La motivazione della sentenza di appello che riformi la sentenza di primo grado si caratterizza per un obbligo rafforzato , che si aggiunge a quello generale della mancanza, non manifesta illogicità e non contraddittorietà, evincibile dall’art. 606, co. 1, lett. e c.p.p Il giudice di appello, infatti, deve anche confrontarsi in modo specifico e completo con le argomentazioni contenute nella prima sentenza, ricorrendo il vizio di motivazione quando quel confronto manchi su circostanze ed apprezzamenti che hanno concorso in modo determinante a fondare il primo e diverso apprezzamento.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 38136 del 17 settembre 2013. Il caso. La Corte d’Appello di Napoli, in riforma della decisione del Tribunale, riteneva la conducente di un’autovettura responsabile del reato di omicidio colposo. In particolare, all’imputata veniva ascritto il colposo attraversamento di un incrocio con semaforo rosso che aveva determinato l’impatto tra l’automobile che ella conduceva e un ciclomotore proveniente dalla destra, che attraversava il predetto incrocio con semaforo verde, con conseguente decesso del conducente. Il collegio di secondo grado aveva ribaltato il verdetto del Tribunale, il quale aveva ritenuto che la condotta parimenti imprudente della persona offesa che aveva attraversato l’incrocio, nonostante il semaforo verde, senza controllare che non provenissero altri veicoli dagli altri lati dello stesso e tenendo una elevata velocità avesse spiegato un’efficacia causale dell’evento assorbente rispetto a quella dell’imputata, giungendo, pertanto, alla assoluzione di questa per insussistenza del fatto. Le stesse risultanze istruttorie su cui aveva basato il proprio convincimento il primo giudicante venivano valutate in maniera diametralmente opposta dalla Corte territoriale, la quale poneva alla base del proprio giudizio di colpevolezza anche la denuncia di sinistro stradale effettuata dal marito dell’imputata, configurandola quale confessione stragiudiziale. La condannata proponeva ricorso in Cassazione fondato sulla illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza d’appello e sulla violazione di legge inerente l’efficacia probatoria della denuncia di sinistro, erroneamente considerata confessione stragiudiziale. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, annullando senza rinvio la sentenza impugnata. Non si può confessare un fatto altrui. Dopo una breve premessa sulla impossibilità di integrare la motivazione del provvedimento impugnato con quella della sentenza di primo grado data la difformità degli esiti a cui sono pervenuti , la IV sezione penale si sofferma sulla natura e sulla conseguente efficacia probatoria della denuncia di sinistro stradale presentata dal marito dell’imputata alla propria assicurazione. In essa venivano descritte una dinamica del fatto la provenienza da destra del ciclomotore e una condotta dell’imputata mancata avvedutezza rispetto al sopraggiungere della vittima che deponevano, ad avviso del collegio d’appello, a favore della esclusiva responsabilità della conducente dell’automobile. La Suprema Corte, tuttavia, evidenzia come la qualificazione di tale atto operata dalla corte territoriale sia stata del tutto erronea, sottolineando la circostanza per cui una confessione stragiudiziale, per essere tale, deve provenire dall’imputato, non da un altro soggetto in questo caso il responsabile civile estraneo alla dinamica dei fatti in essa narrati. Inoltre, la confessione stragiudiziale deve essere apprezzata per la sua genuinità e spontaneità rispetto al fatto ivi descritto. Tali elementi nel caso in questione non possono riscontrarsi, dato che la denuncia aveva il solo scopo di ottenere un risarcimento da parte della compagnia assicuratrice dell’automobile e che, per questa ragione, essa prospettava una dinamica del sinistro non veritiera. In errore è incorsa, pertanto, la Corte d’Appello allorquando ha fondato il proprio convincimento in merito alla penale responsabilità dell’imputata sul documento in questione, dotato di un’efficacia probatoria pressoché nulla. Ragionevole dubbio un ostacolo da superare. La sentenza impugnata si caratterizza, secondo il Supremo Collegio, anche per un altro profilo di illogicità e, quindi, di illegittimità. Secondo piazza Cavour la corte territoriale si è semplicemente limitata, nel ribaltare l’esito assolutorio di primo grado, a fornire una lettura alternativa degli stessi elementi probatori analizzati dal Tribunale, senza porre in essere, in fase di motivazione, un’ulteriore e decisiva incombenza . Era necessario, cioè, che il giudice d’appello spiegasse non solo perché le risultanze istruttorie portavano ad un giudizio di colpevolezza, ma anche perché le conclusioni a cui era pervenuto il giudice di primo grado non potevano essere condivise. Al contrario, come supra riferito, la Corte d’Appello ha tenuto il proprio raggio di motivazione nei limiti della semplice diversa e opposta valutazione degli elementi probatori, non argomentando in merito agli esiti asseritamente erronei del Tribunale. Ciò in particolare è evidente, secondo i giudici di Piazza Cavour, per ciò che riguarda la velocità del ciclomotore condotto dalla persona offesa. La consulenza tecnica a cui la sentenza di primo grado ha fatto riferimento aveva ritenuto che il mezzo alla cui guida vi era la vittima del sinistro procedeva ad una elevata velocità circa 90 km/h e che solo in ragione di tale elevata velocità si poteva spiegare la gravità dei danni subiti dall’autovettura. La sentenza impugnata, al contrario, aveva stabilito che la velocità del ciclomotore non poteva superare i 9 km/h e a tale conclusione essa era pervenuta senza fornire una spiegazione del perché le conclusioni della consulenza tecnica non potevano essere condivise. Un simile modus motivandi non supera il vaglio critico della Corte di Cassazione, la quale sottolinea come, allorquando vi sia difformità di giudizio tra sentenza di primo e secondo grado e a maggior ragione quando la sentenza riformata è assolutoria , il processo motivazionale del giudice d’appello deve caratterizzarsi per la sua completezza soprattutto in riferimento alle ragioni che hanno condotto al ribaltamento di tale giudizio. Nella vicenda in oggetto alla pronuncia assolutoria si era pervenuti in ragione della sussistenza di un ragionevole dubbio in merito all’esclusiva responsabilità dell’imputata nella causazione del sinistro de quo la sentenza aveva prosciolto sulla base dell’art. 530, co. 2 c.p.p. . Ragionevole dubbio fondato sulla condotta, parimenti imprudente, della persona offesa. Il collegio di secondo grado, secondo la Corte di Cassazione, avrebbe dovuto superare tale ragionevole dubbio. Ciò tuttavia non è avvenuto, essendo incorsa, quindi, la Corte d’Appello nella violazione della regola di giudizio di cui all’art. 533 c.p.p., che proprio al superamento del ragionevole dubbio subordina la possibilità di emettere un giudizio di condanna. Il fatto sussiste, ma non costituisce reato. Nel confermare il giudizio assolutorio a cui era pervenuto il Tribunale, la IV sezione penale ritiene, tuttavia, di dover modificare la formula di tale assoluzione. Dalle risultanze istruttorie emerge, secondo la Suprema Corte, che il fatto contestato all’imputata si è effettivamente verificato nella sua materialità e, in particolare, che risulta accertato il nesso di causalità tra la condotta della conducente dell’autovettura e l’evento-morte del conducente del ciclomotore. Ciò che non sussiste, o della cui sussistenza ragionevolmente si dubita, è la riferibilità del verificarsi dell’evento alla sola imprudenza dell’imputata, atteso che risulta accertata anche l’imprudenza della persona offesa, la quale non doveva, nonostante il semaforo verde, attraversare l’incrocio in questione a velocità elevata. Ne deriva che l’elemento mancante per poter giungere ad una pronuncia di condanna è quello soggettivo, non quello oggettivo, del reato. Il Supremo Collegio ribadisce, in proposito, che solo la mancanza di uno degli elementi oggettivi del reato può condurre alla formula assolutoria del perché il fatto non sussiste , dovendo, al contrario, il giudice servirsi della formula perché il fatto non costituisce reato allorquando, come nel caso oggetto di analisi, sia la componente soggettiva del reato stesso a risultare assente o perlomeno di dubbia presenza . Tale modifica della formula assolutoria non è priva di effetti, considerata la circostanza, evidenziata dalla sentenza in commento, per cui l’efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., non opera nel giudizio civile, nei confronti della parte civile costituita, riguardo alla in sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Pertanto, la decisione della Corte di legittimità lascia comunque un margine di manovra alla parte civile, alla quale, a seguito della modifica della formula assolutoria, non potrà più opporsi, nel giudizio civile per il risarcimento del danno, la su citata efficacia di giudicato della sentenza penale.
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 10 luglio - 17 settembre 2013, n. 38136 Presidente Brusco Relatore Dovere Ritenuto in fatto Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Napoli ha riformato la pronuncia assolutoria emessa dal Tribunale di Nola nei confronti di M.L. , giudicandola colpevole di omicidio colposo in danno di L.V. , commesso attraversando l'incrocio presidiato da segnale luminoso di colore rosso alla guida di un autovettura, sicché il L. , alla guida di un ciclomotore marciante con segnale di via libera, veniva a collisione con il veicolo e riportava lesioni che ne cagionavano il decesso, sopraggiunto alcuni giorni più tardi. Ad avviso del giudice di seconde cure la valutazione di attendibilità dei testi a discarico e di inattendibilità del teste addotto dall'accusa formulata dal Tribunale non poteva trovare condivisione. Per il Collegio distrettuale i contributi testimoniali non potevano essere nel complesso considerati come idonei a fondare il convincimento giudiziale prendeva, invece, in esame il comportamento della M. , che si era allontanata dal posto senza attendere l'arrivo dei Carabinieri e quello del figlio, abitante nei pressi, ed altresì la denuncia di sinistro fatta dal coniuge dell'imputata alla compagnia assicurativa, che la Corte di Appello qualificava come confessione stragiudiziale. Avverso tale decisione ricorre per cassazione la M. deducendo vizio motivazionale. Lamenta l'esponente che la Corte di Appello ha errato nel giudizio di attendibilità dei testi, malamente interpretando quanto dagli stessi riferito, anche tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti, o travisando il contenuto delle loro dichiarazioni. Per ciò che concerne la confessione stragiudiziale rinvenuta dalla Corte di Appello nella denuncia del sinistro alla società assicuratrice fatta dal proprietario del veicolo, essa secondo l'esponente non ha alcun valore probatorio, essendo al più liberamente valutabile nei confronti dei litisconsorti necessari. In concreto, essa riporta una prospettazione non vera, volta ad ottenere il pagamento dei danni da parte della società assicuratrice. Considerato in diritto Il ricorso è fondato. Va preliminarmente evidenziato, nell'apprezzamento della logicità, coerenza e completezza della motivazione della sentenza impugnata, che questa non può essere integrata con quella di primo grado, che aveva assolto l'imputata con la formula perché il fatto non sussiste ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p., posto che non potevano escludersi elementi di un contributo causale nella determinazione dell'evento, concretizzatosi nella condotta di avere intrapreso l'attraversamento dell'incrocio, sia pure con il semaforo verde, senza verificare però se altri veicoli, a velocità sostenuta e con l'impianto semaforico segnalante luce rossa, provenissero dalla destra. Il giudice di primo grado ha così ritenuto che non fossero emersi elementi probatori utili a sostenere oltre ogni dubbio l'assunto accusatorio fondato sulla violazione da parte dell'imputata dell'art. 146, comma 3, del codice della strada ed ha escluso la rimproverabilità alla stessa dell'evento morte, sul rilievo che la condotta della vittima con ogni probabilità aveva dispiegato una efficacia causale assorbente. Il giudicante è pervenuto a tale conclusione, non solo analizzando in modo ampiamente esaustivo le risultanze processuali le dichiarazioni testimoniali, delle quali si è soffermato a valutare l'attendibilità, le risultanze tecniche degli accertamenti svolti dal consulente del PM e della parte civile sulla dinamica dell'incidente, gli esami dei periti in dibattimento ma, altresì, prendendo in considerazione le diverse ragioni ricostruttive prospettate dalla parte civile. La Corte territoriale ha, invece, disatteso tale ricostruzione del fatto, ribaltando la valutazione di attendibilità dei testi formulata dal primo giudice e sostenendo che la denuncia del sinistro alla compagnia di assicurazione fatta dal marito della M. , nella qualità di responsabile civile, prima della morte della parte offesa - nella quale si evidenziava che la conducente non si era avveduta in tempo utile del ciclomotore, che proveniva dalla propria destra - valeva come una vera e propria confessione stragiudiziale. Il giudice di appello ha, in conclusione, affermato che il sinistro stradale si era verificato per esclusiva responsabilità dell'imputata e che era da escludersi il concorso di colpa del L. , atteso che lo stesso aveva impegnato l'incrocio con il verde e ad una velocità conforme alle norme di prudenza. Ciò detto, risulta in questa prospettiva illogica e contraddittoria la decisione in esame allorquando ha posto a base del giudizio di responsabilità la denuncia del sinistro fatta dal responsabile civile, espungendo del tutto il riferimento dallo stesso fatto alla circostanza che l'imputata aveva attraversato l'incrocio con il semaforo verde. La illogicità e la violazione di legge è poi tanto più evidente laddove la Corte territoriale ha qualificato come confessione stragiudiziale la su indicata denuncia del sinistro fatta dal responsabile civile, dimenticando che la confessione stragiudiziale che può essere assunta a fonte del libero convincimento del giudice è esclusivamente quella proveniente dall'imputato, sempre che sia possibile verificarne la genuinità e la spontaneità in relazione al fatto contestato. Manifestamente illogica e, non coerente al materiale probatorio, è, altresì, la decisione nella parte in cui non spiega come abbia fatto il ciclomotore, andando a 9 km orari, ad impattare l'autovettura nella portiera posteriore, procurando i gravi danni, puntualmente descritti nella sentenza di primo grado, che ha fatto altresì riferimento alle conclusioni del CTU, secondo il quale il motociclo viaggiava ad una velocità di circa 90 Km all'ora. In conclusione, deve osservarsi che alcuna delle ragioni indicate nella sentenza impugnata, per la manifesta illogicità degli argomenti posti, vale a superare il giudizio assolutorio formulato dal giudice di primo grado nei confronti dell'imputata. Questa affermazione è del resto coerente con il principio, condiviso da questo Collegio, secondo cui la motivazione della sentenza di appello che riformi la sentenza di primo grado si caratterizza per un obbligo rafforzato , che si aggiunge a quello generale della non apparenza, non manifesta illogicità e non contraddittorietà, evincibile dall'articolo 606, comma 1, lettera e , c.p.p Il giudice di appello, infatti, deve anche confrontarsi in modo specifico e completo con le argomentazioni contenute nella prima sentenza, ricorrendo il vizio di motivazione quando quel confronto manchi su circostanze ed apprezzamenti che hanno concorso in modo determinante a fondare il primo e diverso apprezzamento. Ciò vale, in particolare, nel caso di decisione di prima condanna in grado di appello, laddove risulta censurabile la sentenza di appello, perché disapplica la regola di giudizio secondo la quale l'affermazione di responsabilità è possibile solo quando la colpevolezza risulta al di là di ogni ragionevole dubbio articolo 533, comma 1, c.p.p. , che si limiti a dare una lettura alternativa del medesimo compendio probatorio, senza risultare sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve quindi rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile. In definitiva, quando, immutato il materiale probatorio acquisito al processo, afferma sussistente una responsabilità penale negata nel giudizio di primo grado, il giudice di appello deve confrontarsi espressamente con il principio dell' oltre ogni ragionevole dubbio , non limitandosi pertanto sia pure con motivazione per sé immune dai vizi indicati dall'articolo 606, comma 1, lettera e , c.p.p. ad una rilettura di tale materiale, quindi ad una ricostruzione alternativa, ma spiegando perché, dopo il confronto puntuale con quanto di diverso ritenuto ed argomentato dal giudice che ha assolto, il proprio apprezzamento è l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano caratterizzato il primo giudizio minandone conseguentemente la permanente sostenibilità Sez. VI, 24 gennaio 2013 - 21 febbraio 2013 n. 8705, Farre ed altro . Ritiene, però, il Collegio che la formula assolutoria da adottare sia quella secondo la quale il fatto non costituisce reato e non quella il fatto non sussiste , utilizzata dal giudice di primo grado. Come noto, la formula perché il fatto non sussiste indica la mancanza di uno degli elementi costitutivi di natura oggettiva del reato la condotta, l'evento o il nesso di causalità e prevale su qualsiasi altra la formula perché il fatto non costituisce reato , si caratterizza, invece, perché riconosce la sussistenza della materialità del fatto storico e la sua diretta riferibilità all'imputato, ma nega la punibilità per la mancanza dell'elemento soggettivo oppure per la presenza di una causa di esclusione dell'antigiuridicità v. Sez. Unite, 9 maggio 2008, n. 40049, p.c. in proc. Guerra . Altrettanto note sono le conseguenze derivanti dalle due distinte formule assolutorie, alla luce degli artt. 652 e 653 c.p.p. che connettono alla formula perché il fatto non sussiste più favorevoli effetti nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare. In tal senso è stato ritenuto che sussiste l'interesse dell'imputato all'impugnazione della sentenza di assoluzione, pronunciata con la formula 'perché il fatto non costituisce reato, al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria 'perché il fatto non sussiste, considerato che, a parte le conseguenze di natura morale, l'interesse giuridico risiede nei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 c.p.p., connettono al secondo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare, a fronte degli effetti pregiudizievoli in tali giudizi derivanti dall'adozione della prima formula assolutoria v. da ultimo, Sez. IV, 3 novembre 2011, n. 46849, P.G. in proc. Colantonio, rv. 251150 . Nel caso in esame, ai fini di interesse, si osserva che il Tribunale ha riconosciuto la sussistenza degli elementi costitutivi di natura oggettiva del reato ed ha conclusivamente osservato la mancanza di una prova certa sulla concreta rimproverabilità della condotta alla M. . Si impone, pertanto, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con sostituzione della formula di proscioglimento applicata dal Tribunale nei confronti di M.L. , con quella perché il fatto non costituisce reato , che appare la più conferente rispetto alla motivazione adottata dal primo giudice al caso concreto. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.