Il tentativo obbligatorio di conciliazione interrompe la prescrizione se comunicato alla controparte

Infatti, ai sensi dell’art. 410 c.p.c. la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.

Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 16452 del 1° luglio 2013. La vicenda. La fattispecie al centro della controversia in esame riguardava la domanda di risarcimento avanzata da un soggetto il quale lamentava di avere subito danni in occasione di un infortunio sul lavoro presso l’azienda. Tale istanza era accolta dal Tribunale e confermata dalla sentenza del giudice di seconde cure. Il danneggiato sosteneva che il termine di prescrizione quinquennale fosse stato interrotto dalla notifica del primo ricorso introduttivo del giudizio del novembre 1999, nonché con la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione rivolta anche all’appellante prima della scadenza del quinquennio. Aggiungeva, inoltre, che il datore di lavoro aveva violato le prescrizioni prevista dall’art. 33 D.Lgs. n. 626/1994 in materia di collocazione e segnalazione delle vie di circolazione dei pedoni e dei veicoli, in quanto non si poteva considerare certo imprevedibile la condotta tenuta dall’attore. La società ricorre quindi davanti alla Cassazione, imperniando il proprio ricorso, basilarmente sulla denuncia dell’avvenuta prescrizione dell’azione, sottolineando che il primo ricorso era stato notificato ad una società diversa e che anche la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione fosse stato inviato alla Direzione Provinciale del Lavoro competente e ad altro ente. Il quadro normativo . Al fine di meglio comprendere la controversia in esame occorre ricordare che l’art. 410, nel disciplinare il tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, afferma che chi intende propone in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'art. 409 può promuovere un previo tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo i criteri stabiliti dalla disposizione di cui all'art. 413. Nel caso oggetto della sentenza in commento rileva soprattutto il secondo comma, il quale recita che La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza . Il tentativo obbligatorio di conciliazione ora abrogato . Giova, infatti, osservare, in proposito, che con l’entrata in vigore della Legge 4 novembre 2010, n. 183 , che ha modificato l’art. 410 c.p.c., a far data dal 24 novembre 2010, chi intende proporre un’azione in giudizio non è più obbligato a promuovere un previo tentativo di conciliazione. L’obbligo permane esclusivamentequalora la controversia riguardi contratti certificati dalle apposite commissioni chi intende impugnare dinnanzi al giudice del lavoro un contratto certificato deve preventivamente esperire il tentativo di conciliazione presso la commissione che ha emesso l'atto di certificazione. Alla facoltatività del tentativo di conciliazione si accompagna un ampliamento delle possibili forme e procedure conciliative. Inoltre, la legge 92/ 2012 di riforma del mercato del lavoro ha introdotto una nuova forma di conciliazione che deve essere esperita nelle sole ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo da un datore di lavoro cui si applichi la disciplina di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori . Quindi, in linea generale, il tentativo di conciliazione è meramente facoltativo e non costituisce più una condizione di procedibilità della domanda la legge n. 183/2010 ha abrogato, con l’art. 31 comma 9 anche gli artt. 65 e 66 che disciplinavano il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni . Le condizioni di procedibilità non possono essere interpretate in senso estensivo. Tuttavia la disciplina applicabile ratione temporis alla fattispecie oggetto della sentenza in commento non è stata oggetto di riforma. Pertanto, deve aversi riguardo al testo dell’art. 410 c.c. ancora disciplinante il tentativo di conciliazione.In forza di tale disposizione, come detto la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Al pari, deve ritenersi applicabile l’art. 412-bis c.c., ai sensi del quale L'espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda. L'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all'art. 416 e può essere rilevata d'ufficio dal giudice non oltre l'udienza di cui all'art. 420 . La Suprema Corte afferma in proposito che le disposizioni, come la suddetta norma, che prevedono condizioni di procedibilità non possono essere interpretate in senso estensivo, in quanto costituiscono una deroga all’esercizio del diritto di agire in giudizio, assicurato e tutelato dall’art. 24 Cost Per espletare il tentativo di conciliazione basta la presentazione della richiesta. Di conseguenza ai fini dell’espletamento del tentativo di conciliazione che integra, ratione temporis , condizione di procedibilità della domanda, risulta idonea la presentazione della richiesta all’organo istituito presso le Direzioni Provinciali del Lavoro, dovendosi comunque considerarsi espletato il tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, indipendentemente dalla comunicazione della richiesta medesima alla controparte. Invero, in forza a quanto disposto dall’art. 410-bis c.c. ora al pari abrogato Il tentativo di conciliazione, anche se nelle forme previste dai contrattie accordi collettivi, deve essere espletato entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta. Trascorso inutilmente tale termine, il tentativo di conciliazione si considera comunque espletato ai fini dell'art. 412-bis . Infatti, una precedente decisione della giurisprudenza di legittimità si veda in proposito Cass. n. 967/2004 aveva già affermato che ai fini dell'espletamento del tentativo di conciliazione, il quale ai sensi dell'art. 412 c.p.c. costituisce condizione di procedibilità della domanda, sia sufficiente, in base a quanto disposto dall'art. 410 bis c.p.c., la presentazione della richiesta all'organo istituito presso le Direzioni provinciali del lavoro, considerandosi comunque espletato il tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, a prescindere dall'avvenuta comunicazione della richiesta stessa alla controparte. Tale comunicazione è invece necessaria, ai sensi dell'art. 410, comma 2, c.p.c., perché si verifichi la interruzione della prescrizione e la sospensione, per il periodo ivi indicato, di ogni termine di decadenza . Ai fini della prescrizione vale la comunicazione al datore di lavoro . Per quanto attiene più specificamente la prescrizione, la Suprema Corte evidenzia la natura ricettizia degli atti interruttivi della prescrizione. Ora, il comma 4 dell'art. 7, legge n. 604/1966 - che disponeva la sospensione del termine di sessanta giorni, di cui all'art. 6, dal giorno della richiesta del tentativo di conciliazione all'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione fino fra l'altro alla data del verbale di fallimento del detto tentativo - è stato sicuramente abrogato a seguito della nuova formulazione dell'art. 410 c.p.c., come operata con i d.lgs. n. 80/1998 art. 36 e n. 387/1998 art. 19 . In particolare, il comma 2 dell'attuale art. 410 dispone che la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Pertanto, considerato che il legislatore parla di interruzione e non di sospensione della prescrizione, deve ritenersi che la comunicazione che interrompe la prescrizione e sospende il decorso di ogni termine di decadenza è quella fatta al datore di lavoro. Il tentativo obbligatorio di conciliazione comunicato alla controparte datore di lavoro interrompe la prescrizione. In conclusione, applicando i suddetti principi al caso oggetto della sentenza della Suprema Corte, si osserva come la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione fosse stata inviata sia alla Direzione Provinciale del Lavoro, sia alla medesima società appellante, ben prima della scadenza ei cinque anni. Poiché deve ritenersi che la comunicazione che interrompe la prescrizione e sospende il decorso di ogni termine di decadenza è quella fatta al datore di lavoro, pertanto, il tentativo obbligatorio di conciliazione comunicato alla società controparte interrompe la prescrizione dell’azione di risarcimento danni.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 maggio – 1° luglio 20113, n. 16452 Presidente Canevari – Relatore Arienzo Svolgimento del processo Con sentenza del 14.11.2009, la Corte di Appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame della società PAC Diviteliseo di Rita Di Vito & amp C s.n.c. ed in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Latina, liquidava le spese di lite del primo grado nella minor somma di Euro 4500,00, di cui Euro 2250,00 per onorari, confermando nel resto la pronunzia di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da F.S. volta al risarcimento dei danni subiti in occasione di un infortunio sul lavoro occorsole il 26.9.1998 presso l'azienda, ove era stata investita da un muletto. Rilevava che il termine di prescrizione quinquennale era stato interrotto dalla notifica del primo ricorso introduttivo del giudizio del 26.11.1999 e con la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione indirizzata anche all'appellante prima della scadenza del quinquennio e che il datore di lavoro aveva violato le prescrizioni poste dall'art. 33 d. lgs. 626/94 in materia di collocazione e segnalazione delle vie di circolazione dei pedoni e dei veicoli, non potendosi considerare imprevedibile ed abnorme la condotta dalla F. . Non vi era stata, poi, specifica contestazione delle voci di danno liquidate, sicché la determinazione quantitativa di quest'ultimo andava confermata. Per la cassazione della decisione ricorre la società, affidando l'impugnazione a quattro motivi. La F. ha rilasciato procura speciale per la sola discussione orale. Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso, la società denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 2943 c.c., ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., evidenziando che il primo ricorso era stato notificato, in data 26.11.1999, ad ente societario diverso e che anche la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, di cui all'art. 410, secondo comma, c.p.c., era stata inviata alla D.P.L. di Latina e ad altro ente. Con il secondo motivo, si duole della omessa e, comunque, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, c.p.c., censurando l’omessa valutazione della circostanza della imprevedibilità della condotta della F. . Assume al riguardo la mancanza di una adeguata esplicitazione dell'iter motivazionale seguito dal giudice del gravame, che non chiarisce i termini in cui si sarebbe concretizzata la violazione della normativa antinfortunistica richiamata. Con il terzo motivo, la società ulteriormente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e quindi vizio motivazionale, ascrivendo alla decisione la mancata spiegazione dell'iter argomentativo sulla cui base ha ritenuto l'insussistenza di una condotta imprevedibile ed abnorme della F. , non essendo stato chiarito il motivo per il quale la deposizione del teste T. non potesse essere valutata. Infine, con l'ultimo motivo, censura la decisione per l'omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., osservando che non fosse indispensabile la contestazione delle singole voci di danno ai fini della contestazione dell'entità di risarcimento. Il ricorso è infondato. Quanto al primo motivo, premesso che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all'esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall'art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo, deve ritenersi che, ai fini dell'espletamento del tentativo di conciliazione, il quale ai sensi dell'art. 412 cod. proc. civ. costituisce condizione di procedibilità della domanda, sia sufficiente, in base a quanto disposto dall'art. 410-bis cod. proc. civ., la presentazione della richiesta all'organo istituito presso le Direzioni provinciali del lavoro, considerandosi comunque espletato il tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, a prescindere dall'avvenuta comunicazione della richiesta stessa alla controparte. Tale comunicazione è, invece, necessaria, ai sensi dell'art. 410, comma secondo, cod. proc. civ., perché si verifichi la interruzione della prescrizione Cfr. Cass. 121.1.2004 n. 967 . In particolare, il secondo comma dell'attuale art. 410 c.p.c. dispone che la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Attesa, inoltre, la natura ricettizia degli atti interruttivi della prescrizione e considerato che il legislatore parla di interruzione e non di sospensione della prescrizione, deve ritenersi che la comunicazione che interrompe la prescrizione e sospende il decorso di ogni termine di decadenza è quella fatta al datore di lavoro cfr. Cass. 18.10.2005 n. 20153 . Nel caso all'esame la decisione impugnata ha evidenziato che la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione era stata indirizzata non solo alla DPL di Latina ma anche alla società appellante, come documentato in atti, prima della scadenza del quinquennio e tanto basta per disattendere la censura, non essendo precisato alcun elemento che valga ad inficiare le argomentazioni della Corte del merito riportate e non essendo neanche precisato se la doglianza sia stata ritualmente avanzata nella fase di merito. I vizi motivazionali dedotti con i successivi tre motivi appaiono caratterizzati tutti da assoluta genericità. Quanto alla prospettata omessa specificazione delle circostanze che avrebbero indotto il giudice del gravame a ritenere violata la normativa antinfortunistica richiamata, è sufficiente rilevare che, non configurando l'art. 2087 cod. civ. un'ipotesi di responsabilità oggettiva - in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento - ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure di allegare la novicità dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, senza che occorra, in mancanza di qualsivoglia disposizione in tal senso, anche la indicazione delle norme antinfortunistiche violate o delle misure non adottate, mentre, quando il lavoratore abbia provato quelle circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno cfr. Cass. 2.9.2003 n. 12789 e, più di recente, Cass. 17.2.2009 n. 3788 . Gravando, quindi, sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo, coerentemente la Corte del merito, nel confermare la decisione di primo grado con riguardo alla responsabilità datoriale, ha rilevato, richiamando peraltro la relazione dell'Ispettore dell'ASL confermata in sede di escussione testimoniale, la violazione delle prescrizioni poste dall'ari 33 del d.lgs. 626/1994 riguardanti la collocazione e la segnalazione delle vie di circolazione dei pedoni e dei veicoli. Ha ritenuto pertanto raggiunta la prova della inadeguatezza degli strumenti di prevenzione predisposti dal datore di lavoro e ciò è sufficiente per ritenere del tutto priva di fondamento la censura proposta. Anche con riguardo al terzo motivo, posto che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, e che pertanto il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, salvo che la condotta di quest'ultimo presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento cfr., tra le altre, Cass. 14.3.2006 n. 5493, Cass. 16253/2004 , non risulta che l'iter argomentativo attraverso il quale la Corte ha ritenuto di escludere una tale evenienza sia stato idoneamente censurato, sotto il profilo del dedotto vizio motivazionale. Ed invero, a prescindere dalla circostanza che anche l'accertata imprudenza della lavoratrice non avrebbe condotto a conseguenze diverse in relazione ai principi giuridici affermati, una volta ritenuto che non era stata predisposta dal datore di lavoro adeguata segnalazione delle vie di circolazione dei veicoli e dei pedoni, non risulta chiarito se non in termini di assoluta genericità, il motivo per il quale la testimonianza del teste T. , ritenuto inattendibile dal giudice del gravame, avrebbe rivestito i caratteri della decisività ai fini di una ricostruzione della vicenda diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, mancando ogni riferimento agli elementi fattuali sui quali tale teste era stato chiamato a deporre. Infine, l'ulteriore censura in ordine alla quantificazione del danno risulta prospettata anch'essa in termini di assoluta genericità, in quanto non è idonea a confutare l'assunto del giudice del gravame che aveva reputato apodittica la contestazione avanzata in merito dalla società, senza riferimento alle singole voci di danno ed ai criteri di relativa quantificazione, non essendo ammissibile una censura in sede di appello priva dei connotati della specificità. Alla luce di tali considerazioni deve pervenirsi al rigetto del ricorso. Le spese seguono la soccombenza della società e vanno liquidate in favore della F. limitatamente a quelle sostenute per la difesa apprestata in sede di discussione, nella misura di cui in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 1500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.