Utilizzo indebito del timbro dell'agenzia: c’è sviamento della clientela?

Non integra il reato di appropriazione indebita la condotta del dipendente di un'agenzia di assicurazione che, nel certificare l'avvenuta risoluzione contrattuale su domanda del cliente, utilizza indebitamente il timbro del datore di lavoro.

Lo ha stabilito la Seconda sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30847 depositata il 18 luglio 2013. L'indebito utilizzo del timbro. La pronuncia della Suprema Corte trae origine da un procedimento penale avviato nei confronti di un dipendente di una agenzia di assicurazione, reo di aver utilizzato il timbro della società per sviarne la clientela. Più precisamente, l'imputato è stato processato per il reato di appropriazione indebita art. 646, c.p. per essersi appropriato forse in un singolo episodio, ma dal processo non è emersa una verità inoppugnabile del timbro col fine di certificare la risoluzione dei contratti stipulati da alcuni clienti che, in precedenza, ebbero ad intimare alla società - tramite disdetta - la loro volontà di chiudere il rapporto. Secondo la tesi accusatoria, il dipendente avrebbe indebitamente utilizzato il timbro per certificare la chiusura dei contratti, per poi indirizzare i clienti, da lui in precedenza persuasi, verso altra agenzia compiacente. Detta ricostruzione ha trovato l'accoglimento del Tribunale e la condanna a tre mesi di reclusione è stata successivamente confermata, in sede di gravame, dalla Corte d'appello. Mancano condotta appropriativa ed elemento soggettivo. Il supporto motivazionale della Corte territoriale, tuttavia, non ha retto al sindacato di legittimità della Suprema Corte, innanzi alla quale la difesa ha evidenziato taluni vizi cui sarebbe andata affetta la sentenza censurata in particolare, è stata messa in luce l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui i giudici del merito, seppur riconoscendo la paternità delle missive dei clienti e, dunque, la regolarità delle loro richieste , hanno ritenuto sussistente il reato di appropriazione indebita nell'utilizzazione - a titolo certifìcativo” - del timbro, al quale, peraltro, avevano libero accesso tutti i dipendenti dell'agenzia, compreso l'imputato. Dal chè, in primis si è fatto leva sull'assenza di una effettiva condotta di impossessamento da parte dell'imputato, tenendo presente anche l'episodicità della condotta si è poi rimarcata l'inconsistenza dell'elemento soggettivo che avrebbe dovuto nutrire l'addebito, posto che non vi era prova in ordine all'intento dell'imputato di voler trarre un ingiusto profitto per sé o per altri. La motivazione è contradditoria. I giudici di legittimità, nel pronunciarsi sulla vicenda, hanno ritenuto fondate le argomentazioni prospettate dalla difesa, per l'effetto annullando la sentenza della Corte d'appello con rinvio ad altra sezione della stessa. La contraddittorietà della motivazione della decisione, secondo i giudici capitolini, doveva trarsi dalla appurata iniziativa dei clienti in ordine alla richiesta risoluzione contrattuale il fatto che fossero stati quest'ultimi ad inoltrare regolare disdetta alla società per la quale lavorava l'imputato rendeva inconsistente l'imputazione sotto il profilo del mero utilizzo indebito del timbro. In altri termini, l'apposizione del timbro non avrebbe influito in alcun modo sulla perdita della clientela di conseguenza non vi erano - in radice - i presupposti per muovere alcun rimprovero penale al dipendente, dovendo rimanere estranea al processo penale l'apparente infedeltà serbata in danno del datore di lavoro.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 3 aprile - 18 luglio 2013, n. 30847 Presidente Davigo – Relatore Taddei Motivi della decisione B.M. ricorre per Cassazione avverso la sentenza 2.5.2012 con la quale la Corte d'Appello di Torino, confermando la decisione 4.12.2009, lo ha condannato alla pena di mesi tre di reclusione e 200,00 Euro di multa per la violazione degli artt. 646, 61 n. 11 cp e 624, 61 n. 11 cp, per essersi appropriato del timbro della società della quale era dipendente, apponendolo sulla corrispondenza con la quale i clienti comunicavano la disdetta dei contratti di assicurazione provvedendo ad indirizzare la medesima clientela presso altra compagnia di assicurazioni, nonché per avere sottratto i tagliandini pertinenti alle polizze di assicurazione sottoscritte da taluni clienti della agenzia aassicurativa, asportandoli dal cassetto ove erano custoditi. La difesa richiede l'annullamento della decisione impugnata, deducendo p.1. Ex art. 606 I^ comma lett. E cpp, vizio di motivazione in relazione al capo a poiché le missive di risoluzione dei contratti di assicurazione sono state inviate dalla clientela alla agenzia assicuratrice CAVALLOTTO s.n.c. e l'apposizione del timbro della socioetà ricevemnte sulle medesime non ha alcuna efficacia sul piano giuridico b il giudicante ha affermato [pag. 8 della sentenza] che le missive contentai le dichiarazioni di risoluzione dai contratti assicurativi fossero di provenienza della società rendendo così motivazione contraddittoria rispetto ai fatti accertati nel corso del giudizio e rispetto al narrato contenuto nella stessa sentenza. p.2. Ex art. 606 I^ comma lett. E cpp, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento al delitto di furto. La difesa pone in evidenza che la riferibilità del fatto di sottrazione dei tagliandini di assicurazione all'imputato si fonda su dati non pacifici. La difesa pone in evidenza che i tagliandini di cui al capo di imputazione sono stati rinvenuti all’interno della agenzia custoditi in un armadio aperto riferibile alla persona dell'imputato, ma liberamente accessibile da qualsiasi impiegato, con la conseguenza che non è stata compiuta l'azione di amotio della res. La difesa sottolinea che i tagliandini assicurativi erano utilizzabili da tutti gli impiegati dell'ufficio nell'ordinario disbrigo delle pratiche con la conseguenza che essi erano liberamente disponibili anche per lo imputato. La difesa sottilinea che sul punto la sentenza della Corte d'Appello non ha fornito alcuna valida argomentazione sia in ordine alla libera disponibilità dei tagliandini da parte del personale dell'agenzia assicurativa, sia in ordine alla circostanza che la BERTONCELLO s.n.c. non è stata mai privata del possesso di tali documenti. p.3. violazione dell'art. 533 cpp, perché la condanna è stata pronunciata in assenza di un apparato probatorio idoneo a superare il limite del ragionevole dubbio . p.4. violazione dell'art. 646 cp, perché manca la prova che l'imputato abbia compiuto l'atto di interversione del titolo del possesso ed inoltre non è giuridicamente corretto ritenere che l'atto possa ritenersi intergrato in forza del solo semplice uso del bene che è sempre rimasto nella disponibilità della società. Nel corso del presente giudizio si è costituita la parte civile con memoria, depositando le proprie conclusioni e la nota delle spese. Ritenuto in diritto Il ricorso è fondato e va accolto con le seguenti precisazioni. La motivazione della decisione impugnata è contraddittoria [vv. Pp. 7 ed 8] e manifestamente illogica. Si afferma [p. 7] che le missive contenenti l'atto di risoluzione del contratto assicurazione stipulato per il tramite dell'Agenzia CAVALLOTTO s.n.c., erano state scritte dai clienti alla società della quale l'imputato era dipendente nel contempo si afferma nella stessa sentenza che la società [pag. 8] aveva inviato ai clienti atti di risoluzione, e che l'apposizione del timbro in calce alle missive in questione costituiva il modo con il quale lo imputato interessato ad esercitare uno storno della clientela della CAVALLOTTO s.n.c. costituiva il mezzo per conferire un crisma di ufficialità alla corrispondenza. Il testo della motivazione appare altresì non congruente né con il contenuto del capo di imputazione [pag. 2] né con l'esposizione dei fatti di cui a pag. 5 della sentenza. La contraddittorietà della motivazione inerisce ad un aspetto rilevante quale quello dell'iniziativa assunta dai clienti o dalla società nella risoluzione dei contratti di assicurazione. Infatti, qualora l'atto di risoluzione provenisse dai clienti, non si comprende in cosa si sostanzi sotto il profilo dell'efficacia giuridica della risoluzione contrattuale l'apposizione del timbro della società ricevente e quale sia l'ingiusto profitto conseguito attraverso l'uso indebito del timbro da parte dell'imputato. Per vero assume anche carattere di contraddittorietà la esposizione relativa al numero di volte in cui sarebbe stato illegittimamente usato il timbro della società da parte dell'imputato. Dal tenore dell'esposizione dei fatti emergerebbe che l'imputato abbia fatto uso illegittimo del timbro in più occasioni, mentre a pag. 8 della sentenza si afferma che si sarebbe trattato di un unico episodio. La circostanza che il fatto illecito integrante l'atto di appropriazione indebita mediante uso del bene, contro le regole o le disposizioni impartite dal datore di lavoro, si riduca ad un solo caso porta a rilevare l'assenza di qualsivoglia motivazione in ordine sia all'illecito profitto conseguito o da conseguire da parte dell'imputato, sia all'elemento psicologico del reato. Una corretta ricostruzione del fatto ascritto con riferimento al capo a della imputazione riverbera i suoi effetti anche in riferimento agli elementi costitutivi del delitto di cui al capo b e alla valutazione di quella condotta. Per le suddetta ragioni la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Cote d'Appello di Torino per un nuovo giudizio. P.Q.M. Annulla la impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello di Torino.