L’associato in partecipazione deve partecipare anche alle perdite

Il rapporto di associazione in partecipazione ha come elemento essenziale la partecipazione dell’associato al rischio di impresa ed alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 14644 dell’11 giugno 2013. Il caso . La Corte di Appello di Genova rigettava l’opposizione contro due cartelle esattoriali con cui l’INPS richiedeva ad una società il pagamento di contributi previdenziali, relativi ad otto lavoratori formalmente inquadrati come associati in partecipazione ma in realtà, ad avviso dell’Istituto, lavoratori subordinati. A sostegno della propria decisione, i Giudici di merito ritenevano accertato che tali lavoratori non partecipassero ad alcun rischio di impresa e che le modalità di svolgimento dei rispettivi rapporti fossero tipiche del rapporto di lavoro subordinato i.e. mancanza di rendiconto, omessa indicazione della partecipazione agli utili, erogazione di un compenso fisso mensile, assenza di autonomia nella determinazione dell’orario di lavoro, etc. . Contro tale sentenza la società ricorreva alla Corte di Cassazione. Non basta la partecipazione ai ricavi . Con un unico articolato motivo, la ricorrente lamentava un vizio della sentenza impugnata nella parte in cui aveva considerato rilevante la mancata partecipazione dei lavoratori alle perdite dell’affare cui erano associati, atteso che l’art. 2553 c.c. espressamente consente di escludere quest’ultima opzione. La stessa Corte di Appello, inoltre, aveva omesso – ad avviso della ricorrente - di valutare il nomen iuris che le stesse parti avevano utilizzato, prova della reciproca volontà di eseguire come autonomi i rapporti di causa. Argomenti che tuttavia non vengono condivisi dalla Cassazione la quale, ribadendo il principio esposto in massima, rigetta il ricorso. Ad avviso della Corte infatti, l’elemento differenziale tra l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro ed il lavoro subordinato con partecipazione agli utili risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione da parte dell’associato , atteso che l’associazione in partecipazione ha come elemento essenziale la partecipazione dell’associato al rischio di impresa. Ciò implica che laddove la prestazione lavorativa è inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio di impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall’art. 35 Cost. . Conta poco anche il nomen iuris utilizzato dalle parti. Ad avviso della Corte nemmeno è decisivo ancorché di indubbio rilievo il nomen iuris utilizzato dalle parti, poiché rimane comunque necessario accertare se lo schema negoziale pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa o se questa si sia svolta con lo schema della subordinazione . Un principio sbagliato per una soluzione corretta . Il principio esposto in massima, a parere di chi scrive, non risulta affatto condivisibile ed, anzi, pare poco ossequioso della disciplina che il codice civile prevede per il contratto in commento. Nel poco spazio che qui ci è concesso, ricordiamo infatti come l’art. 2553 c.c. preveda che salvo patto contrario , l'associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili, ma le perdite che colpiscono l’associato non possono superare il valore del suo apporto . Appare quindi contraddittorio pretendere - come la Cassazione fa – una partecipazione dell’associato con apporto di solo lavoro alle possibili perdite dell’affare, in quanto il valore dell’apporto di un tale associato consiste solo ed esclusivamente nella propria prestazione lavorativa che, ex art. 2553 c.c., costituisce altresì la massima perdita che egli può subire. Richiedere una perdita ulteriore costituisce quindi non solo una illegittima ingerenza nella autonomia delle parti che, ai sensi dell’art. 2554 c.c., ben possono stipulare anche un contratto di cointeressenza agli utili di una impresa senza partecipazione alle perdite ma anche, e soprattutto, la violazione di una norma imperativa di legge. Rileviamo tuttavia come questa pronuncia, al pari di quelle che recentemente hanno affermato il medesimo principio, muova in concreto da una gestione dei rapporti che, per come accertata in giudizio, lasciava davvero poco spazio all’autonomia che dell’associazione in partecipazione rimane pur sempre un elemento fondamentale. Una conclusione dunque, quella della Corte, corretta per come i rapporti in concreto si sono svolti, ancorché – a nostro avviso – errata nelle argomentazioni che la sostengono.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 aprile - 11 giugno 2013, n. 14644 Presidente De Renzis – Relatore Venuti Svolgimento del processo La Corte d'Appello di Genova, con sentenza in data 8 febbraio - 17 aprile 2008, in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato l'opposizione proposta dalla Dixon s.r.l. avverso due cartelle esattoriali emesse dalla Cassa di Risparmio della Spezia, concessionaria del servizio di riscossione, per il pagamento a favore dell’INPS di contributi previdenziali in relazione alla posizione lavorativa di otto lavoratori che l'Istituto, nonostante la qualificazione formale di associati in partecipazione, aveva ritenuto trattarsi di lavoratori subordinati alle dipendenze della società. Ha osservato, in sintesi, la Corte di merito che le risultanze processuali avevano escluso la sussistenza dei rapporti di associazione in partecipazione dedotti dalla società. Da un lato non risultava che i lavoratori associati avessero partecipato al rischio di impresa e ai ricavi della società dall'altro, le modalità di svolgimento del rapporto erano riconducibili allo schema del rapporto di lavoro subordinato. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società sulla base di un solo motivo, illustrato da successiva memoria. L’INPS, anche quale mandatario della S.C.I.I. S.p.A., società di cartolarizzazione dei crediti dell'Istituto, ha resistito con controricorso. La Cassa di Risparmio della Spezia ora Equitalia S.p.A. è rimasta intimata. Motivi della decisione Con l'unico motivo del ricorso, articolato in più censure, cui fa seguito il relativo quesito di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ., allora in vigore, la ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 2549, 2550, 2552, 2554, 2697 cod. civ. nonché vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamenta che la sentenza impugnata non ha dato rilevanza al nomen iuris attribuito dalle parti ai contratti, ritenendo erroneamente che essi configurassero dei veri e propri rapporti di lavoro subordinato, anziché contratti di associazione in partecipazione. Non ha tenuto conto la Corte di merito che la pattuizione della partecipazione ai ricavi - peraltro provata in corso di causa - era senz'altro elemento determinante al fine di escludere la sussistenza del rapporto di subordinazione, indipendentemente dalla mancata partecipazione alle perdite, atteso che l'art. 2553 cod. civ. prevede la possibilità per le parti di escludere tale ultima possibilità. Aggiunge la ricorrente che, in presenza dei contratti scritti, era onere dell’INPS dimostrare la sussistenza dei rapporti di lavoro subordinato, tanto più che elementi in tal senso non potevano desumersi dal verbale ispettivo dei funzionali dell'Istituto, dal quale aveva tratto origine la pretesa dello stesso, non assumendo tale verbale alcun valore probatorio in ordine alla circostanze apprese de relato o attraverso la ispezione di documenti, trattandosi di elementi liberamente valutabili dal giudice. Infine, ad avviso della ricorrente, la sentenza impugnata è affetta da vizio di motivazione, per non avere adeguatamente valutato le risultanze processuali, dalle quali erano emersi gli elementi costitutivi dei rapporti di associazione in partecipazione, e cioè la libertà di procedere agli acquisti e alle vendite per conto della società, l'avvenuta gestione del personale, l'assenza di orari di lavoro e l'autonomia nell'espletamento dell'attività lavorativa. Il motivo non è fondato. Questa Corte ha più volte affermato che, in tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato, l'elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d'impresa risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l'apporto della prestazione da parte dell'associato, dovendosi verificare l'autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell'associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell'organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d'impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell'associato nella gestione dell'impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall'art. 35 Cost., che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni Cass. 28 gennaio 2013 n. 1817 Cass. 28 maggio 2010 n. 13179 Cass. 22 novembre 2006 n. 24781 Cass. 19 dicembre 2003 n. 19475 . È stato altresì ripetutamente affermato che in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato, pur avendo indubbio rilievo il nomen iuris usato dalle parti, occorre accertare se lo schema negoziale pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa o se questa si sia svolta con lo schema della subordinazione cfr. per tutte, Cass. 24 febbraio 2011 n. 4524 . Nella specie la Corte territoriale, nell'escludere la sussistenza dei dedotti rapporti di associazione in partecipazione, ha fatto corretta applicazione di tali principi, evidenziando che non solo i lavoratori non avevano partecipato al rischio d'impresa, ciò che escludeva la partecipazione alle perdite, ma doveva altresì escludersi che la loro retribuzione fosse collegata agli utili dell'impresa in ragione delle modalità della corresponsione di tali asseriti utili. Inoltre le stesse modalità con cui veniva espletata la prestazione lavorativa, facevano ritenere che si trattasse di veri e propri rapporti di lavoro subordinato. In particolare, la Corte territoriale, richiamando le risultanze dell'istruttoria svolta e le dichiarazioni degli stessi lavoratori, ha accertato - che i medesimi erano addetti alla vendita di elettrodomestici ed altro in negozi della Dixon - che non erano adibiti stabilmente ciascuno ad un punto vendita, ma si alternavano conseguiva da ciò che i rendiconti dei ricavi, al fine di quantificare i compensi, avrebbero dovuto distinguere la presenza dei lavoratori in ogni singolo punto vendita, circostanza questa non desumibile dai pochi rendiconti annuali prodotti - che negli stessi rendiconti non era indicato il valore dei ricavi sui quali applicare la percentuale di partecipazione pattuita - che il procedimento di calcolo di tale percentuale era del tutto ignoto - che i lavoratori di fatto venivano retribuiti con compensi fissi mensili, come risultava dalle ricevute prodotte, senza alcun riferimento ai ricavi - che era irrilevante che i lavoratori avessero preso visione dei bilanci annuali, non risultando dagli stessi i singoli ricavi di ciascun negozio sui quali parametrare la percentuale pattuita - che, infine, l'attività dei lavoratori era del tutto analoga a quella dei commessi addetti alla vendita, mentre non era stata comprovata l'asserita autonomia nello svolgimento delle mansioni. Trattasi di motivazione esauriente, coerente e priva di vizi logici, che si sottrae alle censure che le vengono poste. Al riguardo deve ricordarsi che la denuncia di un vizio di motivazione ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione delle fonti del proprio convincimento. Il ricorso deve, in conclusione, essere rigettato, con la conseguente condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio a favore dell’INPS, come in dispositivo. Nulla per le spese nei confronti della Cassa di Risparmio della Spezia ora Equitalia S.p.A. rimasta intimata. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, a favore dell’INPS, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge. Nulla per le spese nei confronti della Cassa di Risparmio della Spezia ora Equitalia S.p.A. .