Non c’è schiavitù se si è liberi di decidere

Perché si configuri il reato di riduzione in schiavitù è necessario che la vittima sia ridotta in uno stato di soggezione psicologica continuativa, tale da escludere la formazione di qualsiasi forma di volontà o ribellione.

Lo ha stabilito al Corte di Cassazione nella sentenza n.8370 del 21 febbraio 2014. Il caso. Una coppia viene condannata in primo grado in ordine al reato di riduzione in schiavitù in danno di una propria connazionale. Il giudice d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riqualifica giuridicamente i fatti, ritenendo che la condotta criminosa integri la fattispecie di violenza privata. Conseguentemente ricorre per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’appello, lamentando che sarebbe stata trascurata la sussistenza di tutti i requisiti previsti per la configurazione del reato di riduzione in schiavitù e cioè il ricorso alla violenza e alla minaccia, l’approfittamento e l’oggettiva condizione d’inferiorità della donna. «L’atteggiamento psicologico» contraddistingue la condotta. La Corte ritiene il ricorso infondato, in primo luogo richiamando l’accento sul requisito specializzante della condotta ex articolo 600 c.p. dato dalla finalità di sfruttamento, che distingue la fattispecie in questione da ogni altra forma di inibizione della libertà personale. La finalità di sfruttamento si evincerebbe secondo la Corte, proprio nella mancata possibilità di spostamento ed autodeterminazione della vittima, cosa che mancherebbe nel caso di specie. Infatti, la donna si sarebbe ribellata ai suoi aguzzini dopo appena un giorno dall’inizio dello sfruttamento, richiedendo aiuto a dei passanti per strada nel corso dell’attività di accattonaggio alla quale era stata costretta. Concludendo, per la Cassazione, tale condotta è ritenuta espressiva di un atteggiamento psicologico non prostrato e non divenuto oggetto di assoggettamento dell’altrui volontà, quindi essendo la vittima libera di decidere non parrebbe configurarsi l’ipotesi di riduzione in schiavitù.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 27 settembre 2013 – 21 febbraio 2014, numero 8370 Presidente Oldi – Relatore Vessichelli Fatto e diritto Propone ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Ancona, avverso la sentenza della Corte di assise di appello, in data 14 dicembre 2011, con la quale è stata parzialmente riformata quella di primo grado. Quest'ultima era stata di condanna , nei confronti di P.F.N. e P.A.A., in ordine al reato di riduzione in schiavitù. Tale condotta delittuosa era stata assunta come commessa in danno della connazionale K.M., con condotta accertata il 9 settembre 2010. La decisione del giudice di primo grado era stata adottata con rito abbreviato ed era fondata sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa peraltro ribadite in sede di incidente probatorio acquisite dalla PG in circostanze tali da avere comportato l'arresto in flagranza degli imputati. Il giudice dell'appello aveva valorizzato quelle dichiarazioni soltanto per la ricostruzione storica dei fatti ma, con riferimento alla qualificazione giuridica di essi, la Corte non ha ritenuto di condividere la tesi accreditata dal Tribunale ed ha riqualificato la condotta come violenza privata. Ha dedotto il ricorrente, la erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione. Ha osservato che la decisione del giudice dell'appello dovrebbe essere considerata erronea perché basata sul presupposto, non condivisibile, che il reato originariamente contestato richiederebbe la prova dell'assoggettamento fisico della vittima. Viceversa, sarebbe stata trascurata la sussistenza di tutti i requisiti previsti per la configurazione del reato di riduzione in schiavitù e cioè il ricorso alla violenza e alla minaccia, l'approfittamento mediante la apprensione del passaporto della vittima della situazione di necessità e delle condizioni di oggettiva inferiorità della donna. Infine, anche la circostanza di fatto sulla quale il giudice dell'appello aveva basato la propria convinzione , e cioè la brevissima durata della vicenda riguardante la K., in Italia, è considerata insignificante dalla giurisprudenza di legittimità, essendo stato anche trascurato che l'assoggettamento della vittima aveva avuto inizio prima del suo ingresso in Italia e precisamente il 4 settembre, quando era stato attivato il comportamento di induzione ai suoi danni. Peraltro, anche la parziale possibilità di autodeterminazione della donna non poteva valere ad escludere la condizione del suo assoggettamento, condizione che la Procura apprezza particolarmente nel terrore che trapelava dal suo volto . Il ricorso va dichiarato infondato, conformemente alla richiesta del Procuratore Generale di udienza. Il giudice della sentenza impugnata muove dal rilievo secondo cui sarebbe da escludere che la denunciante sia stata ridotta in uno stato di permanente ed effettiva impotenza reattiva e che dipendesse in tutto e per tutto dagli imputati in sintesi, ha escluso che ricorresse l'imprescindibile requisito normativo dello stato di cogente intimidazione psico-fisica della vittima. In tal senso, infatti, la Corte d'assise appello ha ritenuto di interpretare il requisito del reato originariamente contestato, rappresentato dall'assoggettamento della vittima un assoggettamento che, seppure discutibilmente riferito, in linea di principio, in sentenza, alla nozione propriamente di natura fisica, è stato, tuttavia, di fatto ed in concreto, verificato, nella medesima sentenza impugnata come dovuto con riferimento ad uno stato di permanente e cogente intimidazione psicofisica, che dia luogo ad una coazione tale da ridurre le potenzialità comportamentali della vittima ad una funzione totalmente etero-diretta il principio di diritto è tratto dagli approdi della sent. Cass. numero 2775 del 2011 . In altri termini, la Corte territoriale ha ritenuto dirimente, ai fini della riqualificazione giuridica del fatto, la circostanza che non sia stato integrato alcun comportamento che abbia ridotto la vittima a soggetto impotente, asservito ai disegni utilitari del soggetto dominante. A tale conclusione, il giudice dell'appello è pervenuto valorizzando sia il brevissimo lasso temporale durante il quale la vicenda denunciata si è svolta, sia l'età matura della donna, condizione che ha consentito alla stessa di porre in essere una condotta reattiva nei confronti degli imputati, sfuggendo al loro controllo alla prima occasione, subito dopo avere compreso le condizioni di vita che l'attendevano. Essa poté, infatti, invocare soccorso e chiedere aiuto al negoziante al quale si rivolse, senza come sottolinea il giudice dell'appello che gli imputati avessero posto in essere alcuna condotta per impedire tale, pur non imprevedibile, iniziativa. Il Procuratore generale impugnante ha posto, invece, l'accento e richiamato l'attenzione di questa Corte nella prospettiva di un ritorno alla originaria qualificazione giuridica sia sulla circostanza che il reato di cui all'articolo 600 cp non richiede l'assoggettamento fisico della vittima ma, soprattutto, sul fatto che la condotta comunque durata un lasso di tempo più lungo di quello indicato in sentenza, dovendo essere computata anche la parte dell'azione posta in essere in Romania recasse tutti gli elementi costitutivi del reato originariamente contestato, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo. Orbene, occorre in primo luogo dare atto della esistenza di un condivisibile filone giurisprudenziale che richiama l'accento sul requisito specializzante che caratterizza il reato ex articolo 600 cp dato dalla finalità di sfruttamento, che distingue la fattispecie in questione da ogni altra forma di inibizione della libertà personale. Si è sostenuto che la nozione di riduzione in schiavitù, alla base del reato di cui all'articolo 600 cod. penumero , come modificato dalla legge numero 228 del 2003, è connotata non solo e non tanto dal concetto di proprietà in sè dell'uomo sull'uomo, ma dalla finalità di sfruttamento di tale proprietà,per il perseguimento di prestazioni lavorative forzate o inumane, di prestazioni sessuali pure non libere, di accattonaggio coatto, obblighi di fare imposti mediante violenza fisica o psichica. La detta finalità di sfruttamento è quella che distingue la fattispecie dell'articolo 600 da ogni altra forma di inibizione della libertà personale, considerata quest'ultima come facoltà di spostamento nel tempo e nello spazio e tutelata dagli articolo 605-609 decies cod. penumero Sez. F, Sentenza numero 39044 del 10/09/2004 Cc. dep. 06/10/2004 Rv. 230130 . In altri termini, la costrizione della vittima ad una delle attività descritte dalla norma, unificabili dal connotato della loro sintomaticità dello sfruttamento della medesima parte lesa, costituisce un indubbio elemento specializzante che vale a caratterizzare la fattispecie della costrizione descritta dall'articolo 600 cp nella forma minacciosa o violenta rispetto a quella punita, senza specificazione alcuna, dall'articolo 610 cp. Tuttavia è altresì innegabile che l'articolo 600 cp è connotato dall'ulteriore e fondante requisito oggetto della specifica attenzione del giudice a quo rappresentato dalla previa riduzione della vittima in uno stato di soggezione continuativa, che rappresenta anche il mezzo agevolatore della ulteriore condotta costrittiva, aggravandone grandemente il disvalore. Sul punto, la ricostruzione operata dal giudice a quo, che ha concluso per la relativa esclusione, è esaustiva e rispondente alle regole della logica e, sol per questo, non è ulteriormente censurabile nella sede della legittimità. Non, alla luce delle considerazioni dell'impugnante, che risultano sotto molti profili, versate in fatto. Invero, il giudice del merito è giunto a ritenere non provato il requisito in parola, del quale il legislatore ha sottolineato la persistenza continuativa , da intendersi o in senso cronologico di durata prolungata nel tempo o comunque nel senso di una certa permanenza Rv. 248173 , dovendosi infatti escludere, dal paradigma della norma, la condotta violentemente costrittiva che però si esaurisca in breve e che, perciò stesso ben può non acquisire neppure la idoneità a dare luogo ad uno stato di dipendenza psicologica della vittima della quale possa dirsi, citando la rubrica del precetto, che sia stata ridotta in schiavitù. Determinante, infatti, è ritenuto dalla giurisprudenza lo stato di soggezione in cui la vittima versa, essendo sottoposta all'altrui potere di disposizione, che si estrinseca nell'esigere, con violenza fisica o psichica, prestazioni sessuali o lavorative, accattonaggio od altri obblighi di fare Sez. 5, Ordinanza numero 43868 del 09/11/2005 Cc. dep. 01/12/2005 Rv. 232834 . La Corte territoriale ha, cioè, ritenuto di ricavare, dal fatto che la querelante ha potuto chiedere l'intervento di estranei e dall'ulteriore rilievo che tale ribellione si è verificata dopo appena un giorno dall'inizio dello sfruttamento vero e proprio, che, non di soggezione continuativa si sia trattato nei confronti della donna, ma di un comportamento, anche continuato, di compressione della sua libera autodeterminazione , il quale tuttavia, non è riuscito a corrompere i processi volitivi della vittima in maniera tale da comportare, da parte della stessa, la rinuncia, anche temporanea, alle proprie fondamentali prerogative in materia di libertà. In senso contrario non vale, come fa l'impugnante, allegare che non è prevista dalla norma una durata minima sotto la quale la condotta non rimane integrata, trattandosi di considerazione quantomeno generica con riferimento ai dati fattuali invece valorizzati dal giudice del merito e comunque risolvendosi in una censura sul merito. D'altra parte, anche la giurisprudenza citata dal ricorrente, secondo cui vedi in motivazione sent. numero 13374 del 2009 è irrilevante la durata del mantenimento della riduzione in servitù , non ha mancato di pretendere, nel rispetto della lettera della norma, che deve trattarsi di durata significativa ai fini della configurazione del reato. E non vale neppure ricordare, come ha fatto il PG, che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il consenso della vittima non servirebbe a scriminare la condotta de qua, posto che tale esatto rilievo è servito alla giurisprudenza medesima per sottolineare la incompatibilità logica tra un preteso consenso scriminante e la fattispecie in esame che presuppone la già integrata e dimostrata condizione di assoggettamento psicofisico della vittima, laddove, nel caso di specie, la richiesta di aiuto da parte della querelante nel corso della attività di accattonaggio alla quale era stata costretta, è stata ritenuta espressiva non già del consenso citato dal PG ma di un atteggiamento psicologico non prostrato e non divenuto oggetto di assoggettamento alla altrui volontà. P.Q.M. Rigetta il ricorso. a. e c.p.a.