testimoniale, imputato, con logica motivazione, al timore del detenuto di subire le ritorsioni dell'agente di polizia nonché, e in special modo, in base alle riprese filmate delle telecamere dell'istituto, sulla cui base ha potuto ricostruire l'antefatto e il post-fatto dell'aggressione, la durata della stessa e l'atteggiamento dei soggetti coinvolti, e da cui ha tratto significativi e decisivi elementi di riscontro alle dichiarazioni della persona offesa l'andamento spensierato del Pu. mentre si avvicinava alla stanza in cui fu pestato l'ordine dato da G. al detenuto di entrare nella stanza suddetta e l'ingresso nella stanza del malcapitato l'uscita dalla stanza del Pu. , in evidente affanno per le percosse ricevute l'atteggiamento marziale sfoggiato dal G. dopo il pestaggio . Né meno importanti sono parse, con logica ineccepibile, le gravi lesioni riscontrate sulla persona del Pu. sette costole rotte e la constatazione, fatta dal medico dell'Istituto, che le stesse non potevano imputarsi ad una caduta dalle scale, di cui, peraltro, non v'era traccia in relazioni degli agenti di custodia fatte fuori del periodo sospetto. Ne consegue che la congruità e la logicità della motivazione non consentono neppure di prendere in esame le argomentazioni della difesa, che si concretano in censure di fatto, non sindacabili in sede di legittimità, specie laddove ipotizzano una caduta dalle scale che il medico del carcere ha sostanzialmente escluso e che il ricorrente prospetta in termini di mera possibilità laddove adduce una diversa lettura dei filmati, che questa Corte non conosce e non può visionare, trattandosi di un accertamento di fatto rimesso alla cognizione e valutazione del giudice di merito laddove introduce nel processo elementi di conoscenza acquisiti direttamente dal difensore dell'imputato, di cui nulla è dato sapere laddove parla di travisamento della prova e lo fa in relazione alle dichiarazioni dei compagni di cella del Pu. , cui la Corte territoriale ha riservato scarsissima e marginale considerazione perché lontani dal teatro dell'aggressione . 1.2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso del G. , concernente la mancata sospensione della pena accessoria dai pubblici uffici, giacché la sospensione delle pene accessorie segue, per legge, quella della pena principale art. 166 cod. pen. senza necessità di espressa delibazione Cassazione penale, sez. I, 12/05/2010, n. 31708 Cass., 28/10/2009, n. 763 . Nel caso di specie, peraltro, il giudice d'appello ha confermato nel resto la sentenza del tribunale, laddove nel resto è compresa la sospensione condizionale della pena, che si estende per legge, per quanto detto, alla pena accessoria. 2. Parimenti infondati sono i motivi di ricorso del P. , che vengono esaminati nell'ordine in cui sono stati proposti. 2.1. Non è esatto ritenere che l'aggravante dell'art. 61, n. 2, cod. pen. c.d. aggravante teleologia presuppone che il reato mezzo e il reato fine siano posti in essere dalla stessa persona, giacché la norma in questione stabilisce un aggravamento di pena per chi commette il fatto per assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di una altro reato . In questo caso è contestato al P. di aver stilato una relazione falsa al fine di assicurare ad altri il G. l'impunità dal precedente reato è evidente che siamo nel pieno della previsione normativa. Non ha rilievo stabilire se l'aggravante abbia carattere soggettivo o meno, giacché non è stata estesa al P. l'aggravante contestata al G. , ma è stata applicata al P. un'aggravante riferita alla la sua propria condotta, concretizzatasi nella stesura di una relazione falsa ideologicamente, posta in essere per assicurare l'impunità al collega. 2.2. La pena accessoria dell'interdizione dei pubblici uffici è stata correttamente applicata, essendo consequenziale alla condanna per delitti commessi con l'abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio art. 31 cod. pen. . 2.3. È legittima l'applicazione d'ufficio, da parte del giudice di appello, delle pene accessorie non applicate in primo grado, ancorché la cognizione della specifica questione non gli sia stata devoluta con il gravame del pubblico ministero, in quanto la previsione di cui all'art. 597, comma 3, c.p.p. - che sancisce il divieto della reformatio in peius quando appellante sia il solo imputato - non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi, inibiti al giudice di appello, quelli concernenti le pene accessorie, le quali, ex art. 20 c.p., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa cassazione penale, sez. V, 22/01/2008, n. 8280 . 2.4. Il quarto motivo è infondato, in quanto è correttamente motivato il diniego delle attenuanti generiche. Si rammenta, al riguardo, che la concessione delle attenuanti generiche risponde a una facoltà discrezionale, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Tali attenuanti non vanno intese come oggetto di una benevola concessione da parte del giudice, né l'applicazione di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negativi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimento della esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento Cass. Sez. 1, 4-11-2004 n. 46954 . Nel caso di specie, le attenuanti suddette sono state negate in considerazione della gravità del reato, posto in essere nei confronti di un soggetto particolarmente debole per le sue condizioni psicologiche e di salute, e del comportamento successivo al reato, caratterizzato dalla volontà, pervicacemente manifestata, di nascondere il fatto e ottenere in tutti modi l'impunità. Vale a dire, in base a criteri di valutazione che, corrispondendo agli elementi indicati dall'art. 133 c.p., costituiscono legittimo riferimento per il corretto esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena. 2.5. Infondato è, infine, l'ultimo motivo di ricorso, che va esaminato insieme a quelli proposti l'll-2-2013, in quanto tutti attinenti alla prova della responsabilità per il reato contestato. Insussistente è, sul punto, il vizio di motivazione lamentato, giacché all'affermazione di responsabilità del P. si è giunti sulla base dei filmati delle telecamere di sorveglianza, le quali hanno messo in evidenza che l'imputato chiuse la porta della stanza in cui erano entrati G. e Pu. , rimase a passeggiare nel corridoio nei due minuti circa in cui G. dava la lezione al detenuto e si fermò più volte a guardare, attraverso lo spioncino, ciò che accadeva all'interno. Logicamente è stato ritenuto, quindi, che P. avesse visto tutto e che, quando stilò la sua dichiarazione, scrisse il falso, in quanto perfettamente a conoscenza del fatto che le lesioni al Pu. erano venute dal pestaggio effettuato dal collega e non da una caduta accidentale dalle scale. Priva di pregio è, poi, l'osservazione che P. , nella sua relazione, non ha scritto di aver visto Pu. cadere dalle scale, ma solo ciò che questi gli riferì, in quanto, come osservato dalla Corte di merito, al P. era chiesto di riferire ciò che era a sua conoscenza, e non ciò che gli aveva detto il Pu. . Un atto proveniente dal pubblico ufficiale, che abbia l'obbligo - come aveva il P. - di relazionare ciò che è caduto sotto la sua percezione, è ideologicamente falso anche quando è privo dei contenuti di verità che l'atto deve avere. La falsità ideologica di un atto può derivare, infatti, anche dall'omissione o dalla incompletezza dei dati in esso illustrati, quando il contesto espositivo sia tale che la parzialità dell'informazione si risolve nella mendace negazione dell'esistenza di un fatto Cassazione penale, sez. I, 17/11/2004, n. 46966 . I ricorsi vanno pertanto rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento, ciascuno, delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento ciascuno delle spese processuali.