Il dipendente Jolly non è sempre qualificato come lavoratore subordinato

L’attività lavorativa di un dipendente che svolga mansioni varie, non sempre configura il lavoro come subordinato.

A stabilirlo è la Cassazione nella sentenza n. 4453 del 25 febbraio 2014. Il fatto. La madre di un lavoratore dipendente di un Calzaturificio presenta domanda per il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità presentata all’INPS. Il Tribunale rigetta la richiesta della donna, in quanto il figlio svolgeva in azienda attività di jolly” con compiti i parte riconducibili allo svolgimento di mansioni lavorative, in parte riconducibili a veri e propri atti di gestione aziendale, essendo lui stesso socio del Calzaturificio perché figlio del proprietario. Si trattava in sostanza di attività che non erano, a parere del giudice, idonee ad accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro. Conseguentemente ricorre in Cassazione la donna, lamentando che l’attività esercitata dal figlio fosse stata svolta a titolo di lavoro subordinato. Elementi che escludono l’esistenza di un lavoro subordinato. Gli Ermellini analizzano la fattispecie, e rigettano il ricorso perché infondato, accogliendo invece le conclusioni del giudice di merito. In primo luogo perché la circostanza che il dipendente era presente in azienda non giustificava di per sé la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, essendo lui stesso socio del Calzaturificio. In secondo luogo perché i compensi percepiti dal dipendente non apparivano configurabili come un retribuzione di lavoro dipendente, si trattava infatti, di un’attribuzione fissa mensile cui non veniva aggiunto quanto in astratto spettante per gli straordinari che lo stesso faceva abitualmente , sembrava invece, una sorta di anticipazione degli utili spettanti come socio, anche se con cadenza mensile. Necessità di accertare la natura subordinata del rapporto. Infine la Corte conclude rifacendosi ad un pregresso orientamento, secondo cui, anche se non sussiste incompatibilità tra la qualità di socio e quella di lavoratore dipendente, l’esistenza di un rapporto di lavoro va sempre accertata in concreto. Difatti nel caso in esame nessuno dei dipendenti sentiti in sede ispettiva aveva offerto elementi chiari ed univoci idonei ad accertare la natura subordinata del rapporto, non bastando neanche la prova sulla funzionalità di un dipendente come jolly in ragione dei tanti lavori espletati.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 novembre 2013 – 25 febbraio 2014, n. 4453 Presidente Stile – Relatore Bronzini Svolgimento del processo La Corte di appello di Firenze rigettava con sentenza del 20.11.2007 l'appello proposto da L.M.R. in proprio e quale esercente la potestà sui minori M.C. e M.I. , avverso la sentenza del Tribunale di Pistoia del 28.4.2004 con la quale era stata rigettava la domanda di riconoscimento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra M.A. dante causa delle appellanti e il Calzaturificio Marconi, accertamento finalizzato all'accoglimento della domanda di pensione di reversibilità presentata all'INPS. Thema decidendum della presente controversia è stabilire se il M. che, era socio della società Calzaturificio Marconi s.r.l., fosse anche lavoratore dipendente, tesi già esclusa dal Giudice di prime cure. La Corte territoriale ricordava che, secondo la giurisprudenza di legittimità, non sussiste incompatibilità in via astratta tra la qualità di socio anche di una società di capitali e quella di lavoratore subordinato, ma che l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato va sempre accertata in concreto, segnatamente nell'ipotesi in cui il capitale sociale sia ripartito per quote all'interno del medesimo nucleo familiare. Nel caso in esame il teste Dami aveva dichiarato che il M.A. svolgeva attività di jolly con compiti riconducigli in parte allo svolgimento di mansioni lavorative in parte riconducibili a veri e propri atti di gestione aziendale p.es. i rapporti con i terzisti ed i fornitori . Il M. non rispettava i limiti massimi dell'orario di lavoro poiché rimaneva oltre tali limiti e non percepiva, oltre un compenso fisso mensile, alcuna maggiorazione per il lavoro straordinario, né gli veniva corrisposto alcun compenso derivante da istituti contrattuali aggiuntivo alla quota mensile. L'emolumento corrisposto pertanto si avvicinava ad un compenso erogato a tutolo di anticipazione degli utili in proporzione alla quota societaria. Nessuno dei dipendenti sentiti in sede ispettiva aveva offerto elementi chiari ed univoci idonei ad accertare la natura subordinata del rapporto. Le direttive erano si impartite dagli altri titolari di quote societarie i fratelli ed il padre ma questo elemento non dimostrava un'ingerenza obbligatoria nella fase gestionale del rapporto collaborativo. Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la L.M.R. con tre motivi. Resiste l'INPS con controricorso. La L. ha depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 2094 c.c. e 2697 c.c Era emerso dalla prova che il M.A. svolgeva attività lavorativa onerosa all'interno dei locali dell'azienda con materiali ed attrezzature proprie della stessa. Si doveva presumere che tale attività fosse stata svolta a titolo di lavoro subordinato. Il motivo appare infondato la Corte territoriale è infatti partita dal dato certo ed inconfutabile costituito dall'essere stato il M.A. un socio di una società con capitale distribuito in quote tra familiari padre e fratelli , il che appare una circostanza di per sé idonea a giustificare la presenza del M. nei locali aziendali. Ha poi anche valutato i compensi che venivano corrisposti per tale presenza ed ha osservato che tali compensi non apparivano configurabili come una retribuzione da lavoro dipendente poiché si trattava di un'attribuzione fissa mensile cui non veniva aggiunto quanto in astratto spettante per il lavoro oltre l'orario normale che il M. effettuava di norma ed altri emolumenti di tipo contrattuale e quindi ha giudicato che quel compenso fosse l'anticipazione degli utili spettanti come socio, anche se con cadenza mensile. Peraltro l'attività svolta non presentava le caratteristiche tipiche del rapporto contrattuale di cui all'art. 2094 c.c., posto che in gran parte si sostanziava in compiti di gestione e che le direttive dei parenti non si concretavano in un potere di ingerenza e di etero-direzione puntuale della prestazione, come avviene all'interno dell'istituto della subordinazione. Del resto è anche emerso che il M. faceva il jolly e cioè svolgeva un'attività in gran parte libera e rimessa a valutazioni proprie i testi sentiti in sede ispettiva non avevano offerto alcun elemento utile per inquadrare come dipendente l'operato del M. . Il motivo parte da una giurisprudenza di legittimità che appare non applicabile meccanicamente alla fattispecie posto che nel caso in esame non si può presumere che l'attività svolta in azienda sia stata a titolo di lavoro subordinato, posto che il M.A. era un socio e che proprio ciò di cui si discute è la natura onerosa della prestazione, visto che la Corte territoriale ha in sostanza accertato che il compenso fisso era un'anticipazione degli utili spettanti. Va anche ricordato che la qualificazione di un rapporto lavorativo come di lavoro subordinato o meno spetta al Giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità ove sia sorretta da congrua motivazione, che certamente sussiste nel caso della sentenza impugnata che ha ricostruito in modo esauriente ed analitico gli elementi processuali emersi in giudizio e li ha valutati in modo razionale e logicamente coerente. Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di norma di diritto in relazione all'art. 2697 c.c. e all'art. 421 secondo comma e 437 secondo comma c.p.c Il Giudice di prime cure e di appello avrebbero dovuto esercitare i poteri istruttori di ufficio nel caso di dubbi posto che comunque erano emersi elementi che militavano per il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato. Il motivo appare infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte che si condivide pienamente secondo la quale nel rito del lavoro, il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull'onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori Cass. n. 6023/2009 Cass. n. 14731 . Nel caso in esame non è stato neppure dedotto che sia mai stata richiesta l'attivazione dei poteri ex art. 421 c.p.c. o ex art. 437 c.p.c Con l'ultimo motivo si allega l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio sotto ulteriore profilo. Il termine jolly indica nella contrattazione collettiva uno specifico compito il M.A. percepiva una retribuzione superiore a quella ordinaria di altri lavoratori che ricomprendeva, quindi, anche lo straordinario il M.A. era destinatario di direttive dei parenti. Il compenso percepito non poteva essere in conto utili che invece venivano distribuiti ex art. 9 dello Statuto della società solo dopo l'approvazione del rendiconto. Il motivo appare inammissibile per una duplice ragione in primis non si è formulato il cosidetto quesito riassuntivo ex art. 366 bis c.p.c. previsto a pena di inammissibilità. Inoltre si muovono una serie di censure di fatto, inammissibili in questa sede, posto che la ricostruzione offerta della vicenda e del materiale probatorio - come detto - appare congrua e logicamente coerente. La Corte di appello ha adeguatamente giustificato in relazione alle prove emerse per quali ragioni è stata esclusa l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Lo Statuto della società peraltro non è stato neppure prodotto, né si è indicato in quale incarto processuale lo steso sia eventualmente reperibile in ogni caso l'esistenza di una previsione statutaria di per sé non prova che i soci della società si fossero accordati diversamente. Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Stante la complessità fattuale della vicenda sussistono giusti motivi per compensare le spese tra la ricorrente e l'INPS nulla spese nei confronti delle alte parti non costituite. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese nei confronti delle parti non costituite compensa le spese del giudizio di legittimità nei confronti dell'INPS.