Sussiste l’esimente prevista dall’articolo 598 c.p., secondo cui non sono punibili le offese contenute negli scritti e nei discorsi pronunciati davanti alle autorità giudiziarie o amministrative, allorché le espressioni offensive siano contenute in una diffida stragiudiziale prodromica alle successive iniziative legali.
Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza numero 28668, depositata il 6 luglio 2015. Il caso. Il tribunale di Taranto condannava l’imputata M.F, per il reato ex articolo 594 c.p. ingiuria , commesso ai danni dell’avv. N.M. con una missiva a lui indirizzata in essa si preannunciava la presentazione di un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, per valutare la sussistenza di un illecito disciplinare, ove N.M. avesse insistito nel rivendicare pretese di pagamento, ritenute dall’imputata M.F. anch’essa avvocato illegittime. Tale missiva faceva parte di un carteggio intercorso tra l’imputata, che difendeva un condominio, e la persona offesa nell’ambito di una controversia civile intentata dal condominio contro l’ex amministratore e lo stesso avv. N.M., sull’assunto che i due convenuti, d’intesa tra loro, avevano provocato un ingiusto contenzioso ai danni del condominio. L’imputata ricorreva in Cassazione, deducendo che le espressioni contenute nella missiva fossero esercizio dell’attività professionale che stava esercitando nell’interesse del condominio, facendosi portavoce, nella missiva, delle doglianze dei propri assistiti, che stavano alla base della scelta di agire nei confronti dell’amministratore e dell’avvocato. Espressioni contenute in una diffida stragiudiziale. La Corte di Cassazione ricorda che, in tema di diffamazione, sussiste l’esimente prevista dall’articolo 598 c.p., secondo cui non sono punibili le offese contenute negli scritti e nei discorsi pronunciati davanti alle autorità giudiziarie o amministrative, allorché le espressioni offensive siano contenute in una diffida stragiudiziale prodromica alle successive iniziative legali, tra le quali rientra l’instaurazione di un giudizio disciplinare instaurato, a seguito di esposto, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati nei confronti di un iscritto, anche in relazione a fatti estranei all’esercizio della professione, «giudizio che, dunque, deve qualificarsi come “procedimento” ex articolo 598 c.p.». Requisiti dell’esimente. Tale esimente annovera tra i suoi presupposti esclusivamente quello della pertinenzialità di quanto esposto all’oggetto della causa e non certo della sua veridicità, requisito ritenuto dal legislatore incompatibile con l’esercizio del diritto di difesa. Per la configurazione dell’esimente ex articolo 598 c.p., le offese non devono avere una base di veridicità o una particolare continenza espressiva, proprio perché la norma si riferisce espressamente alle offese. Inoltre, non serve che siano in rapporto di giuridica necessità o utilità con l’esercizio del diritto di difesa del soggetto che le ha scritte, bastando che siano in qualche modo collegate con la tesi difensiva della parti in contesa e con l’oggetto della causa, anche se non rispondenti a verità o dettate da motivi personali di risentimento dell’offensore. Non è, invece, applicabile, qualora l’esposizione infedele espressa con la consapevolezza dell’innocenza dell’accusato integri un fatto costitutivo di illecito penale calunnia , essendo, in tal caso, del tutto irrilevante la circostanza di aver agito nell’espletamento di una condotta difensiva. Accusa di patrocinio infedele. In particolare, non ricorre la speciale scriminante prevista nel caso di offese in scritti dinanzi alle autorità giudiziarie, ove un avvocato accusi falsamente un collega di patrocinio infedele, in quanto non si versa in ipotesi di mere offese contenute nell’atto espressione del diritto di difesa tecnica, bensì nell’attribuzione di fatti sicuramente falsi ma, in ipotesi, addirittura rientranti nella fattispecie di calunnia, con conseguente trasformazione della comparsa difensiva da fatto diffamatorio a fatto calunnioso. Nel caso di specie, la missiva inviata all’avv. N.M. aveva l’evidente natura di diffida, non solo in relazione al giudizio disciplinare, ma anche in ordine al giudizio civile, sorto per iniziativa del condominio contro l’amministratore e l’avvocato, cui faceva riferimento l’incipit della lettera. In più, l’accusa di patrocinio infedele non era formulata in modo da attribuire all’avv. N.M. dei fatti sicuramente falsi, ma era soltanto rappresentata come mera ipotesi astrattamente formulabile, mantenendo così il carattere di fatto offensivo, senza trasformarsi in fatto calunnioso. Di conseguenza, la condotta della ricorrente doveva ritenersi scriminata ai sensi dell’articolo 598 c.p. perciò, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso ed annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non costituisce reato, in quanto commesso nell’esercizio di un diritto.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 13 marzo – 6 luglio 2015, numero 28668 Presidente Nappi – Relatore Guardiano Ritenuto in fatto Con sentenza in data 12.11.13 il Giudice di Pace di Termoli, nel procedimento a carico di L.L. , imputato del reato di cui all'articolo 595 CP. “perché, comunicando con più persone offendeva la reputazione di M.A. , insinuando, in particolare, una sua mala fede nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli e segnatamente affermando Riferendosi al predetto, di aver incontrato persone di dubbia onestà e serietà che volevano approfittare di noi attribuendo allo stesso M. un comportamento eticamente discutibile dal momento che egli ha sfruttato la nostra massima professionalità senza assolvere al suo compito con la necessaria diligenza e competenza - In data 2X9.6.2011”. dichiarava non doversi procedere, ai sensi dell'articolo 649 CPP, trattandosi di fatti oggetto di altro procedimento penale. Nella specie si era rilevato, secondo quanto dedotto dalla difesa con documentazione esibita in udienza, che in relazione al medesimo fatto oggetto della querela proposta dalla persona offesa in data 23/9/2011, era stato emesso decreto di archiviazione in data 23.5.2013, dal Giudice di Pace di Vasto. In base a tali elementi il Giudice di Pace aveva ritenuto sussistenti i presupposti della declaratoria di improcedibilità dell'azione penale, ai sensi dell'articolo 129 CPP., in ossequio al principio del ne bis in idem. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il PG presso la Corte di Appello di Campobasso, deducendo la violazione ed erronea applicazione dell'articolo 649 CPP. A sostegno del gravame il Requirente osservava che pur essendo il principio del ne bis in idem interpretato in maniera estensiva, avendo attinenza ai casi nei quali sul medesimo fatto sia intervenuta sentenza o decreto penale irrevocabile, secondo un più recente orientamento giurisprudenziale tale principio trova applicazione nelle ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza in procedimento diverso da quello trattato restando esclusa l'ipotesi della emissione di un decreto di archiviazione. Rileva in diritto Il ricorso risulta privo di fondamento. Premesso che nella specie il fatto contestato risultava già valutato in procedimento per il quale era stata disposta dal Gip l'archiviazione, ed essendo applicabile nel procedimento innanzi al Giudice di Pace l'articolo 414 CPP. che prevede la riapertura delle indagini disposta con decreto motivato dal giudice su richiesta del PM, dopo che sia intervenuto un provvedimento di archiviazione il PM non può compiere nuove indagini sul medesimo fatto, se il giudice non autorizza la loro riapertura Cass. Sez. VI, numero 661 del 15.5.1997 - RV208122 . Sull'argomento è da annoverare il principio sancito dalle Sezioni Unite, secondo cui il difetto di autorizzazione alla riapertura delle indagini determina l'inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dopo il provvedimento di archiviazione e preclude l'esercizio dell'azione penale per lo stesso fatto di reato aggettivamente e soggettivamente consideratola parte del medesimo ufficio del pubblico ministero SU. sentenza numero 33885 del 20.9.2010, RV247834- la Corte ha altresì richiamato la sentenza della Corte Costituzionale, numero 27 del 1995, secondo la quale il provvedimento di archiviazione determina una preclusione processuale, e l'autorizzazione alla riapertura delle indagini funge da condizione di procedibilità , in mancanza della quale il giudice deve dichiarare che l'azione penale non doveva essere iniziata” . Sulla base di tale principio deve ritenersi privo di fondamento il ricorso proposto dal PG, in quanto alla stregua dei richiamati principi deve ritenersi configurabile la preclusione al nuovo giudizio ove sia intervenuto decreto di archiviazione per il medesimo fatto, senza che sia stata richiesta ed autorizzata dal GIP la riapertura delle indagini. Conseguentemente il provvedimento impugnatole si limita a constatare l'intervenuta archiviazione, risulta esente dal vizio di legittimità rilevato dal ricorrente con riferimento all'erronea applicazione dell'articolo 649 CPP. Deve pertanto essere pronunziato il rigetto del ricorso proposto dal PG. P.Q.M. Rigetta il ricorso del PG.