L'associato può aver diritto alla liquidazione

La somma spettante all'associato può essere determinata anche in ragione del valore dell'azienda.

Nel contratto che istituisce l'associazione in partecipazione, le parti possono disciplinare sia la durata sia le modalità di scioglimento del predetto rapporto. Nel secondo caso la regolamentazione dei rapporti patrimoniali può essere realizzata anche su base percentuale, rispetto al patrimonio dell'impresa che lo stesso associato ha contribuito a realizzare. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 24684 del 4 novembre 2013. Il caso . Due persone fisiche sottoscrivevano un contratto finalizzato alla gestione di una farmacia. Il primo decedeva e il suo erede conveniva in giudizio il superstite affinché fosse accertata e dichiarata l'esistenza di un contratto di società tra i due e, in ogni caso, il superstite fosse condannato a consegnare il rendimento della gestione e versare il risarcimento dei danni. Parte convenuta si difendeva sostenendo che il contratto originario non era di società bensì di associazione in partecipazione che l'associato defunto era inadempiente per alcuni aspetti e per altri aspetti chiedeva fosse accertata e dichiarata la nullità del contratto, infine, chiedeva che fossero rideterminate le quote di spettanza di associante ed associato con condanna alla restituzione delle somme percepite in eccesso. Il tribunale accoglieva la domanda formulata da parte attrice. La corte d'appello, riformava la decisione di primo grado, rilevava che l'originario contratto cui le parti rimandavano era espressamente qualificato come associazione in partecipazione. Tale tesi era confermata dalla clausola espressa che disciplinava la trasformazione da associazione in partecipazione in società al verificarsi della condizione che il figlio del socio defunto avesse acquisito il titolo e l'abilitazione all'esercizio della professione di farmacista. Osservava la corte territoriale, che detta condizione si era effettivamente verificata ma le parti non avevano mai provveduto a trasformare l'associazione in partecipazione in società ne, ovviamente, poteva ipotizzarsi una automatica e silenziosa trasformazione del contratto nei termini indicati da parte attrice. Le parti hanno proposto separato ricorso per cassazione. L’associazione in partecipazione. Il contratto intercorre tra due soggetti, associante e associato. L'associante è il titolare dell'impresa e si espone nei confronti dei terzi, l'associato apporta patrimonio, partecipa alla gestione dell'impresa o di un singolo affare e viene remunerato attraverso la partecipazione agli utili. Dottrina e giurisprudenza individuano gli elementi essenziali nell'apporto patrimoniale dell'associato possibile l'apporto di attività lavorativa all'impresa e nella remunerazione rappresentata dalla partecipazione agli utili o alle perdite. In tal senso si afferma che l'associato è un imprenditore che assume autonomamente il rischio d'impresa e non ha diritto ad alcun corrispettivo certo. L'associazione in partecipazione si distingue dalla società. Nelle società, i soci danno vita ad una entità giuridica nuova che diviene autonomo soggetto giuridico. L'accordo di associazione in partecipazione ha valenza interna tra associato ed associante e non crea alcun soggetto giuridico nuovo ed autonomo. Scioglimento del contratto di associazione in partecipazione ed accordi per divisione del patrimonio. Il contratto di associazione in partecipazione, nel caso in commento, conteneva una clausola che fissava la durata dell'accordo in trent'anni al termine dei quali prevedeva la ripartizione in parti uguali del patrimonio. Parte convenuta, ha sostenuto che detta clausola non era compatibile con la fattispecie giuridica dell'associazione in partecipazione, quindi, doveva essere dichiarata automaticamente nulla dalla corte d'appello. La S.C. ha chiarito che nell'associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili dell'impresa pur non essendone proprietario. Tale schema negoziale non esclude che le parti possano regolamentare, anche dal punto di vista patrimoniale, le modalità di scioglimento del rapporto. In particolare, non contrasta con alcuna norma di legge l'accordo che, in caso di scioglimento dell'associazione in partecipazione, attribuisca all'associato una quota percentuale del patrimonio-valore aziendale. Al contrario, detto criterio corrisponde alla logica per effetto della quale la liquidazione dell'associato uscente risulti proporzionale alla variazione del patrimonio aziendale utili o perdite ottenuta anche attraverso il suo apporto. Per queste ragioni, la Cassazione ha rigettato i ricorsi così confermando la decisione del giudice territoriale.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 2 ottobre - 4 novembre 2013, n. 24684 Presidente Carnevale – Relatore Lamorgese Svolgimento del processo Il sig. M.R. convenne in giudizio la sig.ra Mo.Vi. dinanzi al Tribunale di Bari, chiedendo di accertare, sulla base di un contratto concluso il 19 dicembre 1970 tra la madre del M. sig.ra A.L. , deceduta nel e la Mo. , l'avvenuta costituzione di una società di persone avente ad oggetto la gestione di una farmacia in via omissis e di condannare la convenuta al rendimento del conto e al risarcimento dei danni. La convenuta Mo. si costituì chiedendo di rigettare le domande, di accertare che il contratto era di associazione in partecipazione e che la A. si era resa inadempiente agli obblighi contrattuali, nonché di dichiarare la nullità di talune clausole del contratto del 1970, di rideterminare la quota di partecipazione spettante agli eredi M. il contraddittorio era stato integrato nei confronti dei sig.ri M.G. e L. e di condannarli alla restituzione delle somme percepite in eccesso e al risarcimento dei danni. Nel giudizio intervennero i figli della Mo. , sig.ri T.V. , G. e M. , i quali aderirono alle tesi ed eccezioni della madre e, in via subordinata, chiesero qualora fosse stata accolta la domanda attrice di accertamento della società di fatto di accertare l'esistenza di una impresa familiare eventualmente conferita nella società , la loro proprietà dell'azienda per effetto dell'esercizio del diritto di riscatto, previa liquidazione della quota comprensiva dell'avviamento e degli utili, cui avevano diritto in quanto partecipanti, a norma dell'art. 230 bis, comma 4, c.c. e il risarcimento del danno per violazione del diritto di prelazione. La sentenza del Tribunale di Bari in data 14 marzo 2005, favorevole ai M. , è stata impugnata dalla Mo. e dai T. con autonomi appelli che sono stati riuniti e decisi dalla Corte di appello di Bari con sentenza 5 aprile 2007. La corte ha qualificato l'appello dei T. come incidentale, in quando successivo a quello della Mo. , ma inammissibile in quanto tardivo, non avendo rispettato il termine di venti giorni artt. 166 e 343 c.p.c. rispetto alla data dell'udienza fissata in citazione. Nel merito, la corte, in riforma della sentenza impugnata, ha escluso l'esistenza di un società, interpretando la scrittura privata del 1970 in particolare la clausola n. 10 che prevedeva che ove un discendente della A. avesse conseguito il titolo di dottore in farmacia, se consentito dalla legge vigente, il contratto sarebbe stato trasformato da associazione in partecipazione in società nel senso che la trasformazione dello stipulato contratto di associazione in contratto di società non fosse automatica ma solo eventuale, condizionata non solo alla sopravvenienza delle due indicate condizioni di fatto e di diritto entrambe realizzate il conseguimento della laurea da parte di un erede dell'associata A. e la possibilità legale di costituire società di persone per la gestione di farmacie ex lege n. 392 del 1991 ma soprattutto al raggiungimento di un nuovo accordo mai raggiunto. Nel valutare il comportamento delle parti nella fase attuativa dell'accordo del 1970, la corte ha escluso che vi fosse prova dell'esistenza di una compagine societaria e della sua esteriorizzazione verso i terzi. Inoltre la Corte ha rigettato la domanda riconvenzionale della Mo. di accertamento della nullità della clausola n. 11 del contratto del 1970 che prevedeva, alla sua scadenza trentennale in data 31 dicembre 2000 , la valutazione e la divisione dell'azienda in parti uguali tra i contraenti e gli eredi ovvero, in alternativa, la risoluzione del contratto ha ritenuto che le ulteriori censure attinenti ad un provvedimento cautelare di sequestro conservativo concesso dal tribunale su ricorso dei M. e alla divisione del valore dell'azienda dovessero essere delibate nel diverso processo pendente nel quale i M. avevano chiesto di quantificare il proprio credito ha infine compensato le spese di entrambi i gradi di giudizio. Avverso questa sentenza propongono separati ricorsi per cassazione i sig.ri T. con due motivi e la sig.ra Mo. con sei articolati motivi, cui resiste il sig. M R. . I sig.ri M.G. e L. non hanno svolto attività difensiva. Le parti hanno presentato memorie. Motivi della decisione I ricorsi hanno ad oggetto la medesima sentenza impugnata e vanno quindi riuniti, a norma dell'art. 335 c.p.c Nel primo motivo del suo ricorso la sig.ra Mo. addebita alla corte di merito l'omessa pronuncia sul motivo di appello concernente la dedotta nullità della sentenza di primo grado per violazione delle disposizioni sulla costituzione del giudice art. 158 c.p.c. , rientrando la controversia - a suo avviso - tra quelle rimesse alla decisione collegiale del tribunale, a norma dell'art. 50 bis n. 5 c.p.c Il motivo è infondato. Questa Corte sent. n. 9615 del 2010 ha avuto occasione di rilevare che l'art. 50 quater c.p.c. prevede espressamente che le disposizioni di cui agli artt. 50 bis e 50 ter non si considerano attinenti alla costituzione del giudice e che alla nullità derivante dalla loro inosservanza si applica l'art. 161 c.p.c., comma 1 , norma quest'ultima che, nel prevedere a sua volta il principio generale della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, si riconnette all'art. 354 c.p.c. che prevede espressamente i casi di nullità che comportano la rimessione degli atti al primo giudice, con la conseguenza che, non essendo prevista fra tali casi anche la nullità qui dedotta, correttamente la corte ha deciso la causa nel merito. Inoltre - è opportuno precisare - la semplice proposizione da parte di un socio di una domanda di accertamento della responsabilità di un altro socio accusato di comportamenti illeciti come quella proposta da R M. in una memoria ex art. 183 c.p.c. nei confronti della Mo. non integra l'ipotesi prevista dall'art. 50 bis n. 5 c.p.c. della causa che sarebbe riservata alla decisione del tribunale in composizione collegiale di responsabilità contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali e i liquidatori delle società e delle associazioni in partecipazione v., in tal senso, la citata Cass. n. 9615 del 2010 . La Mo. , nel secondo motivo del ricorso, deduce violazioni di legge e omessa motivazione sul rigetto della sua domanda riconvenzionale di accertamento dell'inadempimento della A. , quale associata al contratto di associazione in partecipazione, per avere effettuato un conferimento inferiore a quello pattuito, con conseguente richiesta di rideterminazione del valore della sua partecipazione. La sentenza impugnata, dopo avere accolto l'appello della Mo. , nella motivazione ha giudicato le altre sue domande compresa quella di nullità della clausola n. 11 del contratto non collegate in alcun modo con l'ambito di questo giudizio, quanto piuttosto con le altre sedi processuali di cui si è prima detto , ma nel dispositivo le ha rigettate. Si tratta di un conflitto solo apparente tra dispositivo e motivazione, che è imputabile ad una mera improprietà terminologica e non impedisce di comprendere l'effettiva portata precettiva della decisione, considerata complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali Cass. n. 10637 del 2005, n. 9244 del 2007 . L'esatto contenuto della pronuncia è, infatti, di inammissibilità delle predette domande riconvenzionali, giudicate dalla corte di appello, in sostanza, come non dipendenti dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione art. 36 c.p.c. , ma piuttosto dipendenti dal titolo dedotto nel diverso giudizio di merito pendente, avente ad oggetto la definizione dei rapporti economici inerenti allo scioglimento del rapporto contrattuale di associazione in partecipazione, comunque avvenuto alla scadenza trentennale del contratto in data 31 dicembre 2000 . Si tratta di una valutazione che è riservata all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità quando l'inopportunità della trattazione e decisione simultanea sia stata, come nella specie, adeguatamente argomentata v. Cass. n. 4696 del 1999 . Tale ratio decidendi , inoltre, non è stata specificamente impugnata nel ricorso, ma contestata tardivamente e genericamente nella memoria ex art. 378 c.p.c., essendosi la ricorrente limitata a dedurre l'erroneità della sentenza di primo di grado e la fondatezza della sua domanda nel merito. Il motivo in esame è quindi inammissibile. Nel terzo motivo si imputa alla sentenza in esame vizio di motivazione sulla interpretazione nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 669 terdecies c.p.c Il motivo è da rigettare in entrambi i suoi profili quello che censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. un asserito errore del giudice di merito nell'interpretazione della norma di diritto rilevante nella fattispecie, trattandosi di vizio che deve essere denunciato ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c. Cass. n. 7267 del 2012 quello concernente la dedotta violazione di legge art. 360 n. 3 c.p.c. , perché ignora la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha giudicato quella censura sulle contestate modalità di applicazione dell'art. 669 terdecies c.p.c. come superata per effetto della riforma della sentenza di primo grado , circostanza che fa venire meno l'interesse della parte a denunciare un'asserita lesione del diritto di difesa per la impossibilità legale di impugnare il provvedimento cautelare di sequestro emesso nei suoi confronti dal tribunale in fase di reclamo e, peraltro, secondo l'allegazione del controricorrente cui la Mo. non ha replicato, nell'ambito di un diverso giudizio . Il quarto motivo addebita alla sentenza impugnata vizio di motivazione sul rigetto della domanda riconvenzionale dalla Mo. di nullità o inefficacia della clausola n. 11 del contratto del 1970 e falsa applicazione delle norme artt. 1362 ss. c.c. sull'interpretazione del contratto. Sostiene la ricorrente che, avendo la corte qualificato il contratto come di associazione in partecipazione, avrebbe dovuto di conseguenza e inevitabilmente dichiarare la nullità o inefficacia della clausola n. 11 che prevedeva, alla scadenza trentennale del contratto, la valutazione e la divisione dell'azienda in parti uguali tra i contraenti e gli eredi , in quanto incompatibile con la natura e con le altre clausole del contratto oppure, in subordine, interpretarla nel senso che nel valore dell'azienda dovesse comunque escludersi il valore dell'avviamento commerciale. Il motivo è da rigettare. Esso ignora la ratio decidendi espressa dalla corte, ad avviso della quale la presenza in un contratto di associazione in partecipazione di clausole apparentemente non aderenti alla fattispecie legale non lo rende per ciò solo nullo, quando per la prevalenza degli elementi tipici il rapporto sia riconducibile alla disciplina propria dello schema contrattuale tipico. La inconciliabilità tra quella clausola n. 11 e lo schema causale dell'associazione in partecipazione è apoditticamente predicata dalla ricorrente e non tiene conto del rilievo che, pur essendo l'associazione in partecipazione un contratto associativo caratterizzato dal fatto che la gestione dell'impresa compete all'assodante, nell'esercizio della loro autonomia contrattuale le parti possono regolamentare gli effetti economici dello scioglimento del contratto e prevedere una divisione in parti eguali del valore dell'azienda, sul presupposto implicito che alla determinazione di quel valore abbia concorso anche l'attività dell'associato, senza che ciò implichi una violazione delle norme codicistiche in materia art. 2549 ss. c.c. . Inoltre, quanto alla dedotta erronea interpretazione del riferimento al valore dell'azienda , la ricorrente trascura la precisazione della corte secondo la quale ogni deliberazione circa l'ambito di operatività della convenuta divisione del valore aziendale a fine contratto va evidentemente vagliata nella idonea sede processuale . L'oggetto della censura esposta nel quinto motivo riguarda la disposta integrale compensazione delle spese processuali di entrambi i gradi del giudizio di merito, la quale violerebbe gli artt. 91 e 92 c.p.c. e sarebbe affetta da vizio di motivazione. Il motivo è infondato, avendo la corte adeguatamente indicato i giusti motivi di compensazione delle spese nella defatigante evoluzione stragiudiziale e giudiziale della controversia , nella ambiguità della fattispecie e nella assoluta peculiarità delle questioni trattate . Nel sesto motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 166 e 168 bis, comma 5, 333, 343 c.p.c. quanto alla decisione di inammissibilità dell'appello dei T. . Il motivo è inammissibile, non essendo la Mo. legittimata a proporre una simile censura circa l'ammissibilità dell'appello proposto da altre parti processuali. Venendo ad esaminare il ricorso T. , a questa Corte è chiesto di accertare se il giudice distrettuale, dichiarando il loro appello inammissibile perché proposto senza rispettare il termine di venti giorni prima dell'udienza di comparizione, sia incorso in violazione degli artt. 166, 168 bis, comma 5, e 343 c.p.c. primo motivo nonché di accertare se sia incorso in violazione degli artt. 333 e 343 c.p.c., avendo qualificato il gravame proposto come incidentale, sebbene avesse ad oggetto rapporti scindibili e, quindi, non fosse a suo avviso soggetto al termine di decadenza di venti giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'appello principale secondo motivo . Il predetto ricorso è inammissibile per carenza di un interesse in capo ai medesimi T. da soddisfare in un ipotetico giudizio di rinvio. In sede di appello essi avevano chiesto il rigetto della domanda dei M. , l'accoglimento delle domande riconvenzionali della Mo. e in via subordinata avevano proposto altre domande nella denegata ipotesi di accoglimento delle domande formulate dai sig.ri M. . Poiché sia la domanda dei M. di accertamento della trasformazione del contratto in società sia quelle della Mo. sono state definitivamente rigettate queste ultime per effetto del rigetto o della inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dalla stessa Mo. , non si è avverata l'ipotesi di accoglimento della domanda dei M. cui i T. avevano subordinato le loro domande volte a dichiarare la proprietà dell'azienda conferita, in tesi, dalla Mo. nella società di fatto, per effetto dell'esercizio del diritto di riscatto, ovvero ad ottenere il risarcimento del danno per la violazione del diritto di prelazione, a norma dell'art. 230 bis c.c. Nella memoria illustrativa i T. riconoscono che, per effetto dell'acquiescenza dei M. alla sentenza della corte di appello, è venuto meno il loro interesse a sentir dichiarare il proprio diritto di prelazione ex art. 230 bis citato. In conclusione, il ricorso della sig.ra Mo. è rigettato, quello dei sig.ri T. è inammissibile. Sussistono giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione, tenuto conto della complessità e novità delle questioni trattate. P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta quello della sig.ra Mo. e dichiara inammissibile quello dei sig.ri T. compensa le spese del giudizio di cassazione.