Niente inversione dell’onere probatorio nel dovere di allegazione difensiva della fonte di reddito

Allorquando si discute dell’applicazione di una misura di prevenzione, non soddisfa l’onere di allegazione difensiva la mera indicazione della sufficiente provvista per acquistare un bene. Né risulta liberatorio ai fini dell’adeguatezza reddituale l’allegazione di una fonte illecita, come l’incasso “in nero”. Il dovere di allegazione così determinato non costituisce ipotesi di inversione dell’onere probatorio.

In questo senso si è espressa la Corte di Cassazione, sez. V Penumero , con la sentenza numero 20743 del 21 maggio 2014. Non c’è inversione probatoria. La Corte di Cassazione con la sentenza in commento rigetta puntualmente tutti i punti di ricorso presentati dai condannati sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con la quale i Giudici di merito disponevano altresì la confisca patrimoniale. In particolare, i condannati censurano i criteri in base ai quali i giudici di prime e seconde cure predisponevano la misura di prevenzione reale, adducendo peraltro un’ipotetica inversione di onere probatorio. In realtà, come più volte richiamato dalla giurisprudenza di legittimità, non costituisce inversione di onere probatorio il dovere di allegazione difensiva che viene richiesto per dimostrare la provenienza del reddito della persona da sottoporre a misura di prevenzione. Al soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, infatti, è richiesta semplicemente l’indicazione di tutti gli elementi fattuali in base ai quali il giudice possa dedurre che il bene, oggetto di procedimento, non risulta acquistato con proventi di attività illecita o non proporzionati alla capacità reddituale dello soggetto stesso. Non si tratta di un’ulteriore condotta che si impone in capo al soggetto, poiché l’indicazione delle fonti di reddito costituisce l’ “essenza” del dovere di allegazione de quo. La tautologia della sufficiente provvista. Nella sentenza, i Giudici di legittimità specificano, inoltre, che il dovere di allegazione, così come suindicato, non può risultare soddisfatto ove la difesa si rivolga alla semplice indicazione della presenza in capo al soggetto per cui si procede di risorse sufficienti all’acquisto del bene oggetto di procedimento preventivo. In tali casi, si afferma sic et simpliciter che un bene è stato acquistato in cambio di un pagamento in denaro. Una tautologia, atteso che si afferma l’ovvio. I ricorrenti, evidentemente, hanno voluto aggirare in questa maniera il dovere di allegazione per il quale è necessario fornire una spiegazione credibile e sufficiente dei mezzi che hanno determinato un incremento patrimoniale in capo al soggetto sottoposto a procedimento. Se il reddito è frutto di proventi “in nero” I ricorrenti censurano. Inoltre. i criteri in base ai quali i Giudici di merito hanno predisposto la misura patrimoniale. Essi sostengono che non può rilevare, ai fini dell’applicazione della misura, la semplice capacità reddituale dei soggetti ma risulta necessario tener conto della specifica attività imprenditoriale condotta dai soggetti in questione. In particolare, i Giudici avrebbero dovuto tener conto che tale attività consente proventi “in nero” ed un sufficiente accumulo di reddito nel tempo. I Giudici di legittimità, in proposito, affermano nella sentenza in commento che in primo luogo l’attività imprenditoriale rileva ai fini della giustificazione dell’acquisto di un bene in quanto proprio produttrice di reddito. Inoltre, i guadagni derivanti da incassi “in nero” e da una supposta condotta di evasione fiscale non risultano per nulla liberatori ai fini della dimostrazione dell’adeguatezza reddituale, essendo peraltro mere affermazioni dei ricorrenti non compravate da alcuna base fattuale.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 marzo – 21 maggio 2014, numero 20743 Presidente Savani – Relatore Fumo Ritenuto in fatto 1. Con il provvedimento di cui in epigrafe, la corte di appello di Torino, in parziale riforma del decreto emesso dal tribunale della medesima città in data 27 gennaio 2012, ha ridotto la durata della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza applicata a D.I. ad anni quattro e a C.F. ad anni tre, eliminando per entrambi l'obbligo di soggiorno nei comuni di Torino per D. e di Orbassano per C. , ha inoltre ridotto nei confronti di entrambi la cauzione imposta dal giudice di primo grado. 1.1. La corte di merito ha inoltre revocato la confisca di alcuni beni immobili intestati alla S.r.l. EDILTAVA e siti nei comuni di Angrogna, Caulonia, Nichelino, e di altri intestati alla S.r.l. ITALIA COSTRUZIONI, siti nei comuni di Calliano e Orbassano. Il provvedimento di primo grado è stato confermato nel resto, vale a dire, oltre che nell'applicazione della misura della sorveglianza speciale sia pure rimodulata come sopraindicato a carico di D. e C. , anche nella statuizione di confisca di numerosi beni immobili intestati a società facenti capo ai due predetti, ovvero intestati agli stessi o a loro familiari. 2. Ricorrono per cassazione il competente procuratore generale e, tramite i rispettivi difensori, tanto il C. , quanto il D. . 3. Ricorso del procuratore generale. 3.1. Deduce violazione dell'articolo 2 comma primo legge 575 del 1965, in quanto, avendo riqualificato la pericolosità sociale dei due proposti, da generica a specifica di tipo mafioso, ha poi erroneamente eliminato l'obbligo di soggiorno imposto dal primo giudicante. Tale obbligo, viceversa, è normativamente imposto nei casi di pericolosità discendente da appartenenza ad associazioni di stampo mafioso. 4. Ricorso C. avv. Del Sorbo . 4.1. Il predetto impugna tanto la misura di prevenzione personale, quanto la misura di prevenzione patrimoniale. 4.2. Con riferimento ad entrambe le misure, deduce a errores in procedendo e in judicando per violazione degli articoli 125 e 597 cpp, attesa la carenza di motivazione o la sua mera apparenza in ordine alla ritenuta sussistenza della pericolosità sociale e alla sua ritenuta attualità, nonché nella individuazione dei presupposti applicativi delle disposizioni di cui alle leggi 1423 del 1956 e 575 del 1965 ciò con riferimento a-1 alla violazione del giudicato parziale nel procedimento di prevenzione e degli effetti devoluti dell'appello, a-2 subordinatamente alla violazione di legge per erronea definizione del concetto di appartenenza alla 'ndrangheta e degli indizi in base ai quali il C. dovrebbe considerarsi soggetto che vive abitualmente grazie ai proventi di attività delittuosa, a-3 alla ritenuta sussistenza della attualità della pericolosità sociale. Premesso che, per univoca giurisprudenza, la mancanza o la mera apparenza di motivazione equivale a violazione di legge, di talché, in tal caso, è consentito ricorso per cassazione anche con riferimento alle misure di prevenzione, nel ricorso si afferma che al C. fu originariamente contestata la pericolosità, cosiddetta, non qualificata, vale a dire quella prevista dagli articoli 1 e 2 della legge 1423 del 1956. In tal caso, la pericolosità non può essere presunta, come avviene per gli appartenenti ad associazione di tipo mafioso, ma va puntualmente provata. Ebbene, la corte territoriale si sottrae a tale onere probatorio, scavalcando le censure proposte con l'atto di appello con l'attribuire al ricorrente la qualifica di appartenente ad associazione di 'ndrangheta e, in tal modo, facendo, irritualmente, riferimento alla cosiddetta pericolosità presunta. In realtà, gli elementi evidenziati dal giudice di secondo grado riguardano, al più, il D. e mai direttamente il C. , che viene chiamato in causa semplicemente come affine del predetto, per averne sposato la nipote, D.F. , ovvero come suo collaboratore nell'attività edilizia. E invero, in primo grado, la confisca era stata disposta ai sensi della legge 1423 del 1956 con il decreto della corte torinese, viceversa, è stata mutata la contestazione e la misura di prevenzione è stata assunta ai sensi della legge 575 del 1965. In tal modo, è stato violato il giudicato di prevenzione e si è travolto il principio dell'effetto devolutivo dell'appello. La corte di merito, invero, non ha neanche compreso in pieno la natura delle censure, atteso che essa ha motivato in ordine alla pretesa violazione del disposto dell'articolo 521 del codice di rito, laddove le censure, come appena premesso, avevano altro contenuto. Si può dire, dunque, che, già in ordine a tale problematica, la corte d'appello ha ignorato per non averla compresa la censura proposta dal ricorrente e, conseguentemente, ha omesso di motivare in merito. In realtà il C. si è difeso con riferimento all'originaria incolpazione, in relazione alla quale la motivazione, sia in primo che in secondo grado, appare del tutto carente, sia perché non è specificato quali reati si intendevano prevenire con l'applicazione della misura di prevenzione, sia perché, come già anticipato, non è stata minimamente motivata la ritenuta pericolosità del C. . La corte territoriale traccia, poi, la differenza tra il concetto di appartenenza e quello di partecipazione ad associazione mafiosa, aderendo a quella dottrina e a quella giurisprudenza certamente discutibili che distinguono le due predette posizioni soggettive. Sta di fatto che il concetto di appartenenza, a tutto voler concedere, si attaglia unicamente al cosiddetto concorrente esterno, come la giurisprudenza ha chiaramente evidenziato. Peraltro, anche per mettere a fuoco il concetto di appartenenza, è necessario che si faccia riferimento a indizi certi ma come tali non possono essere considerati quelli che hanno trovato smentita in sede di accertamento penale. Ebbene, va subito rilevato che C. non è imputato per il delitto di cui all'articolo 416 bis cp, né per concorso esterno. Non a caso, lo stesso non risulta minimamente coinvolto nella cosiddetta operazione OMISSIS , che ha visto l'arresto di oltre cento persone, raggiunte dalla provvisoria imputazione, appunto, di cui all'articolo 416 bis cp. Quanto alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la corte di merito sembra non rilevare il fatto che V.R. parla quasi esclusivamente di D. e, quando parla del C. , lo fa solo avendo attinto notizie de relato. Altro collaboratore, il M. , nulla riferisce sul C. . Neanche V.A. e R. , altri pentiti , fanno parola del ricorrente. Di tutto ciò non è traccia nella motivazione del provvedimento ricorso, che, dunque, anche sotto questo aspetto, deve ritenersi manchevole e quindi meramente apparente. Neanche i servizi di osservazione e pedinamento appaiono significativi nei confronti del C. . Nel provvedimento impugnato, poi, viene enfatizzata la valenza della sentenza emessa il 5 febbraio 2002, sentenza con la quale C. fu condannato con riferimento ai reati in tema di stupefacenti. Invero, come si evince anche dalla misura della pena, lo stesso fu ritenuto un concorrente del tutto marginale è dunque arbitrario fondare un'affermazione di pericolosità attuale su tale pronuncia giudiziaria, che ovviamente si riferisce, oltretutto, a fatti ormai lontani nel tempo. Analoga enfatizzazione ha ricevuto l'elemento costituito dalla pendenza presso la Procura della Repubblica di Torino del procedimento penale numero 1074 del 2008. La corte di merito poi mette in evidenza il contenuto di un'intercettazione tra il C. e tale S.C. . In realtà, si tratta di una conversazione del tutto irrilevante, una conversazione in chiaro , vale a dire che i colloquianti non ricorsero a linguaggi criptici o a frasi allusive. Il contenuto del dialogo è perfettamente lecito. Quanto, poi, agli incontri con B.C. , ritenuto dai giudicanti personaggio di spicco della ndrangheta, detti incontri riguardano quasi esclusivamente il D. . Si sostiene nel provvedimento impugnato che C. avrebbe contribuito a corrompere il curatore di un fallimento che riguardava una società del Barranca, ma ciò viene affermato in maniera certamente generica e facendo ricorso a coordinate spazio-temporali del tutto imprecise. In sintesi, ci si trova, ancora una volta, al cospetto di una motivazione del tutto apparente, a fronte della quale bisogna, viceversa, ricordare le parole dell'inquirente tenumero col. P. , il quale ha riferito che, per quanto a sua memoria, non risultava che C. si fosse recato a Milano per incontrare il B. . Infine, per quel che riguarda l'attualità della pretesa pericolosità, da un lato, va sottolineato che, ancora una volta il predetto ufficiale ha affermato che non risultavano contatti ambigui del C. , dall'altro, che il tribunale di Torino, con suo provvedimento del 25 gennaio 2011, ha revocato l'ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico del ricorrente, ritenendo insussistente il pericolo di reiterazione dei reati della stessa specie. 4.3. Con riferimento alla misura di prevenzione patrimoniale, deduce b inosservanza della applicazione della legge penale in particolare della legge 575 del 1965 articolo 2 bis comma sesto, nonché c ancora inosservanza di legge per mancanza di motivazione, ovvero mera apparenza della stessa, e quindi per implicita disapplicazione della legge 1423 del 1956 articolo 4, comma nono, nonché dell'articolo 125 comma terzo cpp. Si premette che, se, come richiesto, deve essere revocata la misura di prevenzione personale, viene meno anche il presupposto per l'applicazione della misura patrimoniale, essendo la sorveglianza speciale, appunto, il presupposto soggettivo per poter procedere alla confisca dei beni ai sensi della legge 575 del 1965, di talché, se viene dichiarata la nullità della misura della sorveglianza speciale per assenza di pericolosità, se ne deve necessariamente dedurre che non sia applicabile la confisca, a meno di non ritenere che esistano cose pericolose in sé ciò, tuttavia, sarebbe in aperto contrasto con i principi costituzionali di cui agli articoli 3, 27 e 42 della nostra Carta fondamentale. Invero, l'assunto appena esposto non sembra ostacolato da quanto previsto dall'articolo 2 bis comma 6 bis della legge 575 del 1965, come modificata nel 2008 e poi ancora nel 2009. Tale articolo stabilisce che le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere applicate anche disgiuntamente e anche indipendentemente, per le misure patrimoniali, dalla pericolosità sociale del soggetto proposto, ma facendo riferimento al momento della richiesta della misura di prevenzione. È quindi necessario che vi sia stata, almeno nel passato, una manifestazione di pericolosità. Quando così non è, come nel caso di specie, non può farsi luogo, appunto, alla confisca. Sotto altro aspetto, si osserva che i beni possono essere confiscati o perché provengono da reato, ovvero perché è rilevata sproporzione tra i redditi ufficiali del soggetto e il valore dei beni acquisiti. In tal caso, tuttavia, è necessario sia dimostrata la origine illecita dei mezzi finanziari utilizzati. Ebbene il C. ha dato dimostrazione del fatto che i beni che gli sono stati confiscati sono tutti stati acquistati con danaro proveniente dai suoi conti correnti, i quali conti evidenziano giacenze superiori ai suoi guadagni ufficiali. È evidente che si tratta di redditi in nero , tipici di chi esercita attività edilizia. Con particolare riferimento al periodo che va dal 1997 al 2000, è vero che le dichiarazioni dei redditi evidenziano guadagni prossimi allo zero e, tuttavia, i conti correnti, in quello stesso periodo, contengono giacenze per centinaia di milioni di lire. Tale circostanza è del tutto trascurata dalla corte torinese. Ancora una volta, quindi, si è in presenza di motivazione meramente apparente, in quanto i giudici del merito trascurano tali evidenze. Infine, la valutazione di inadeguatezza è stata effettuata sulla base dell'indice medio come elaborato dall'Istat. Si tratta di una parametrazione arbitraria, in quanto non si vede perché non possa essere preso in esame, invece dell'indice medio, l'indice di povertà relativa. In realtà, una attenta lettura della documentazione esibita, avrebbe consentito al giudice del merito di accertare che C. aveva, negli anni, accumulato residui attivi per oltre Euro 87.000. 5. Il 21 febbraio 2014 sono stati depositati motivi aggiunti avv. Cinquerana . 5.1. Viene innanzitutto sollevata questione di legittimità costituzionale dell'articolo 12 sexies della legge 356 del 1992 per contrasto con l'articolo 6 CEDU, nonché con gli articoli 111, 24 comma secondo, 27 comma secondo Cost., nella parte in cui, prevedendo la confisca dei beni dei quali il condannato non può giustificare la provenienza, da un lato introduce inversione dell'onere della prova, dall'altro, non fissa un termine entro il quale l'autorità proponente debba avanzare la propria richiesta. Invero, premesso che la sperequazione tra redditi dichiarati e valore dei beni acquisiti dovrebbe essere dedotta da parametri certi e non da meri dati statistici, quali sono quelli elaborati dall'Istat, resta il fatto che il proposto ha comunque difficoltà, spesso insormontabile, a fornire la prova contraria alla presunzione dietro la quale si arrocca il giudicante, vale a dire quella in base alla quale le somme lecitamente guadagnate non sarebbero confluite in capo al soggetto che ha effettivamente opertato l'acquisto. Sotto altro aspetto, si evidenzia che, essendo costretto ad articolare una prova in sua difesa, il proposto deve, di fatto, rinunciare al diritto al silenzio, essendo pacifico che, in linea generale, anche in tal modo, è consentito difendersi nel processo penale. Inoltre, va ricordato che, per la giurisprudenza più accreditata, la disponibilità finanziaria, per essere considerata legittima, deve semplicemente non derivare da delitto. Quanto specificamente alla mancata fissazione di un termine entro il quale deve essere avanzata la richiesta di misura, tale omissione finisce per violare il principio costituzionale su cui si fonda il diritto di difesa e ciò si dice principalmente alla luce dell'ordinamento comunitario. La fissazione di un termine entro il quale il procedimento deve iniziare a far data dalla disponibilità degli elementi sui quali fondare la relativa richiesta è indispensabile, non potendosi far carico al cittadino dell'onere di conservare documenti a tempo indeterminato. Meno che mai questo onere può essere imposto, ai terzi non destinatari del procedimento di prevenzione. Va, al proposito, ricordato che non esiste un obbligo giuridico di conservare documenti oltre 10 anni dalla loro emissione e ciò è ricavabile tanto dal testo dell'articolo 2220 cc, quanto dall'articolo 22 del DPR 600 del 1973 e dall'articolo 8, quinto comma della legge 212 del 2000. Diversamente opinando, si mina il principio della certezza del diritto, che deve essere inteso, non solo come certezza della norma, ma, anche e soprattutto, come certezza della sua applicazione e applicabilità, nonché della sua interpretazione. Viceversa, la mancanza di un termine nei sensi sopraindicati, consente di confiscare un bene a un soggetto, prescindendo, di fatto, dalla verifica circa un coinvolgimento dello stesso in fatti di rilievo penale, in palese contrasto con la tutela del diritto di proprietà, garantito dalla Costituzione. 5.2. Come evidenziato nel ricorso, peraltro, vengono del tutto a mancare i presupposti soggettivi per l'applicazione della misura personale. La corretta lettura dell'articolo 4 del decreto legislativo 159 del 2011 rende evidente il macroscopico errore in cui è caduta la corte torinese, che ha estrapolato il contesto temporale e oggettivo in cui i beni sono stati acquistati ??? e ha così potuto ricondurre il tutto, erroneamente, ad una presunta attività illecita, attività, peraltro mai posta in essere dal C. . Sotto altro aspetto, va rilevato che la legge richiede la natura abituale della condotta illegale ebbene, di tale abitualità non è stata data prova nel provvedimento impugnato. C. invero ha riportato condanna nel 1984 in relazione alla quale, peraltro, è intervenuto provvedimento di riabilitazione e poi nel 1999 lo stesso risulta inoltre indagato, a far tempo 2008, nella cosiddetta operazione . Ebbene la predetta pendenza giudiziaria deriva dalle accuse del collaboratore di giustizia Varacalli Rocco, la cui inattendibilità è stata ampiamente illustrata e dimostrata con i motivi di appello. In merito, la corte territoriale non ha fornito risposta alcuna dando luogo, in tal modo, anche al vizio di travisamento della prova, per non avere minimamente considerato il fatto che le parole dei pentiti sono rimaste senza alcun riscontro. 5.3. Quanto ai presupposti oggettivi, sui quali dovrebbe riposare l'intervenuto provvedimento ablatorio, essi sono del tutto insussistenti. Secondo i giudici di merito, C. avrebbe la disponibilità indiretta di alcuni beni essendone il reale dominus. Ciò il tribunale e la corte d'appello affermano avendo completamente trascurato l'esame della corposa documentazione depositata dai difensori del ricorrente, documentazione che mette in assoluta evidenza la mancanza di qualsiasi rapporto tra l'imputazione di cui all'articolo 416 bis cp e il patrimonio accumulato dal C. . In sintesi non vi è prova di sproporzione tra i redditi del C. e il valore dei beni acquistati, ma, per converso, si ignora che vi è traccia del fatto che gli acquisti sono avvenuti tramite somme transitate sui conti correnti del ricorrente, conti che presentano saldi ben superiori ai suoi guadagni ufficiali, essendo relativi anche ad accumulo di capitale in nero . Ricorso D. avv. Caprioli . 6. Il predetto impugna la sola misura di prevenzione patrimoniale. 6.1. Deduce violazione di legge e in particolare dell'articolo 2 ter della legge 575 del 1965 sotto l'aspetto della motivazione assente, per essere essa meramente apparente. Quanto alla ritenuta sproporzione reddituale, si afferma che il consulente tecnico del pubblico ministero, nell'ambito del parallelo procedimento penale, ha sostenuto la provenienza lecita dei fondi utilizzati da EDILTRAS e che tale circostanza è stata ribadita con i motivi di appello, senza tuttavia trovare riscontro alcuno nel provvedimento impugnato. Peraltro, tanto il consulente tecnico del pubblico ministero, quanto quello del D. hanno riferito che, almeno fino all'anno 2000, non si riscontravano assolutamente situazioni di sospetto. Anche su tale aspetto, la corte d'appello tace. Peraltro, i giudici del merito hanno appuntato le loro critiche, non sull'esistenza dei capitali utilizzati per l'acquisto, ma sull'origine degli stessi. In tal maniera hanno reintrodotto la problematica sul reimpiego dei capitali di ipotizzata origine illecita, questione che si pone al di fuori delle coordinate normative riferite alle condotte contestate. Esiste poi un errore che mina in radice tutta la costruzione argomentativa esibita dalla corte d'appello, vale a dire il fatto che i giudici del merito non hanno tenuto conto dell'ammontare complessivo dei redditi di tutte te società facenti capo al D. , società che vedevano in EDILTAVA la cassaforte del gruppo circostanza questa essere il ricorrente reale dominus delle varie ditte attive nel campo dell'edilizia ammessa dallo stesso interessato e recepita dalla corte torinese. La corte d'appello peraltro ha equivocato nell'interpretare i motivi di impugnazione, ritenendo che la difesa del D. avesse inteso giustificare gli acquisti con i redditi maturati successivamente agli stessi ciò non risponde al vero in quanto quello che si suggeriva con i motivi di appello era una semplice comparazione sinottica di tutti i redditi, che, nel corso degli anni, si erano accumulati a favore del ricorrente. Il consulente tecnico del D. la d.ssa O. ha abbondantemente chiarito i meccanismi di accumulazione dei capitali utilizzati, poi, di anno in anno, avendo evidenziato che doveva tenersi conto della disponibilità reddituale derivante dal complesso delle attività economiche riferibili al ricorrente e quindi a tutte le ditte e le società con le quali, nel tempo, lo stesso aveva svolto la sua attività imprenditoriale. Sarebbe stato dunque necessario che i giudici del merito avessero proceduto alla ricostruzione - con prospettiva storica - dell'attività imprenditoriale del D. . Invero, perché si possa procedere al sequestro e quindi alla confisca, i presupposti previsti dalla legge devono ricorrere contemporaneamente. Tale interpretazione è confortata dal tenore letterale della disposizione, la quale impedisce la ablazione del patrimonio quando, indifferentemente, esso sia giustificabile in base al valore dei redditi formalmente dichiarati, ovvero in ragione dell'attività economica svolta, attività che normalmente produttiva di reddito imponibile. 6.2. Tanto premesso, è allora evidente che la denunciata inosservanza di leggi consiste nella parte del provvedimento in cui non si osserva la norma, la quale prescrive la necessità di tener conto dell'effettiva attività economica del proposto, oltre che della sua redditualità. In tale opera ricostruttiva, non si possono escludere i redditi derivanti da evasione fiscale, come chiarito dalla più accorsata da giurisprudenza e come, inutilmente, ricordato nei motivi di appello d'altra parte, sui conti correnti di pertinenza del D. , sono affluiti solo redditi leciti e ciò è emerso nel procedimento penale istaurato per il delitto di riciclaggio. Appare comunque errata la ripartizione dell'onere probatorio come ritenuta dai giudici del merito, atteso che al proposto compete la mera allegazione degli elementi in base ai quali si può ritenere legittimo l'acquisto dei beni oggetto di sequestro ebbene, nel caso in esame, il D. ha adempiuto a tale onere indicando i conti correnti dai quali è stata attinta la provvista necessaria per gli acquisti. Invero, per ciascuno degli immobili, il ricorrente ha indicato le modalità di pagamento e la società da cui sono state attinte le risorse finanziarie lo stesso ha anche specificato i conti correnti movimentati allo scopo. Il ricorrente inoltre ha indicato la eventuale presenza di mutui ipotecari, ovvero la ricorrenza di ipotesi di permuta con attività edile, effettuata dalle sue aziende. Al riguardo è indubitabile che i flussi di danaro in ingresso nelle società riferibili al D. avessero provenienza lecita. Va ricordato che il consulente tecnico del pubblico ministero ha chiarito, nel corso del suo esame, che le società facenti capo al D. - per anni - non hanno distribuito dividendi, il che, evidentemente, ha reso possibile l'accumulo di capitali. Una volta chiarito ciò, se la corte d'appello richiede al proposto una prova ulteriore, è evidente che gli fa carico di un onere ulteriore, rispetto a quello della mera allegazione in ordine alla liceità della provvista ed è in ciò che consiste - come si è già chiarito - la violazione di legge e, in particolare, dell'articolo 2 ter della legge 575 del 1965. D'altra parte, pretendere la rigorosa prova della origine degli strumenti finanziari utilizzati per acquisti effettuati decenni addietro vuoi dire imporre una probatio diabolica. 6.3. Con riferimento ai singoli beni immobili, si osserva poi nel ricorso a immobile in , acquistato nel 1994 da EDILTAS e poi ceduto a titolo gratuito ad EDILTAVA. Secondo la corte torinese, l'acquisto non era possibile, sulla base delle evidenze ufficiali, in quanto il reddito della prima delle due società ammontava a poco più di Euro 11.000. Così ragionando, la corte di merito non tiene conto che erano disponibili redditi derivanti dai pregressi esercizi dell'attività della ditta individuale del D. . La mancanza di documentazione è giustificabile in base alla risalenza del negozio giuridico. D'altra parte, la Sdf TASSAGO, anche riferibile al ricorrente, negli anni 1993-94, aveva fatturato più di 1 miliardo di lire. La pretesa provenienza sospetta dei fondi, di cui solo parte in contanti, accreditata sui conti correnti del D. costituisce una infondata illazione b immobile in omissis . Si tratta di un acquisto risalente al 1995. Il prezzo fu corrisposto, in parte, calcolando il controvalore dei lavori eseguiti dal C. , in parte, con assegno della EDILTAS. La corte di merito sostiene che i fondi di tale società erano insufficienti. Così ragionando, essa non tiene conto degli incassi in nero e non tiene conto che il consulente di parte ha illustrato la situazione in base alla quale vi erano stati incassi per oltre 1 miliardo di lire. Va anche ricordato che EDILTAS aveva fatto fronte all'acquisto dell'immobile in omissis , anche utilizzando - in parte - il mutuo ottenuto per l'acquisto dell'immobile in c immobile in , contrada , acquistato nel 1998. Anche in questo caso, la corte territoriale non tiene conto del reddito complessivo delle società del gruppo D. , né tiene conto che, all'epoca, EDILTAVA non operava solo come finanziaria del gruppo, ma esercitava direttamente anche attività edilizia, tanto da aver incassato, in quell'anno, 192 milioni di lire circa, mentre EDILTAS poteva vantare entrate per oltre 1 miliardo di lire e per oltre 2 miliardi nell'anno precedente ancora la ITALIA COSTRUZIONI nel 1998 aveva incassato oltre 2.600.000.000 di lire d terreni in . Si tratta di un acquisto effettuato nel 2007 con danaro derivante dalla vendita di due immobili in presso e in . Anche in questo caso, l'errore compiuto dai giudici del merito consiste nel non aver tenuto conto delle risorse complessive del gruppo e immobili in Rive presso Chieri, acquisto realizzato nel 1996 e nel 1999. Si tratta di due immobili per il prezzo di lire 50 milioni ciascuno. Il primo fu intestato alla nipote del D. , D.F. , la quale poi li trasferì ad EDILTAVA il secondo fu direttamente acquistato da EDILTAVA. Nel 1996 e nel 1999 i redditi dichiarati dalla predetta società furono rispettivamente di 20.944 e di 46.805 Euro, ma il volume di affari di EDILTAS ammontò oltre 2 miliardi e ottocento milioni di lire. Le entrate ammontarono ad oltre 2 miliardi e seicento milioni di lire e non vi fu afflusso di contanti. Ciò con riferimento all'anno 1996. Con riferimento al 1999, le entrate furono di oltre 594 milioni, con un giro d'affari dunque considerevole. L'errore della corte d'appello, dunque, è sempre lo stesso, vale a dire non aver tenuto conto del reddito complessivo. Inoltre l'acquisto fu perfezionato anche attraverso la permuta con opere edilizie in favore del venditore, T.A. f immobili in , acquistati negli anni 2004 e 2005. La corte compie il solito errore prospettico. Il prezzo è indicato in Euro 198.000 a fronte di un reddito complessivo di Euro 117.000, cui, se si aggiunge l'avanzo di gestione precedente, si giunge a Euro 247.000 e – dunque - a una capienza sufficiente per affrontare l'acquisto. D'altra parte, nel 2005 i redditi complessivi ammontavano 181 mila Euro, mentre i conti correnti delle società facenti capo al ricorrente, negli anni 2004 2005, evidenziano flussi di alcuni milioni di Euro. In merito, la corte d'appello sembra porre a carico del D. ulteriori oneri probatori, esigendo la prova del pagamento delle rate del mutuo, la prova della consegna dei materiali edilizi, la prova del pagamento degli operai, la prova della provvista costituita per l'emissione di assegni circolari e così via. Da questo punto di vista, ancora una volta, si deve affermare che i giudici torinesi errano nella loro visione della ripartizione dell'onere probatorio g immobili in omissis . Si tratta di un magazzino e di un negozio, acquistati nel 2004, rispettivamente per 26.000 e 50.000 Euro in merito ai quali, la corte commette l'errore più volte indicato. Nel ricorso, si ripetono le considerazioni già fatte a proposito dell'immobili in e si ricorda che esistono eccedenze degli anni precedenti. Il totale realizzò la somma in base alla quale fu certamente possibile effettuare gli acquisti sopraindicati. Peraltro, come chiarito con i motivi di appello e già emerso in primo grado, parte dell'importo fu corrisposto saldando un debito del venditore nei confronti di un terzo h immobili in omissis . È un acquisto effettuato nel 2005 il prezzo convenuto fu di Euro 80.000 e gli acquirenti ottennero un mutuo per Euro 150.000. Secondo la corte territoriale, il reale prezzo corrisposto fu di Euro 310.000, come emergerebbe da un preliminare sequestrato in realtà fu sequestrato una sua pagina del predetto atto . Anche in questo caso, in ragione del persistente errore prospettico, il giudice di secondo grado ritiene insufficienti le risorse a disposizione del D. i terreni in . Fu stipulato un preliminare nel 2002, mentre il rogito fu sottoscritto nel 2007. Il prezzo indicato e di Euro 24.790 e gli immobili furono intestati alla figlia del ricorrente. In base alla presunzione di cui all'articolo 2 bis comma terzo della legge 575 del 1965, i giudici del merito li hanno ritenuti riferibili al ricorrente. Ebbene, nel 2007 il reddito era certamente tale, così come nel 2002, da consentire l'acquisto k immobili intestati alla DOMUS IMMOBILIARE. k-1 terreni in k-2 fabbricato in omissis . La corte di appello mostra di aver compreso che l'acquisizione dei predetti immobili avvenne a seguito di scambi, compensazioni e permute con altri immobili e grazie all'intervento della AGROLEASING tuttavia essa sostiene che ciò sia stato reso possibile dal afflusso di capitali di origine sconosciuta. Così non è, in quanto solo parte dei capitali utilizzati è rappresentata da contante 101.000 e 50.000 Euro , fondi che, in base agli accertamenti compiuti dalla d.ssa O. , furono regolarmente prelevati dai conti correnti delle ditte, I immobili intestati a ITALIA COSTRUZIONI. l-1 fabbricato in omissis . Secondo l'assunto della corte d'appello, il ricorrente sarebbe intervenuto acquistando il predetto bene fallimentare per consentire alla fallito, B.C. , di rientrare in possesso dell'immobile. L'origine illecita degli strumenti finanziari è, per vero, meramente ipotizzata, atteso che non vi è nessuna dimostrazione della sproporzione reddituale e che la motivazione che avrebbe mosso all'acquisto è del tutto irrilevante ai fini della prova dei fatti per i quali è processo. L'immobile in questione è peraltro iscritto nel conto economico della società ITALIA COSTRUZIONI all'atto del rogito notarile quale costo dell'esercizio per l'acquisto di immobili ed è rilevato - a fine esercizio - quale rimanenza di magazzino. Conseguentemente l'impatto sul risultato di esercizio risulta neutro. In altre parole, il reddito d'esercizio della società predetta, per l'anno 2007, è costituito dal risultato anche della rilevazione dell'acquisto dell'immobile di Legnano e della conseguente rilevazione quale rimanenza finale di magazzino al 31 dicembre dello stesso anno. In questa prospettiva, quindi, il confronto, operato nel provvedimento, tra reddito societario e prezzo pagato appare destituito di ogni tecnico fondamento. In questo caso, peraltro, gli strumenti finanziari sono rappresentati da assegni circolari emessi da Unicredit di OMISSIS dove la ITALIA COSTRUZIONI intratteneva regolare rapporto di conto corrente. 7. In data 21 febbraio 2014 sono state depositate note di replica avv. Gianzi alla requisitoria scritta del procuratore generale. 7.1. Contrariamente a quello che sostiene il procuratore generale, il ricorso del D. non è inammissibile, in quanto esso non articola censure nel merito, né sollecita una rilettura degli atti, ma contesta la ripartizione dell'onere probatorio, come propugnata dalla corte d'appello. Peraltro, anche il procuratore generale pretende che il proposto fornisca la prova piena e non che si limiti alla mera allegazione delle ragioni per le quali gli acquisti devono ritenersi leciti. D. ha dimostrato di aver pagato regolarmente i beni acquistati, ma il procuratore generale concludente pretende la dimostrazione della liceità dell'origine delle somme utilizzate dal predetto. La stessa corte d'appello, peraltro, ha parzialmente riformato la pronuncia di primo grado, provvedendo al dissequestro e alla restituzione di alcuni beni immobili. La stessa corte ha ammesso che le società del D. non operavano coperte dalla protezione mafiosa. Ne consegue che i guadagni delle predette società non possono essere considerati, in sé, illeciti. Rimane dunque soltanto l'ipotizzata sproporzione tra i redditi ufficiali e il prezzo d'acquisto dei beni. Ma, nel valutare tale sproporzione, la corte compie errori che sostanziano violazione di legge. Invero, secondo la giurisprudenza di legittimità, il termine sproporzione rimanda non a qualsiasi difformità tra guadagni e ricapitalizzazione, ma a un incongruo squilibrio tra questi due elementi, squilibrio da valutarsi secondo le comuni regole di esperienza. Conseguentemente, la giustificazione credibile attiene alla liceità della provenienza delle somme in relazione all'attività economica svolta. È quindi sufficiente dimostrare per gli acquisti che hanno un titolo negoziale la derivazione del singolo bene acquistato in relazione ad attività consentite dall'ordinamento, derivazione che sarà valutata secondo generali principi di formazione del convincimento giudiziale. Non aver osservato tale canone ermeneutico integra il primo vizio di violazione di legge che si riscontra provvedimento impugnato. Il secondo vizio consiste nell'avere la corte d'appello preteso la prova rigorosa in ordine alla proporzione tra guadagni ufficialmente censiti e prezzo di acquisto di beni, estendendo la pretesa anche all'origine dei mezzi finanziari utilizzati. In realtà, il concetto di allegazione si riduce alla indicazione di un'attività economica legittima, svolta in concomitanza con i singoli acquisti, attività dalla quale, sul piano logico, è possibile anche secondo le regole della comune esperienza far derivare i flussi finanziari adoperati per i singoli acquisti. La controprova dell'erronea impostazione seguita dalla corte d'appello si ricava dal fatto che il giudice di secondo grado ha dissequestrato parte degli immobili a suo tempo sottratti al D. e precisamente quegli immobili in relazione ai quali il ricorrente è stato in grado di fornire la prova rigorosa e satisfattiva dell'origine legittima degli strumenti finanziari utilizzati. Ciò sta provare che, evidentemente, la corte territoriale pretende la piena probatio da parte del proposto, con ciò invertendo, di fatto, l'onere della prova. Peraltro, come già fatto notare nel ricorso, i fatti contestati al D. sono risalenti nel tempo e, dunque, è del tutto ragionevole che lo stesso non sia in possesso dei documenti relativi ad affari conclusi decine di anni fa. Risulta poi superata quella giurisprudenza che riteneva ingiustificati gli acquisti provenienti da evasione fiscale. Per tutte le ragioni sopra esposte, è evidente che ci si trova in presenza di motivazione apparente e quindi di violazione di legge. Considerato in diritto 1. Come anticipato, il procuratore generale presso questa corte, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto dei ricorsi di D. e C. lo stesso, tuttavia, sviluppa argomentazioni che sembrerebbero condurre più che altro a una richiesta di inammissibilità. 1.1. A ben vedere, d'altra parte, gran parte delle censure proposte dai due predetti, benché vestite come rilievi attinenti a pretese violazioni di legge, si risolvono in argomentazioni attinenti al merito della decisione assunta dalla corte di appello e dunque, si connotano come critiche all'apparato motivazionale del provvedimento impugnato. D'altra parte, la stessa estensione dei ricorsi appare sintomatica della loro intrinseca natura di censure rivolte alla giustificazione logica del provvedimento, più che di doglianze relative ad una non corretta interpretazione e/o applicazione di norme giuridiche. Nondimeno, alcune censure - benché, come si illustrerà, infondate - attinenti effettivamente a pretese violazioni di legge, determinano il rigetto dei ricorsi di D. e C. . 2. Allo scopo di delimitare - come è doveroso - la presente motivazione agli aspetti essenziali per e necessari alla decisione che si va ad assumere, conviene immediatamente rilevare che, per quel che riguarda la doglianza sub i del ricorso D. punto 6.3. pag. 6 ss. , il ricorrente manca di legittimazione. Se intestataria dei beni, come si sostiene, è la nipote del proposto, la predetta e non D. avrebbe dovuto coltivare l'impugnazione. 3. Va poi anche subito detto che le censure proposte con i motivi aggiunti nell'interesse di C. sono inammissibili per genericità. La trama argomentativa di dette censure, infatti, è tutta centrata sulle problematiche di cui all'articolo 12 sexies della legge 356/1992, che non ha trovato applicazione nel caso in esame. In realtà detti motivi sembrano quasi essere attinenti ad altro ricorso. 4. Tanto premesso e passando ad esaminare sia pure raggruppandole quando necessario le singole questioni proposte, si deve innanzitutto osservare che il concetto di giudicato di prevenzione appare alquanto indefinito e, per altro arbitrario, se applicato al caso in esame. 4.1. Al proposito è stato ritenuto ASN 200633077-RV 235144 che la preclusione derivante dal predetto giudicato non opera come per la decisione di merito, in quanto la decisione di prevenzione non accerta la sussistenza di un fatto-reato o la responsabilità di un soggetto, sicché, non è preclusa la instaurazione di un nuovo procedimento di prevenzione sulla base di elementi non considerati nei passaggi argomentativi e nei presupposti di fatto di una precedente decisione. Ciò equivale a dire che la preclusione opera rebus sic stantibus e, pertanto, non impedisce né la rivalutazione della pericolosità ai fini dell'applicazione di una nuova o più grave misura, ove si acquisiscano ulteriori elementi, precedenti o successivi al giudicato, ma non valutati, elementi che comportino un giudizio di maggiore gravità della pericolosità stessa e di inadeguatezza delle misure precedentemente adottate SS.UU. sent. numero 600 del 2009/2010, ric. Galdieri, RV 245176 , così come è consentita l'applicazione del sequestro e della confisca di beni sulla base di una nuova considerazione della situazione fattuale sotto il profilo personale e patrimoniale cfr, la già ricordata ASN 200633077-RV 235144 . 4.2. Nel caso in esame, per altro, si sostiene da parte dei ricorrenti che, essendo intervenuta una prima decisione ai sensi della legge numero 1423/1956, non impugnata sul punto, il giudice dell'appello non avrebbe potuto, senza violare il principio devolutivo, riqualificare le posizioni soggettive di D. e C. ai sensi della legge numero 575/1965 attribuendo agli stessi pericolosità c.d. qualificata . Ma così non è, appunto perché non è stato accertato e non era da accertare alcun fatto, ma sono stati valutati profili personologici e analizzate situazioni patrimoniali ciò che più conta, gli elementi presi in considerazione dal primo giudice sono stati gli stessi a disposizione del giudice di appello, elementi noti ai proposti e con riferimento ai quali gli stessi potevano difendersi e si sono difesi cognita causa. 4.3. Ebbene, proprio perché il principio del giudicato opera, nel procedimento di prevenzione, limitatamente alle situazioni di fatto valutate, di volta in volta, per la deliberazione dei provvedimenti stessi, non essendo mutata la situazione di fatto, nessuna violazione del principio stesso è ipotizzabile. 5. Altra questione che occorre sciogliere preliminarmente è quella del significato e dei limiti della allegazione difensiva ovviamente sempre in tema di misure di prevenzione . Ebbene, è evidente che, con riferimento agli strumenti finanziari che furono necessari per l'acquisto di un bene, l'onere di allegazione non può essere soddisfatto dalla mera indicazione della esistenza della provvista sufficiente per concludere il negozio. Se si afferma che un bene è stato acquisito in cambio di un versamento di danaro contante, assegni, bonifici ecc , si ricorre a una mera tautologia, in quanto la compravendita articolo 1470 cc altro non è che il contratto con il quale si trasferisce la proprietà di una cosa o un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo . Dunque affermare che, per la acquisizione di un cespite, è stato versato un controvalore in denaro, altro non vuoi significare che quel cespite è stato acquistato. Ma ciò, ovviamente, non può soddisfare l'onere di allegazione, che naturalmente - per sottrarsi, appunto, alla accusa di mera apparenza logica - si deve estendere necessariamente alla indicazione della provenienza degli strumenti finanziari utilizzati. Non si tratta, invero, di un'ulteriore condotta di tacere o di dicere che si impone al proposto, atteso che la indicazione delle fonti costituisce l'in sé della allegazione, attesa la natura fungibile dello strumento di acquisizione indicato il denaro, appunto . 5.1. E non si dica che, in tal modo, si è giunti a una sorta di inversione dell'onere probatorio. L'assunto invero non può essere condiviso, in quanto ai soggetti sottoposti al procedimento di prevenzione si chiede unicamente di indicare quegli elementi fattuali dai quali il giudicante possa dedurre che il bene non sia stato acquisito con i proventi di attività illecita, ovvero ricorrendo ad esborsi non proporzionati alla capacità reddituale del soggetto. Sostenere che una res sia stata acquisita utilizzando denaro equivale, come premesso, ad affermare l'ovvio, equivale, cioè, a tentare di aggirare l'onere di allegazione, in quanto tutto ciò che si richiede al soggetto è di fornire una spiegazione credibile in ordine ai mezzi e alle circostanze che gli hanno consentito un determinato incremento patrimoniale, ovvero il pagamento delle rate di un mutuo. È infatti di tutta evidenza che anche sostenere di aver fatto fronte all'acquisto di un immobile accendendo un mutuo costituisce una allegazione apparente , se poi non si è in grado di giustificare un livello di reddito tale da far fronte alle relative rate di rimborso. Ciò è esattamente quello che, sulla base di quanto esposto nel provvedimento impugnato, risulta che D. e C. non hanno fatto, atteso che a interrogati il 18.11.2009, gli stessi non sono stati in grado di chiarire donde avessero tratto gli strumenti finanziari per l'acquisto dei beni in , b nel corso di una conversazione intercetta, il D. risulta aver ammesso la sua attività di riciclaggio, c entrambi hanno precedenti per reati in tema di stupefacenti, d entrambi risultano coinvolti nell'operazione finanziaria volta ad assicurare a un eminente personaggio di 'ndrangheta il B. la disponibilità di un bene che gli era stato in precedenza confiscato, e i collaboratori di giustizia i V. , R. , M. li indicano come personaggi intranei alla criminalità organizzata, f manca qualsiasi contabilità intelligibile delle aziende che fanno capo ai proposti, g è stato posto in evidenza come i conti correnti utilizzati per gli acquisti siano stati alimentati in genere per contanti, di oscura origine pochi giorni prima che gli acquisti stessi fossero realizzati. 6. A fronte di un tale quadro fattuale e delle inevitabili deduzioni logiche che la corte ne trae, gli argomenti difensivi esibiti dai ricorrenti appaiono, da un lato, oltremodo fragili, dall'altro, presupponenti valutazioni di merito, improponibili davanti a questo giudice di legittimità. 6.1. Invero, sostenere che ciò che rileva non è la sola capacità di reddito, ma che bisogna tener conto della attività imprenditoriale di D. e C. è un vero e proprio non-senso, in quanto, come è più che evidente, l'attività imprenditoriale in tanto rileva, ai fini di giustificare i vari acquisti, in quanto sia atta a produrre reddito. 6.2. Sostenere che il metodo di calcolo adottato dal consulente dell'Accusa sia erroneo perché non tiene conto del valore complessivo delle giacenze che, nel tempo, si erano accumulate, costituisce un paralogismo in quanto la capacità reddituale va valutata nel momento in cui viene effettuato l'acquisto scil di volta in volta, i singoli acquisti e non con riferimento a quanto disponibile dopo l'acquisto stesso. 7. In relazione poi ai singoli cespiti, è da rilevare che i ricorrenti si riportano a frammenti di materiale probatorio che a loro dire sarebbe emerso in altri e distinti procedimenti. Va da sé che si tratta di argomenti non spendibili in questa sede, sia perché frutto di una selezione arbitraria, sia perché indicati in modo non specifico, sia perché si chiede al giudice di legittimità di formulare giudizi di merito. Anche l'insistito richiamo alle conclusioni raggiunte dal consulente di parte, d.ssa O. , sembra sollecitare una valutazione comparativa da parte della corte di cassazione. 8. Inammissibili in parte qua sono quelle censure con le quali si contestano i criteri di calcolo relativi alla adeguatezza patrimoniale - ritenuta su base Istat - e vi si contrappongono altri criteri, in ragione dei quali i proposti, vivendo in un ipotetico stato di assoluta e feroce povertà privandosi di tutto e privandone le loro famiglie , avrebbero potuto acquistare gli immobili che risultano loro intestati. Invero, a parte la intrinseca assurdità dell'assunto, si tratta, ancora una volta di una diversa ma, per quel che si è detto, non plausibile lettura di dati probatori. 8.1. Lo stesso deve dirsi con riferimento ai pretesi incassi in nero e ai guadagni derivanti da una vantata condotta di evasione fiscale. Infatti, a parte il fatto che gran parte della giurisprudenza non considera liberatorio, ai fini della dimostrazione della adeguatezza reddituale, la allegazione di tale fonte illecita di accumulazione, resta il fatto che trattasi di mere affermazioni dei ricorrenti, i quali non indicano alcuna base fattuale a fondamento del loro dictum. In conclusione, per quel che riguarda le misure di prevenzione reale, si deve affermare che i ricorsi appaiono privi di fondamento. 9. Quanto alle misure personali nulla quaestio sulla misura in danno del D. , il quale non ha impugnato tale parte del decreto quanto al C. , la sua pericolosità è stata correttamente giustificata, non certo sulla base della sua posizione gregaria nei confronti del D. , ma in considerazione di sue personali condotte, quali la compartecipazione all'operazione , le accuse dei collaboratori di giustizia, i suoi precedenti penali in tema di stupefacenti, la pendenza presso il competente ufficio di Procura di altro procedimento penale. Accusare la corte torinese di avere enfatizzato tali dati obiettivi costituisce, con tutta evidenza, argomentazione, ad un tempo, generica e in fatto e, come tale, inammissibile in questa sede. 10. Infine, il ricorso del procuratore generale è certamente da accogliere, in considerazione della ritenuta pericolosità qualificata dei proposti. L'obbligo di soggiorno va dunque ripristinato. P.Q.M. In accoglimento del ricorso del procuratore generale, annulla senza rinvio il provvedimento impugnato limitatamente alla esclusione dell’obbligo di soggiorno, che ripristina rigetta i ricorsi di D.I. e C.F. , che condanna singolarmente al pagamento delle spese del procedimento.