Scenario dell’episodio un tribunale meridionale, dove si scontrano magistrato e avvocato, per giunta parenti. Le parole incriminate vengono valutate come un’offesa grave, perché mettono in discussione quelle che, volenti o nolenti, costituiscono caratteristiche riconosciute dell’uomo. A rendere ancora più evidente il pericolo di lesione della reputazione il contesto lavorativo e il possibile ascolto da parte di terze persone.
Cambia la società, i rapporti uomo-donna sono sempre più paritari – anche se restano ancora passi da compiere –, ma le caratteristiche fondamentali della figura del vir non mutano, come quelle della forza – fisica e mentale – e della determinazione. Ecco perché utilizzare la frase «Non hai le palle» costituisce presupposto sufficiente per l’accusa di ingiuria Cassazione, sentenza numero 30719/12, quinta sezione penale, depositata oggi . Saloonumero giudiziario. Scenario è un tribunale meridionale, protagonisti un magistrato e un avvocato, che, per giunta, sono parenti il primo apostrofa malamente il secondo, «Non hai le palle», dice, e il tono non è certamente ironico Frase ingiuriosa? Dipende perché il Tribunale, riformando la pronunzia del Giudice di pace, assolve il magistrato, chiarendo che «manca un’effettiva carica offensiva», anche tenendo presente che l’espressione utilizzata è «inquadrabile nell’ambito di una contesa familiare». Virtus hominis. Durissima è la contestazione della pronuncia, da parte dell’avvocato. Quest’ultimo, tramite il proprio legale che lo rappresenta in Cassazione, sottolinea la valenza negativa della frase che gli era stata rivolta, frase che «consiste nell’affermazione che il destinatario vale meno degli altri uomini». E ad aggravare la situazione, sempre secondo l’avvocato, il fatto che tale frase sia stata pronunziata «in ambiente di lavoro». Evidente, quindi, il nodo da sciogliere, ossia il valore, anzi il disvalore, sociale da riconoscere alle parole rivolte dal magistrato all’avvocato. Ebbene, a questo proposito, non conta tanto la «volgarità» dell’espressione, ma soprattutto la «valenza ingiuriosa» essa, difatti, è finalizzata, secondo i giudici, ad «insinuare la mancanza di virilità, la debolezza di carattere, la mancanza di determinazione, di competenza e di coerenza», tutte virtù che, sottolineano i giudici, «a torto o a ragione, continuano ad essere individuate come connotative del genere maschile». A rendere più chiaro il quadro, poi, anche il contesto lavorativo, ossia l’«ufficio giudiziario», e il fatto che «la frase fu pronunziata a voce alta ed era udibile anche da terze persone». Evidente, quindi, il «pericolo di lesione della reputazione», che non può essere «aprioristicamente escluso», concludono i giudici – riaffidando la questione al giudice civile competente per valore in appello –, sulla base di una presunta «volgarizzazione» del linguaggio moderno.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 26 giugno – 26 luglio 2012, numero 30719 Presidente Teresi – Relatore Fumo Rilevato in fatto 1. Il tribunale di Potenza, in riforma della sentenza del giudice di pace della stessa città, ha assolto G.A. dal delitto di cui all’articolo 594 cp per aver rivolto al cugino G.V., nel tribunale di Taranto, la frase “non hai le palle”. Secondo i giudici di appello, certa essendo la materialità dell’episodio, manca un’effettiva carica offensiva alla espressione utilizzata dall’imputato, perché inquadrabile nell’ambito di una contesa familiare. Di qui la formula assolutoria “il fatto non sussiste”. 2. Ricorre per cassazione il difensore della parte civile e deduce illogicità della motivazione. Il tribunale, citando giurisprudenza non in termini, ha ritenuto non offensiva la grave espressione adoperata. Ebbene la giurisprudenza citata è relativa a diversa frase “non rompere le palle” , frase che, nel caso allora in esame, era equivalente ad un invito a non intralciare la condotta di chi la pronunziò, a lasciarlo proseguire nella sua opera, a non frapporsi alla stessa. Nel caso, viceversa, oggi in esame, la frase sta a significare “non hai gli attributi”, vale a dire che essa consiste consiste nell’affermazione che il destinatario vale meno degli altri uomini. L’espressione è ancora più grave perché pronunziata in ambiente di lavoro. 3. E’ stata depositata nota dal difensore dell’imputato, con la quale si assume l’inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. La sentenza impugnata va annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. 2. In tema di delitti contro l’onore, il giudice di legittimità può e deve apprezzare se il decidente di merito abbia assunto la corretta determinazione con riferimento al valore sociale delle espressioni utilizzate. Orbene, la giurisprudenza citata nella sentenza impugnata non è pertinente essa invero si riferisce all’utilizzo di espressione volgare, ma non necessariamente offensiva nei confronti del destinatario. Nel caso in esame, viceversa, a parte la volgarità dei termini utilizzati, l’espressione ha una evidente e obiettiva valenza ingiuriosa, atteso che con essa si vuole insinuare non solo, e non tanto, la mancanza di virilità del destinatario, ma la sua debolezza di carattere, la mancanza di determinazione, di competenza e di coerenza, virtù che, a torto o a ragione, continuano ad essere individuate come connotative del genere maschile. 2.1. L’inutile digressione sulla causale dell’insulto nulla può aggiungere alle obiettiva valenza dello stesso. Manca viceversa qualsiasi considerazione circa il luogo nel quale si svolsero i fatti e dei ruoli che in detto ambiente rivestivano i protagonisti. Invero, per quanto si apprende, l’imputato era giudice di pace in Brindisi e la persone offesa è un avvocato. La frase fu pronunziata in contesto lavorativo ufficio giudiziario , a voce altra ed era udibile anche da terze persone. In tali circostanze il pericolo di lesione della reputazione di G.V. non poteva essere aprioristicamente escluso sulla base una pretesa “evoluzione” del linguaggio e volgarizzazione delle modalità espressive. P.Q.M. annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.