Dal Pakistan all’Italia per non aderire alla ‘jihad’ dei talebani: no allo status di rifugiato

Accoglienza legittima per il giovane studente universitario straniero, ma motivata come protezione sussidiaria, vista la situazione oggettiva di forte violenza nel Paese d’origine. Assolutamente insostenibile la richiesta di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato per motivi politici o religiosi.

Addio obbligato al Pakistan questa l’unica soluzione possibile, per uno studente, per evitare il reclutamento ‘forzato’, da parte dei talebani, nella ‘jihad’. Destinazione della fuga l’Italia. Che accoglie sì il giovane, ma riconoscendogli unicamente la “protezione sussidiaria”, e non quella prevista per il “rifugiato” Cass., sent. numero 12075/2014, Sesta Sezione Civile, depositata oggi . Fuga dalla ‘jihad’. Situazione sicuramente delicata, quella vissuta dal giovane nel Paese d’origine, il Pakistan «i talebani volevano reclutarlo nella ‘jihad’», netto il «suo rifiuto», che, però, «aveva determinato la devastazione del bar gestito da suo padre». Tutto ciò, evidenzia il giovane, senza «alcuna protezione delle istituzioni interne». Di fronte a un quadro così delineato, viene riconosciuto al giovane, una volta in Italia, «il diritto alla protezione sussidiaria», perché «il rientro in Pakistan» lo «esponeva alla minaccia di un danno grave ed individuale, dettata da una situazione oggettiva di forte violenza interna». Ma, viene precisato nella decisione della Corte d’Appello, non vi sono «i requisiti per il rifugio politico», per la semplice ragione che il giovane «si dichiarava politicamente agnostico» e che «nell’episodio narrato non si ravvisava una persecuzione» a sfondo politico o religioso. Rifugiato. Però, ad avviso del giovane, non è sufficiente l’ottenimento della «protezione sussidiaria». Anche perché, una volta messo da parte il lato ‘politico’ della vicenda, resta, sempre secondo il giovane, «il profilo della persecuzione per motivi religiosi». Su questo punto, in particolare, viene evidenziata, col ricorso in Cassazione, «la condizione di violenza e minaccia cui è stato sottoposto» il giovane, «vittima di un vero e proprio attentato alla propria libertà religiosa», essendo egli «stato costretto alla fuga per non aderire alla ‘jihad’». E, viene aggiunto, bisogna tener conto che «la libertà religiosa non deve essere intesa soltanto in senso positivo, ma anche negativo, ovvero come diritto a non subire l’imposizione forzosa di un credo determinato, con minacce, ritorsioni e violenze». Ma questa ricostruzione viene ritenuta non plausibile dai giudici del ‘Palazzaccio’. Detto in maniera chiara, non regge l’ipotesi della «persecuzione religiosa». Ciò perché «il reclutamento coattivo nelle file dei talebani, che agiscono al fine di stabilire un proprio ordine politico, ancorché ispirato a principi religiosi, non costituisce un attacco alla libertà religiosa» del giovane, ma esprime, semplicemente, «l’esigenza di ingrossare le fila di un’organizzazione armata». Assolutamente inesistente, quindi, nella azione dei talebani, l’idea di «imporre una opzione religiosa».

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, sentenza 19 marzo – 29 maggio 2014, numero 12075 Presidente Di Palma – Relatore Acierno Svolgimento del processo e motivi della decisione Con la sentenza impugnata, la Corte d'Appello di Napoli, in riforma della pronuncia del Tribunale, riconosceva a A.R. la protezione sussidiaria. A sostegno della decisione, per quel che ancora interessa ha affermato - Il richiedente ha dichiarato di essere stato costretto a fuggire dal Pakistan Karachi perché i talebani volevano reclutarlo nella Jihad ed il suo rifiuto aveva determinato la devastazione del bar dell'Università, gestito da suo padre, né sussisteva alcuna protezione da parte delle istituzioni interne. - Secondo la Corte, la vicenda cui era stato dato risalto anche dalla stampa locale determinava il diritto al riconoscimento della protezione sussidiaria dal momento che il rientro in Pakistan esponeva il richiedente alla minaccia di un danno grave ed individuale alla sua persona, dettata da una situazione oggettiva di forte violenza interna. - Non sussistevano i requisiti per il rifugio politico dal momento che lo stesso richiedente si dichiarava politicamente agnostico e nell'episodio narrato non si ravvisava una persecuzione per i motivi richiesti dalla legge. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il cittadino straniero affidandosi a due motivi. Il ricorrente ha anche presentato memoria. Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e mancata applicazione degli articolo 2, 7, 8 ed 11 del d.lgs. numero 251 del 2007 degli articolo 8 e 11 del d.lgs. numero 25 del 2008, come modificato dal d.lgs. numero 158 del 2009 per non avere la Corte d'Appello riconosciuto al ricorrente lo status di rifugiato, avendo analizzato esclusivamente il profilo della eventuale sussistenza della persecuzione politica senza esaminare l'altro relativo alla persecuzione per motivi religiosi, cui invece deve essere rapportata la condizione di violenza e minaccia cui è stato sottoposto il cittadino straniero, in quanto vittima di un vero e proprio attentato alla propria libertà religiosa, essendo stato costretto alla fuga per non aderire alla Jihad. La libertà religiosa non deve essere intesa soltanto in senso positivo ma anche negativo, ovvero come diritto a non subire l'imposizione forzosa di un credo determinato, con minacce, ritorsioni e violenze. Nel secondo motivo viene dedotta la violazione e mancata applicazione degli articolo 3,5,7 ed 8 del d.lgs. numero 251 del 2007 degli articolo 8, 27 e 32 del d.lgs. numero 25 del 2008, nonché il vizio di motivazione per non avere la Corte d'Appello attivato i propri poteri istruttori officiosi al fine di verificare la sussistenza di motivi di persecuzione religiosa, dal momento che le minacce e violenze narrate sono ascrivibili ad una matrice terroristico-religiosa. Peraltro la valutazione della vicenda personale dedotta dall'odierno ricorrente è avvenuta sulla base di una motivazione carente e criptica della quale non è possibile desumere l'iter logico argomentativo. I motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente ed essere dichiarati manifestamente infondati. Essi si concentrano sulla natura religiosa della persecuzione subita dal ricorrente nel proprio paese d'origine. Al riguardo deve rilevarsi che le dichiarazioni del cittadino straniero, così come desunte dalla sentenza impugnata e dal ricorso pag. 5 parte narrativa non evidenziano alcun profilo di persecuzione religiosa nella vicenda di violenze e minacce subite dal medesimo. Come esattamente individuato dalla Corte d'Appello prospettano un quadro di pericolo per l'incolumità fisica del ricorrente coerente con le condizioni di riconoscimento della protezione sussidiaria. Il reclutamento coattivo nelle file dei talebani che agiscono, anche mediante attacchi terroristici, al fine di stabilire un proprio ordine politico, ancorché ispirato a principi religiosi, non costituisce, nella vicenda personale del ricorrente, un attacco alla sua libertà religiosa ma evidenzia esclusivamente la volontà di imporre la partecipazione ad una formazione che con metodi non democratici, ambisce a diventare il sistema di potere dominante se non esclusivo nel paese. La pressione violenta sul ricorrente è stata dettata dall'esigenza d'ingrossare le fila di un'organizzazione armata, non d'imporre un'opzione religiosa, in contrasto con quella del ricorrente, né il suo rifiuto è apparso alla luce delle dichiarazioni, ritenute incensurabilmente credibili, motivato da ragioni religiose. Come da lui stesso evidenziato, il suo reclutamento in quanto studente piuttosto conosciuto, avrebbe determinato effetti positivi anche su altri studenti. Il suo rifiuto è stato stigmatizzato con pratiche violente non contrastate dalle istituzioni statali, in modo da determinare una situazione di grave pericolo per l'incolumità fisica del cittadino straniero. Non sussiste, pertanto, al dedotta carenza d'informazioni officiose dedotta nel secondo motivo del ricorso, dal momento che l'assenza di persecuzioni religiose non è stata dettata da un deficit probatorio ma da una alternativa configurazione giuridica dei fatti. Deve osservarsi, infine che l'insussistenza di motivi di persecuzione politica, posti a base della decisione impugnata, non sono stati censurati nel presente ricorso. Il dedotto vizio di motivazione in quanto non prospettato alla luce della nuova formulazione dell'articolo 360 numero 5 cod. proc. civ., applicabile a tutte le impugnazioni di provvedimenti emessi dopo il giorno 11 settembre 2012, deve ritenersi inammissibile. In conclusione il ricorso deve essere respinto. P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso.