Il Presidente ha firmato in conflitto di interessi: il contratto non vincola la società

E’ invalido il pre contratto di lavoro subordinato dirigenziale sottoscritto dal Presidente del C.d.A., qualora tale potere non rientri tra quelli a lui attribuiti dallo stesso Consiglio o dallo statuto ed a condizione che il lavoratore terzo non ignori tale difetto di poteri.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 22072 del 26 settembre 2013. Il caso . La Corte di Appello di Brescia, riformando la pronuncia di primo grado, rigettava la domanda con cui l’ ex amministratore delegato di una società chiedeva la costituzione di un rapporto di lavoro dirigenziale con quest’ultima, sulla base di una lettera di impegno all’assunzione sottoscritta dal Presidente del C.d.A. A sostegno della decisione, i Giudici di appello rilevavano come, all’epoca della sottoscrizione, l’incarico di Presidente fosse ricoperto dalla madre del ricorrente, la quale non aveva i poteri necessari per vincolare la società ad un tale impegno. Alla luce di ciò l’opponibilità dell’atto non poteva estendersi all’amministratore delegato , il quale non poteva considerarsi terzo rispetto alla società bensì con la stessa in conflitto di interessi. Peraltro, concludevano i Giudici, il ricorrente era a conoscenza sia della carenza di poteri della madre che dell’esistenza di tale conflitto, con l’effetto che questi non poteva considerarsi in buona fede. Risultava quindi irrilevante che egli avesse o meno indotto la madre - con frode – ad assumere l’impegno, poiché l’art. 2384 c.c. non attribuisce alcun rilievo allo stato soggettivo di colui che agisce in carenza di potere. Non poteva pertanto desumersi, dall’assenza di frode, l’assenza di intenzionalità della condotta per ottenere un risultato dannoso per la società. Contro tale sentenza, il lavoratore ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando due motivi. L’exceptio doli non coincide con l’intenzione di arrecare un danno. Con un primo motivo, il ricorrente lamentava come i Giudici di merito avessero accolto un’eccezione exceptio doli formulata dalla società soltanto nell’atto di appello, atteso che nel primo grado si era limitata a segnalare solo la malafede del ricorrente, senza valorizzare l’intenzione di recare un danno alla società. Motivo che non viene condiviso dalla Corte atteso che la deduzione della oggettiva dannosità di un negozio non equivale a sollevare l’ exceptio doli , che ha riguardo solo al dolo posto in essere al tempo della conclusione dell’atto ed è diretta a far valere l’esistenza di raggiri impiegati per indurre un soggetto a porre in essere un determinato negozio . L’eccezione in esame, precisa la Corte richiamando un suo precedente, non comporta l’invalidità del contratto bensì la sola responsabilità del contraente in mala fede per i danni cagionati dal suo comportamento Cass. n. 21265/2007 . Le eccezioni c.d. improprie si possono formulare in qualunque grado del giudizio . Sotto altro profilo, prosegue la Cassazione, il divieto di formulare nuove eccezioni opera solo per i fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto posto a fondamento della domanda e non anche per le c.d. eccezioni improprie, ossia quelle argomentazioni che valgono a qualificare giuridicamente un fatto, atteso che questa operazione può sempre essere compiuta autonomamente dal Giudice in virtù del principio iura novit curia . Le eccezioni sono nuove solo se richiedano una nuova indagine . Richiamando altri suoi precedenti, la Corte chiarisce dunque che possono considerarsi nuove, e dunque vietate dall’art. 437 c.p.c., solo le eccezioni c.d. in senso stretto , ossia quelle che introducono in giudizio un nuovo thema decidendum ed un nuovo accertamento di fatto Cass. n. 12706/2012 . Nel caso di specie, la Corte di Appello aveva correttamente evidenziato come il ricorrente, nella stipulazione del contratto preliminare, non potesse essere considerato in buona fede ed anzi, sulla base di una compiuta disamina degli elementi di fatto, aveva ritenuto che il suo comportamento fosse caratterizzato da intenzionalità e consapevolezza di agire in danno alla società. La Cassazione non è un giudice di merito . Con un ulteriore motivo il ricorrente lamentava come la pretesa consapevolezza di recare un danno alla società non potesse essere desunta dal semplice raffronto tra il compenso percepito quale amministratore delegato e quello pattuito per l’incarico dirigenziale, atteso che tale valutazione doveva avere carattere generale e non essere limitata ad alcuni aspetti isolati dell’atto negoziale. Motivo che non viene preso in considerazione dalla Cassazione in quanto, a suo avviso, teso ad un riesame delle valutazioni formulate dal Giudice di merito. Ed infatti, conclude la Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità [ ] non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito Cass. n. 4842/2006 .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 giugno - 26 settembre 2013, n. 22072 Presidente Roselli – Relatore Arienzo Svolgimento del processo Con sentenza del 12.8.2010, la Corte di Appello di Brescia accoglieva il gravame proposto dalle Fonderie Pilenga Baldassarre & amp e. s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Bergamo che aveva accolto la domanda di P P. , ex amministratore delegato della società, intesa ad ottenere la costituzione, ex art. 2932 c.c., di un rapporto di lavoro con la stessa società, con qualifica di dirigente e mansioni di responsabile tecnico e commerciale a fronte di un compenso di Euro 8000,00 nette per tredici mensilità ed uso gratuito dell'auto aziendale, con decorrenza dall'1.1.2006, avendo ritenuto valida e vincolante per la società la scrittura privata in data 30.10.2003 con la quale il Presidente del Consiglio di amministrazione si era assunto l'obbligo di fare assumere il ricorrente con contratto di lavoro subordinato, qualora gli fosse stato revocato l'incarico di amministratore. Nel disattendere l'impostazione seguita dal primo giudice, la Corte del merito rilevava che P.M.R. , all'epoca della sottoscrizione della scrittura privata, non aveva, quale presidente del consiglio di amministrazione, altro potere che quello di rappresentanza legale, con poteri gestionali quanto ai deliberati degli organi, e di rappresentanza legale, con poteri gestori propri, quanto al trattare con le banche allo scoperto, firmando assegni e girando effetti, trattare con Ufficiali fiscali, firmando anche le relative dichiarazioni . Tali poteri non potevano comprendere, secondo la Corte di Brescia, anche quello di impegnare la società con un contratto preliminare di lavoro subordinato dirigenziale. Mentre il Tribunale aveva ritenuto che la P. non avesse agito in proprio, ma quale rappresentante legale della società e che il contratto fosse opponibile a quest'ultima in forza dell'art. 2384 secondo comma c.c., che P.G. non avesse agito fraudolentemente in danno della società e che il contratto preliminare non fosse dannoso per la stessa, secondo il giudice del gravame l'opponibilità dell'atto, pacificamente compiuto in assenza di poteri, non poteva essere estesa all'amministratore delegato, che non poteva essere considerato terzo rispetto alla società, ma in una posizione di conflitto di interesse. Peraltro, P.P. era a conoscenza della carenza di poteri della madre, sia dell'esistenza di un conflitto di interessi con la società, onde non poteva essere considerato in buona fede e doveva ritenersi irrilevante che egli avesse o meno indotto, con frode, la madre ad assumere l'impegno, non attribuendo l'art. 2384 c.c. rilevanza allo stato soggettivo dell'amministratore che agisse in carenza di potere. Non poteva, pertanto, desumersi dalla assenza di frode l'assenza dell'intenzionalità della condotta per ottenere un risultato dannoso per la società. Era, poi, evidente la consapevolezza della dannosità dell'atto negoziale per la società, come rilevabile anche dalla circostanza che l'impegno assunto nel 2003 era stato azionato nel 2009, quando la maggioranza all'interno della società era mutata ed i conflitti all'interno del consiglio di amministrazione avevano determinato le dimissioni della maggioranza dei consiglieri. Peraltro, il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con qualifica di dirigente, con la retribuzione netta indicata e l'uso di vettura aziendale, era molto più oneroso del contratto di collaborazione a progetto a tempo determinato di sei mesi, con retribuzione di 10000,00 Euro lordi al mese, in essere tra le parti dal 23.12.2004, derivando la maggiore onerosità anche dal diverso trattamento previdenziale, dalla diversa tutela in caso di cessazione del rapporto e dalla decorrenza più risalente del pagamento delle retribuzioni previste per il rapporto di lavoro subordinato. Non potendo applicarsi l'art. 2384, 2 comma, c.c., la scrittura privata del 30.10.2003 e l'impegno negoziale in essa contenuto non potevano essere opposti alla società, in quanto assunti da amministratore senza poteri, della cui mancanza il beneficiario dell'obbligo era perfettamente a conoscenza. Per la cassazione di tale decisione ricorre P P. , con due motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c Resiste, con controricorso, la società, che espone ulteriormente le proprie difese in memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo, P.P. denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 345 e 437 c.p.c., ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., assumendo che la Corte bresciana abbia riformato la sentenza di primo grado accogliendo un'eccezione exceptio doli formulata dalla società soltanto nell'atto di appello, in quanto nel giudizio di primo grado la difesa delle Fonderie si era limitata a segnalare la malafede del P. , e cioè la conoscenza da parte del predetto, dei limiti ai poteri del Presidente del consiglio di amministrazione, ma non aveva sollevato alcuna eccezione volta a far valere l'intenzione di recare un danno alla società. Sostiene che non abbiano rilievo, ai fini considerati, le frasi con le quali le Fonderie in primo grado richiamano l'intenzione dell'ing. P. di recare danno alla società, in quanto si risolvono in una mera ripetizione del testo della norma art. 2384, 2 comma, c.c. e che la exceptio doli è stata sviluppata nell'atto dell'impugnazione con allegazione difensiva diversa da quella sviluppata in primo grado. Con il secondo motivo, il P. lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2384, 2 comma, 2727 e 2729 c.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., contestando, in via subordinata, la ricorrenza di un'ipotesi di stipulazione generatrice di un danno per la società, considerando che la prevista conclusione di un contratto a tempo indeterminato non può ritenersi di per sé sola fonte di un pregiudizio e che, quindi, la motivazione della Corte bresciana è al riguardo insufficiente. La consapevolezza della dannosità non poteva essere desunta dal raffronto tra i due compensi connessi al diverso tipo di prestazione lavorativa e dalle altre circostanze evidenziate ed il ricorrente sostiene che la valutazione della finalità pregiudizievole doveva avere carattere generale e non essere limitata solo ad alcuni aspetti isolati dell'atto negoziale. Non poteva reputarsi esosa la retribuzione fissata nel contratto a fronte dei dati di bilancio della società, trascurandosi la qualità della controprestazione offerta, e la valutazione non poteva limitarsi a considerare soltanto il maggiore onere economico. Andava, pertanto, escluso, secondo il ricorrente, l'accordo fraudolento ed esclusa anche l'intenzionalità, con la conseguenza che l'atto era opponibile alla società. Il ricorso è infondato. Deve essere disattesa la censura volta ad evidenziare la novità della exceptio doli asseritamente sollevata dalla società soltanto in secondo grado, sia perché una delle rationes decidendi , non autonomamente impugnata cfr., in tal senso, Cass. sez. lav., 18.5.2006 n. 11660 Cass. 8.8.2005 n. 16602 Cass. 8.2.2006 n. 2811 , era quella che l'Ing. P. non poteva essere considerato terzo, e quindi non poteva trovare applicazione l'art. 2384, secondo comma, dovendo ritenersi che l'atto fosse invalido in quanto posto in essere da soggetto in conflitto di interessi, sia perché la deduzione della dannosità oggettiva del negozio per la società non equivale a sollevare la exceptio doli . Quest'ultima ha riguardo al dolo posto in essere al tempo della conclusione dell'atto ed è diretta a far valere - in via di azione o eccezione - l'esistenza di raggiri impiegati per indurre un soggetto a porre in essere un determinato negozio, al fine di ottenerne l'annullamento, ovvero a denunziare la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, mantenendo un comportamento assumente rilievo - quale dolo incidente - nel caso in cui l'attività ingannatrice abbia influito su modalità del negozio che la parte non avrebbe accettato se non fosse stata fuorviata dal raggiro, non comportante l'invalidità del contratto, bensì la responsabilità del contraente in mala fede per i danni arrecati dal suo comportamento illecito Cass. 10.10 2007 n. 21265 . Peraltro, la motivazione della sentenza di secondo grado si sviluppa considerando circostanze di fatto già compiutamente evidenziate negli atti introduttivi ed, in particolare, nella memoria di costituzione nel giudizio di primo grado, avuto riguardo al fatto che, secondo il disposto dell'art. 345, comma secondo, c.p.c., il divieto di nuove eccezioni opera solo per i fatti impeditivi, modificativi od estintivi del diritto dedotto a fondamento della pretesa azionata in giudizio e non anche per le c.d. eccezioni improprie, ossia in relazione a quei fatti ed a quelle argomentazioni posti dalle parti a fondamento della domanda che valgono a qualificare giuridicamente un fatto, operazione che poteva essere effettuata liberamente dal giudice sulla base del principio iura novit curia . Detto divieto non può riguardare, invero, i fatti e le argomentazioni posti dalle parti medesime a fondamento della domanda, che costituiscono oggetto di accertamento, esame e valutazione da parte del giudice di secondo grado, il quale, per effetto dell'impugnazione, deve a sua volta pronunciarsi sulla domanda accolta dal primo giudice, riesaminando perciò fatti, allegazioni probatorie e argomentazioni giuridiche che rilevino per la decisione. Al riguardo è stato chiarito da questa Corte come nel procedimento di appello in materia di lavoro, le eccezioni nuove, vietate dall'art. 437 cod. proc. civ., sono le eccezioni in senso stretto, che introducono in giudizio un nuovo thema decidendum e un nuovo accertamento di fatto v., tra le altre, Cass. 20.7.2012 n. 12706 . Non è questo il caso verificatosi nella specie, in cui la dannosità dell'atto e l'intenzionalità del comportamento del P. , in relazione alle previsioni di cui all'art. 2384, secondo comma c.c., avevano costituito oggetto di valutazione da parte del primo giudice secondo considerazioni disattese dal punto di vista argomentativo in fatto dal giudice del gravame, che aveva ritenuto inopponibile l'atto alla società. Peraltro, la dissociazione tra soggetto destinatario della promessa di assunzione e soggetto amministratore delegato della società è stata evidenziata nel suo valore strumentale rispetto alla elusione delle norme che vietano decisioni e delibere in conflitto di interesse e, comunque, anche ove il P. fosse stato considerato terzo, il giudice del gravame ha evidenziato che doveva escludersene la buona fede ed anzi ritenersi che, in base ad una compiuta vantazione degli elementi in fatto e diritto, il comportamento del predetto fosse stato caratterizzato da intenzionalità e consapevolezza di agire in danno della società. In ordine al secondo motivo di censura, le doglianze, per come prospettate, attengono nella sostanza non tanto alla denunziata violazione di norme di legge, quanto al profilo del pure denunziato vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, c.p.c., considerando che rientra nei compiti del giudice di merito il giudizio circa l'opportunità di fondare la decisione sulla prova per presunzioni e circa l'idoneità degli stessi elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il principio dell' id quod plerumque accidit , essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata, immune da vizi logici o giuridici, ed, in particolare, ispirato al principio secondo il quale i requisiti della precisione, gravità e concordanza imposti dall'art. 2729 cod. civ. devono essere ricercati in relazione al complesso degli indizi, sottoposti a valutazione globale, e non con riferimento singolo a ciascuno di essi, pur senza omettere un siffatto apprezzamento preventivo, al solo fine di vagliare la rilevanza di ciascun indizio e di individuare quelli ritenuti significativi e perciò da ricomprendere nella suddetta valutazione globale cfr. Cass. 27.8.1999 n. 9015 e, più recentemente, Cass.5.12.2011 n. 26022 . Va, poi, sottolineato che il vizio dedotto si configura solamente quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione in particolare cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803 . Tale vizio non consiste invero nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito v. Cass., 14/3/2006, n. 5443 Cass., 20/10/2005, n. 20322 . La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce, infatti, al giudice di legittimità non già, come evidentemente suppone l'odierna ricorrente, il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare salvo i casi tassativamente previsti dalla legge prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti v., da ultimo v. Cass., 7/3/2006, n. 4842 Cass., 20/10/2005, n. 20322 v. Cass., 27/4/2005, n. 8718 Cass., 25 /2/2004, n. 3803 . Nella specie, il ricorrente si limita a dedurre la mancanza di dannosità dell'atto e della intenzionalità del comportamento del suo autore nella prospettiva che il costo aggiuntivo determinato dall'assunzione a tempo indeterminato dell'ing. P. avrebbe avuto incidenza del tutto marginale sulla voce dei costi del produzione del personale, ovvero che la retribuzione era stabilita in ragione di una prestazione altamente qualificata, o, ancora, che l'indicazione della data del 1 settembre 2003 quale decorrenza del riconoscimento degli arretrati non era idonea a cagionare alcun danno alla società, poiché il riconoscimento degli arretrati stessi era impedito dall'incompatibilità tra il contratto di consulenza che legava il P. alla società ed il futuro rapporto di lavoro da dirigente oggetto del contratto preliminare. Sostiene preliminarmente anche che la Corte avrebbe ritenuto il carattere dannoso dell'atto negoziale prescindendo dalla valutazione delle convenienza, opportunità e sostenibilità economica dell'atto medesimo, laddove altro era il senso di quanto asserito dal giudice del gravame in relazione al rilevo decisivo dell'assunzione di un impegno negoziale senza che potesse valutarsi con carattere di attualità, in base ai nuovi assetti societari connessi al mutamento del controllo sul pacchetto azionario della società, la convenienza, l'opportunità e la sostenibilità economica dell'operazione. La censura, tuttavia, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti in relazione ai sopra indicati profili, si limita a prospettare assunti che, oltre a risultare formulati secondo un modello difforme da quello delineato all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, si risolvono in realtà nella mera doglianza circa l'asseritamente erronea attribuzione da parte della Corte di merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative v. Cass., 20/10/2005, n. 20322 , e nell'inammissibile pretesa di una lettura delle risultanze di causa diversa da quella nel caso operata da tale giudice cfr., da ultimo, Cass. 18.3.2011 n. 6288, Cass. 23.12.2009 n. 271629, Cass., 18/4/2006, n. 8932 . Emerge pertanto come, invece di censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell'art. 360 c.p.c., la ricorrente in realtà ad altro non mira se non a sollecitare, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi cfr. Cass., 31/5/2006, n. 12984 Cass., 14/3/2006, n. 5443 . Le esposte considerazioni conducono al rigetto del ricorso. Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza del P. e si liquidano nella misura di cui al dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.