Prima ‘alimentari’, poi ‘sala giochi’: differenza reale, ma nessun inadempimento del commerciante. Locazione salva

Evidente la differenza tra ‘negozio’ e ‘sala giochi’, ma questa non basta per addebitare al conduttore il grave inadempimento ipotizzato dal proprietario dell’immobile dato in affitto. Assolutamente da respingere, quindi, la domanda di risoluzione del contratto.

Passano gli anni, cambiano i tempi, si modificano gusti e consumi E un commerciante deve sempre tenerne conto, anche cambiando radicalmente settore. Così è razionale la scelta modificare i propri obiettivi, passando dagli alimentari ai divertimenti elettronici, e legittima la consequenziale modifica della destinazione d’uso del locale commerciale preso in affitto, con buona pace del locatore, che deve adeguarsi a una visione sempre più moderna e flessibile del concetto di negozio Cassazione, sentenza numero 17326, Terza sezione Civile, depositata oggi . Anni ’70. «Esclusivo uso di negozio» ecco la condicio fondamentale del contratto di locazione messo ‘nero su bianco’, agli inizi degli anni ’70, e propedeutico all’apertura di una rivendita di alimentari. Altre esigenze, altri gusti, altro Paese E, difatti, all’inizio degli anni ’90 la commerciante stravolge la propria attività via il negozio di alimentari, ecco una ‘sala giochi’, molto più redditizia, almeno sulla carta. Unico punto fermo il locale. Secondo la proprietaria dell’immobile, però, è stata mutata la «destinazione» fissata da contratto evidente l’inadempimento della commerciante, con relativo diritto ad ottenere la risoluzione. Ma tale visione viene smentita sia in primo che in secondo grado, difatti, la domanda di risoluzione è respinta. Per i giudici, in particolare, «l’uso generico del termine ‘negozio’ in contratto, senza ulteriori specificazioni, valeva solo a qualificare la destinazione commerciale». Anni ’90. Secondo la proprietaria dell’immobile, però, va fatta chiarezza sul senso effettivo della parola ‘negozio’. Ebbene, viene evidenziato nel ricorso proposto in Cassazione, il termine ‘negozio’ indica «un locale destinato alla vendita al dettaglio», quindi non è assolutamente riferibile a una ‘sala giochi’. È un’ottica da condividere? Non per i giudici della Cassazione, i quali, richiamando un datato precedente giurisprudenziale, ribadiscono che è da valutare se ci si trovi di fronte «ad un mutamento d’uso che comporti un mutamento del regime giuridico del rapporto» in questo caso non vi è alcuno stravolgimento né dell’uso né, quindi, del relativo inquadramento giuridico. Avrebbe potuto portare a una diversa valutazione, spiegano i giudici, la ‘prova provata’ del «grave inadempimento» del conduttore, che di certo non può essere rappresentato dal passaggio da ‘alimentari’ a ‘sala giochi’. Perché, è vero, ‘negozio’ e ‘sala giochi’ sono ‘mondi’ diversi, ma tale distinguo è «in sé stesso irrilevante».

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 20 settembre – 11 ottobre 2012, numero 17326 Presidente Trifone – Relatore Amatucci Svolgimento del processo 1. - Nel 1974 G.D’A. concesse in locazione a C.P. un locale, in Popoli Pescara , a “solo ed esclusivo uso di negozio”. La conduttrice vi aprì un negozio di alimentari. Nel 1987 il contratto fu rinnovato. Nel 1992 la conduttrice vi aprì una sala giochi. Con atto di citazione del 1992 il locatore agì giudizialmente per la risoluzione allegando l’inadempimento della conduttrice che resistette per aver mutato la destinazione contrattualmente convenuta. Il Tribunale di Pescara rigettò la domanda con sentenza del 18.12.2005. 2. – La Corte d’appello di Pescara ha respinto il gravame del locatore soccombente con sentenza numero 114/08 sui rilievi a che lo sfondamento di un muro divisorio interno non era stato allegato in primo grado sicché la domanda era inammissibile in appalto, b che l’uso generico del termine “negozio” in contratto, senza ulteriori specificazioni, valeva solo a qualificare la destinazione commerciale, sicché non sussistevano i presupposti per l’applicazione dell’articolo 80 della legge numero 392 del 1978, considerato anche che sia la vecchia che la nuova attività comportavano contatti diretti col pubblico b che neppure ricorrevano gli estremi per la risoluzione ex articolo 1453 c.c., non essendo emersi e non essendo comunque provati comportamenti del conduttore atti a costituire un grave inadempimento delle obbligazioni assunte, posto che la dedotta rumorosità della nuova attività non aveva trovato conferma in atti. 3. - Avverso la sentenza ricorre per cassazione G.D’A. affidandosi a tre motivi, cui resiste con controricorso C.P. Motivi della decisione 1. - Col primo motivo la sentenza è censurata per violazione degli articolo 439, 426 e 427 c.p.c. per non avere la Corte d’appello, a seguito del mutamento del rito non disposto dal giudice di primo grado, omesso di concedere il termine di cui all’articolo 426 c.p.c. per il deposito di memorie e documenti, tanto più che al giudizio, iniziato nel 1992, era applicabile l’articolo 345 c.p.c. nella vecchia formulazione, che consentiva la produzione in appello di nuovi documenti e l’ammissione di nuovi mezzi di prova. 1.1. - La censura è infondata. Proposto appello secondo il rito ordinario, con lo stesso atto l’appellante avrebbre dovuto indicare i documenti che intendeva produrre ed articolare eventuali prove, non valendo certo l’articolo 437 c.p.c. a consentire alle parti di porre rimedio alle già verificatesi decadenze in cui siano incorse ex coeteris, Cass., numero 3355/2004 e 3516/2001 . Nella specie il ricorrente non afferma di aver mai articolato alcuna prova in primo grado, né di averlo fatto con l’appello. 2. - Col secondo motivo sono dedotte violazione degli articolo 1362, 1366, 1368, primo comma, 1369 c.c. e falsa applicazione degli articolo 27 e ss. della l. numero 392/1978 per avere la corte d’appello qualificato come sala giochi la parola “negozio” usata in contratto, la quale indica null’a1tro che un locale destinato alla vendita al dettaglio. 3. - Col terzo è denunciata, per le stesse ragioni, violazione dell’articolo 80 della legge numero 392/1978. 4. - I motivi possono essere congiuntamente esaminati per la connessione che li connota. Il terzo è infondato sulla scorta del pacifico principio secondo il quale l’articolo 80 della legge numero 392 del 1978 ha riguardo ad un mutamento del regime giuridico del rapporto. Questa Corte ha in particolare escluso l’applicabilità della disciplina di cui al citato articolo 80 alla trasformazione di un esercizio commerciale da “negozio di casalinghi” a “sala giochi”, sul presupposto che esso opera nell’ambito della tipologia prevista dall’articolo 27 della stessa legge e non comporta alcun mutamento di regime giuridico Cass., numero 2962/1990 . Ad ogni altra ipotesi di uso arbitrario dell’immobile resta, invece, applicabile l’ordinaria disciplina prevista dal codice civile in tema di risoluzione del contratto per inadempimento di una delle obbligazioni principali del conduttore - il servirsi, cioè, della cosa per l’uso convenuto - da valutarsi alla stregua dell’ordinaria disciplina del codice civile, secondo la quale, in difetto di clausola risolutiva espressa, è configurabile solo un inadenpimento contrattuale legittimante il ricorso all’ordinaria azione di risoluzione prevista dall’articolo 1453 cod. civ. Cass. 25141/2008 e 5767/2010 . Di tale azione la Corte d’appello ha ritenuto che difettassero nella specie i presupposti, per non essere stato provato il “grave inadempimento” del conduttore, a detta dell’attore costituito dalla rumorosità della nuova attività. Il nucleo della decisione non sta allora, come erroneamente presupposto dal ricorrente, nell’avere la Corte di merito qualificato come “negozio” una “sala giochi”, ma nell’essere mancata la prova che l’aver trasformato un negozio in una sala giochi costituisse un grave inadempimenzo del conduttore come richiesto dall’articolo 1455 c.c., secondo la corrente interpretazione . Quella prova si sarebbe dovuta offrire dall’attore, che non l’ha data, erroneamente assumendo che fosse sufficiente ai fini risolutivi sostenere che altro è un negozio ed altro una sala giochi. Il che p vero, ma in se stesso irrilevante, come s’è spiegato. 5. - Il ricorso è respinto. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in € 2.700, di cui 2.500 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.