Uso di gruppo di marijuana, coltivazione di cannabis e supervisione per la vendita di eroina: reati di sostanza (stupefacente)

Tre sostanze stupefacenti diverse per tre vicende differenti. Il giudice, prima di condannare per spaccio, deve scartare l’ipotesi del consumo di gruppo per poter condannare per il reato di coltivazione illecita, deve dimostrare l’effettiva attività di coltura, non fermarsi alla sola disponibilità del terreno, e prima di condannare per concorso in detenzione, deve dimostrare il contributo partecipativo, morale o materiale, alla condotta criminosa altrui.

La Corte di Cassazione si è dovuta occupare di tre differenti vicende, avente come collante l’oggetto del reato le sostanze stupefacenti. Ha quindi deciso i tre casi con tre sentenze, depositate il 20 marzo 2013. Sono la numero 12898 sull’uso di gruppo, la numero 12861 sulla coltivazione e la numero 12840 sul fare da palo durante la vendita. Uso di gruppo, sentenza numero 12898 il caso. Un 35enne, mentre è passeggero di una macchina, viene trovato in possesso di 3,8 grammi di marijuana, il conducente di 2,6 grammi della stessa sostanza. Il primo viene condannato per vendita e detenzione per uso non esclusivamente personale di stupefacenti. Secondo la ricostruzione dell’accusa aveva appena venduto al proprietario della macchina la quantità trovata in possesso di questo. I due sostengono invece che stavano andando a consumare insieme ad altre persone la droga. L’uso di gruppo escluderebbe la rilevanza penale della cessione. La Corte di Cassazione annulla la sentenza della Corte d’Appello, e rinvia per un nuovo giudizio, poiché il giudice avrebbe dovuto «confrontarsi» con la «deduzione difensiva in ordine alla modalità del rapporto tra consegna del denaro e consegna dello stupefacente», essendo totalmente rilevante l’eventuale «originaria finalizzazione di ripartire il compendio psicotropo fra i partecipanti al gruppo e la destinazione al consumo esclusivo dei medesimi della droga acquistata o detenuta da uno dei partecipanti al gruppo su preventivo mandato degli altri». Coltivazione, sentenza numero 12861 il caso. Padre e figlio vengono condannati per aver coltivato un fondo con 101 piante di cannabis. La Corte d’Appello assolve il figlio e diminuisce la pena per il padre, pari a 2 anni e 4 mesi di reclusione e 10mila euro di multa. L’imputato ricorre per cassazione, sostenendo che la condanna si sarebbe basata solo «sulla esclusione della ipotesi che la coltivazione avvenisse da parte di altri», che però non sarebbe stata dimostrata, vista la libera accessibilità del fondo e che non risulta esistente alcun pozzo artesiano alimentato elettricamente con cui irrigare, bensì soltanto una cisterna sul fondo vicino. Non è stata dimostrata l’esclusiva disponibilità del fondo, né l’effettiva attività di coltivazione. La Corte accoglie il ricorso, annulla la sentenza e rinvia per un nuovo giudizio. La corte territoriale ha illegittimamente rifiutato un’acquisizione probatoria sullo stato dei luoghi, pur basando la propria decisione sull’esistenza del pozzo artesiano e sull’esclusiva accessibilità al fondo da parte del proprietario. Illogico è stato anche ritenere irrilevante «la presenza di un altro accesso al fondo, peraltro del tutto libero», senza spiegare «perché ciò escluderebbe senz’altro un accesso abusivo da parte di terzi». «D’altra parte, nel caso in esame, le prove, o almeno gli indizi, non dovevano limitarsi alla sola disponibilità del terreno, ma alla effettiva attività di coltivazione delle piante di marijuana». Concorso in detenzione, sentenza numero 12840 il caso. Un ragazzo di 30 anni viene assolto, dalla Corte d’Appello, dal reato di concorso per l’acquisto di 520 grammi di eroina, di cui era accusato per aver fatto da «palo» durante lo scambio e per aver fatto da intermediario per mettere in contatto le parti. Il Procuratore Generale ricorre per cassazione, sostenendo che non possa trattarsi di mera connivenza non punibile, poiché l’imputato si era ritrovato in piena notte sul luogo del reato senza altra motivazione che quella di fare da supporto durante lo scambio illecito, visto anche che aveva dato all’operatore di scambio il proprio cellulare per mantenere i contatti con la controparte. Connivenza non punibile. La Corte respinge il ricorso, perché inammissibile. Esso non fa altro che riproporre la considerazione che l’attività di «vedetta» e di «guardiaspalle» sarebbe dovuta essere diversamente valutata al fine di riconoscere un contributo partecipativo dell’imputato. Il prestito del cellulare «non implica la conoscenza da parte dell’imputato delle ragioni e del contenuto della telefonata». Peraltro il suo comportamento è stato correttamente ritenuto neutro anche in base all’assenza di una qualsiasi segnalazione da parte del servizio di osservazione della PG. Giusta la sentenza di assoluzione, che ha ritenuto sussistente «un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato».

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 6 – 20 marzo 2013, numero 12898 Presidente Garribba – Relatore Citterio Considerato in fatto 1. C.G. , nato nel , è stato condannato in data 16.11.11 ed in esito a rito abbreviato dal Tribunale di Nicosia per tre reati detenzione di 3,8 gr. di marijuana per uso non esclusivamente personale cessione di 2,6 gr. della stessa sostanza a Ca.Do. violazione dell'articolo 9 legge 1423/56 fatti tutti del . La Corte d'appello confermava la responsabilità, applicando le attenuanti generiche e riducendo la pena complessiva sent. 31.5-28.6.12 . I due, a bordo dell'auto in uso e condotta dal Ca. , erano stati fermati per un controllo e trovati in possesso rispettivamente dei due quantitativi. Ca. aveva riferito di avere avuto, per 20 Euro, la sostanza dal C. la sostanza era stata acquistata poco prima dal C. , che si era fatto dare un passaggio. La droga in possesso di C. era quella che residuava dall'acquisto, tolta quella data a Ca. . Così dalle sentenze di merito. 2. Ricorre l'imputato enunciando due motivi - illogicità e omessa motivazione in relazione ai gravi indizi di colpevolezza, perché dal testo effettivo delle dichiarazioni di Ca. si sarebbe dovuto evincere una fattispecie di uso comune o di gruppo C. metteva la conoscenza del contatto, Ca. l'autovettura indispensabile per raggiungere il contatto, poi ciascuno aveva ed ebbe la propria parte. - omessa motivazione e violazione di legge in ordine alla negata continuazione tra il reato qui giudicato e quelli oggetto si evince solo dalla lettura della sentenza di primo grado della sentenza GIP di Nicosia 9.10.2008. Ragioni della decisione 3. A giudizio del Collegio il primo motivo è fondato, nei termini che seguono. La Corte distrettuale ha, in fatto, escluso la sussunzione della vicenda nell'uso di gruppo, confermando l'apprezzamento del primo Giudice del merito di insussistenza di alcun accordo pregresso e di un rapporto cessione-acquisto tra i due, e quindi di acquisto-rivendita da parte dell'imputato, sulla base delle dichiarazioni dell'acquirente. Tuttavia non si è confrontata con la specifica deduzione difensiva in ordine alle modalità del rapporto tra consegna del denaro e consegna dello stupefacente, quali asseritamente riferite al Giudice dal Ca. , secondo quanto testualmente, ancorché parzialmente, riportato a pag. 2 dell'atto di appello. Trattandosi di deduzione per sé certo non irrilevante, a fronte dell'argomentare sintetico della prima sentenza sul punto, il Giudice d'appello avrebbe dovuto esplicitare le ragioni per le quali, dato congruo conto della dinamica del sorgere e del concretizzarsi del contatto tra i due Ca. e C. con riferimento al contenuto specifico delle dichiarazioni del primo, la vicenda escludeva in radice la configurabilità del cosiddetto uso di gruppo, nei termini costitutivi indicati da questa Corte suprema [per tutte Sez. 6, sent. 8366/2011 “Come perspicuamente rilevato, il disegno perseguito dai soggetti partecipanti all'acquisto deve, pertanto, caratterizzarsi palesemente nel denominatore comune di un uso esclusivamente personale. Ne consegue che l'adesione preliminare a simile progetto comune esclude che colui o coloro che acquista, su incarico degli altri sodali, si ponga in una posizione di estraneità rispetto ai mandanti l'acquisto destinatari dello stupefacente, come si verifica in ambito civilistico per colui che operi in nome e per conto altrui, ma rimanga estraneo agli effetti del negozio che egli ha concluso. È inoltre richiesto a che l'acquirente-mandatario, il quale opera materialmente o conclude le trattative di acquisto, sia anche lui uno degli assuntori Cass. penumero sez. 4, 35682/2007 b che sia certa sin dall'inizio l'identità dei componenti il gruppo, nonché manifesta la comune e condivisa volontà di procurarsi la sostanza destinata al paritario consumo personale Cass. penumero sez. 6, 37078/2007 e si sia del pari raggiunta un'intesa in ordine al luogo ed ai tempi del relativo consumo Cass. penumero sez. 6, 28318/2003, r.v. 225684 c che gli effetti dell'acquisizione traslino direttamente in capo agli interessati, senza passaggi mediati Cass. penumero sez. 5, 31443/2006 . Pertanto, l'originaria finalizzazione di ripartire il compendio psicotropo fra i partecipanti al gruppo e la destinazione al consumo esclusivo dei medesimi della droga acquistata o detenuta da uno dei partecipanti al gruppo su preventivo mandato degli altri, si propone come elemento che rende inequivoca l'unicità del comportamento ed esclude frammentazioni determinate da ulteriori passaggi, i quali configurerebbero autonome cessioni penalmente rilevanti Cass. penumero sez. 4, 4842/2003, r.v. 229368 ”]. Invece il Giudice d'appello ha sostanzialmente fatto proprio l'apprezzamento del primo Giudice, usando parzialmente gli stessi termini sintetici, nonostante proprio tale contratta argomentazione fosse stata oggetto della specifica critica. Il secondo motivo è assorbito. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Caltanissetta per nuovo giudizio.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 16 gennaio – 20 marzo 2013, numero 12840 Presidente Teresi – Relatore Sarno Ritenuto in fatto 1. Il procuratore generale della Repubblica presso la corte di appello di Firenze propone ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe con la quale la corte di appello della medesima città, in parziale riforma della sentenza del GUP presso il tribunale di Pistoia in data 15 dicembre 2010, ha assolto il solo Z.X. dal reato di cui agli articoli 81 capoverso e 110 del codice penale, 73 commi 1 e 1 bis d.p.r. 309/90 contestato per avere concorso con R.M. e P.F. nell'acquisto di 520 gr di eroina da B.G. , fungendo da intermediario unitamente a L.K. per il quale si è proceduto a parte. 2. Recependo i motivi di appello dell'imputato, la corte di merito aveva assolto per non aver commesso il fatto lo Z. rilevando come il dato fondamentale del processo dal punto di vista probatorio era costituito dalle dichiarazioni rese da L.K. che, tuttavia, aveva completamente escluso qualunque partecipazione attiva nella vicenda dell'imputato il quale, a sua volta, ha sempre anch'esso negato di aver saputo della cessione di sostanze stupefacenti in questione. Quanto alla circostanza evidenziata dai primi giudici secondo cui l'imputato avrebbe partecipato all'incontro nel quale era avvenuta la cessione della sostanza stupefacente svolgendo funzioni di vedetta, aggiungeva la corte di merito che anzitutto tale partecipazione non era stata nemmeno rilevata dal servizio di osservazione in atto da parte della polizia giudiziaria ed, inoltre, che al momento della perquisizione nell'appartamento del P. era stata ritrovata unicamente cocaina del peso di 0,8 g quindi del tutto compatibile con la sua destinazione ad uso personale e nulla, invece, che attestasse il coinvolgimento dello Z. . Concludeva, quindi, affermando che nella specie al più sarebbe stata responsabile, per l'imputato, una connivenza non punibile. 3. Nel ricorso il procuratore generale, dopo aver ricostruito nello specifico la vicenda, deduce la mancanza, contraddittorietà ovvero manifesta illogicità della motivazione rilevando che l'affermazione del L. in ordine alla estraneità dello Z. nella vicenda non sarebbe indicativa sia perché estrapolata da un più ampio contesto di dichiarazioni e sia in quanto lo stesso nulla poteva sapere sul ruolo dello Z. in quanto intervenuto su invito del P. . Aggiunge il procuratore ricorrente che erroneamente e contraddittoriamente lo svolgersi dei fatti sarebbe stato ricondotto a mera connivenza per quanto riguarda lo Z. non considerando la presenza di quest'ultimo in loco in piena notte e senza alcuna altra ragione che non fosse quella di compagnia e supporto alla sicurezza della P. al quale avrebbe fornito anche il proprio cellulare per mantenere i contatti con la controparte, al contempo fungendo da guardiaspalle anche dello stesso venditore B. . Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. La sentenza impugnata esclude il concorso nel reato ritenendo meramente passivo il comportamento dello Z. e ritenendo che nel comportamento di quest'ultimo non potesse essere ravvisatole, sulla base degli atti esaminati alcun contributo alla realizzazione del reato. L'esame del ricorso non pone problemi sui principi più volte affermati dalla Corte. Non si contesta infatti quanto più volte puntualizzato in questa sede e, cioè, che in tema di detenzione di sostanze stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo - morale o materiale - alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'evento illecito. Sez. 6, Sentenza numero 14606 del 18/02/2010 Rv. 247127 . Il problema viene sollevato in questa sede, infatti, solo con riferimento ad asseriti vizi della motivazione sotto il profilo della illogicità e della carenza di essa. Si sostiene al riguardo che non sarebbe stato adeguatamente considerato dai giudici di appello il ruolo di vedetta e di guardiaspalle svolto dall'imputato che avrebbe dovuto portare invece al riconoscimento del contributo partecipativo dello Z. alla realizzazione del reato. Ora è proprio il ruolo di vedetta ad essere stato escluso in motivazione dai giudici di appello avendo essi rilevato tra l'altro che il comportamento tenuto dall'imputato nell'occasione era stato del tutto neutro al punto da non essere nemmeno segnalato dal servizio di osservazione della PG e che nessun altro riscontro vi era in atti circa la partecipazione. In questo senso nemmeno può essere ritenuto decisivo sotto il profilo logico il prestito del cellulare in quanto tale atto non implica la conoscenza da parte dell'imputato delle ragioni e del contenuto della telefonata. È di tutta evidenza che la contestazione mossa nel ricorso attiene a profili di merito della valutazione che in realtà non si presta a censure in questa sede. Occorre ricordare infatti quanto più volte ribadito dalle Sezioni Unite della Corte e, cioè, che dedurre il vizio di manifesta illogicità della motivazione significa dimostrare che il testo del provvedimento è macroscopicamente carente di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa valutazione degli stessi, magari altrettanto logica e ciò per la evidente ragione che la interpretazione e valutazione degli atti è quaestio facti riservata al giudizio di merito, soltanto nel quale, dunque, è legittimo contrapporre, nella dialettica delle parti, logica a logica. Ne consegue che il giudice di legittimità deve limitarsi ad accertare se il giudice di merito abbia fatto propria, logicamente, con correttezza logica, una delle possibili interpretazioni o valutazioni degli atti e, accertato il rispetto delle regole della logica, non può che disattendere la censura di manifesta illogicità che sia stata proposta affermandosi - ed è quod plerumque accidit - che alla interpretazione o valutazione degli atti data dal giudice di merito è possibile opporne un'altra Sez. U, Sentenza numero 31 del 22/11/2000 Rv. 218525 . Né peraltro vengono in questa sede segnalati travisamenti delle prove con riferimento ad atti specifici del processo. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore Generale della Repubblica.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 5 – 20 marzo 2013, numero 12861 Presidente Squassoni – Relatore Franco Svolgimento del processo Con sentenza 1.2.2011 il giudice del tribunale di Bari, sezione distaccata di Modugno, dichiarò D.R. e il figlio D.F. colpevoli del reato di cui all'articolo 73 d.p.R. 309 del 1990 per avere coltivato in un fondo di cui avevano il possesso 101 piante di cannabis dalle quali era possibile ricavare 448 dosi medie droganti, e li condannò rispettivamente alla pena di anni 6 ed anni 4 di reclusione, oltre multa e pene accessorie. La corte d'appello di Bari, con la sentenza in epigrafe, assolse D.F. per non aver commesso il fatto, riconobbe per D.R. l'attenuante del fatto lieve, escluse la recidiva e rideterminò la pena in anni 2 e mesi 4 di reclusione ed Euro 10.000,00 di multa. L'imputato, a mezzo dell'avv. Raffaele Quarta, propone ricorso per cassazione deducendo 1 mancanza di motivazione in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione del dibattimento 2 violazione degli articolo 526 e 603 cod. proc. penumero Osserva che a seguito della motivazione della sentenza di primo grado, aveva chiesto con l'atto di appello di poter dimostrare lo stato dei luoghi e che sul terreno non era mai esistito un pozzo artesiano, ed aveva allegato una consulenza di parte chiedendo in via subordinata una perizia d'ufficio. Dalla relazione del consulente risultava anche che non esisteva una presa interna al fabbricato dedicata alla alimentazione delle pompe elettriche, mentre esistevano prese esterne, per cui chiunque avrebbe potuto collegare ad esse eventuali pompe elettriche. Lamenta che la corte d'appello ha dichiarato inutilizzabile la consulenza allegata dalla difesa, senza peraltro fare cenno alla richiesta di perizia. Inoltre la corte ha tratto la dimostrazione dello stato dei luoghi da un filmato che non risulta mai formalmente acquisito al fascicolo del dibattimento. 3 mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla conferma del giudizio di colpevolezza. Osserva che la condanna si fonda solo sulla esclusione della ipotesi che la coltivazione avvenisse da parte di altri, il che però nella specie non era plausibile, trattandosi di un fondo accessibile a chiunque e senza prova di una attività di coltivazione. Sottolinea che le pompe potevano essere azionate mediante un generatore o mediante attacco alle prese esterne del casolare che non erano disattivabili. Lamenta che sul punto la corte d'appello ha utilizzato non solo un filmato mai acquisito agli atti, ma anche una foto contenuta nella consulenza di parte che è stata dichiarata inutilizzabile e non ha considerato che la piante potevano essere agevolmente annaffiate mediante la cisterna esistente sul fondo adiacente. La corte poi afferma che non vi è prova che l'imputato avesse realizzato un ripristino abusivo della fornitura elettrica mentre poco prima aveva affermato che captava l'elettricità abusivamente. Osserva anche che le altre argomentazioni sono manifestamente illogiche. Motivi della decisione Il ricorso è fondato. Innanzitutto, con l'atto di appello la difesa aveva eccepito che la sentenza di primo grado aveva inaspettatamente basato l'affermazione di responsabilità sul rilievo che sul fondo in questione vi sarebbe stato un pozzo artesiano della cui presenza invece non vi sarebbe mai stata traccia provvisto di pompe elettriche alimentate dal quadro elettrico posizionato all'interno dell'immobile di pertinenza dell'imputato. A fronte di questo fatto nuovo, aveva fatto espletare una consulenza tecnica di parte sullo stato dei luoghi da cui risultava l'inesistenza del pozzo artesiano o di altri pozzi utilizzabili per l'irrigazione delle piante. Aveva quindi chiesto la riapertura dell'istruzione dibattimentale per l'acquisizione della consulenza di parte, o per l'audizione del consulente ovvero per l'espletamento di una perizia sullo stato dei luoghi. Aveva poi rilevato che dalla consulenza emergeva anche che non esisteva alcuna presa o interruttore, interno al fabbricato, dedicati all'alimentazione di pompe elettriche e che erano invece installate prese di corrente sulle pareti esterne della costruzione, non disattivate stante la presenza del frigorifero ed utilizzabili da chiunque. Aveva precisato che detti accertamenti non erano stati chiesti in primo grado, perché allora non si era neppure prospettata l'eventualità che il giudizio di condanna avesse potuto fondarsi su dette circostanze inesistenti. Da qui la sopravvenuta necessità di rinnovazione del dibattimento. La corte d'appello ha rigettato questa richiesta perché gli accertamenti richiesti non erano indispensabili ed ha dichiarato inutilizzabile la consulenza prodotta dalla difesa. Esattamente il ricorrente lamenta che tale statuizione è basata su una motivazione carente e manifestamente illogica. Si trattava invero di una situazione processuale equivalente a quella descritta dall'articolo 603, comma 2, cod. proc. penumero per il caso in cui siano scoperte prove nuove soltanto successivamente al dibattimento di primo grado, e che va risolta nel senso che la rinnovazione va disposta nei limiti previsti dall'articolo 495, comma 1. Nella specie, infatti, l'esigenza per la difesa di acquisire prove sullo stato dei luoghi era indubbiamente sorta solo a seguito della motivazione utilizzata dalla sentenza di primo grado relativamente alla ritenuta possibilità di irrogare le piante esclusivamente da parte di chi possedesse le chiavi dell'immobile rurale e potesse quindi accedere al quadro elettrico. La corte d'appello, innanzitutto, non ha risposto per intero alle richieste difensive, in quanto non ha fatto alcun cenno alla domanda di disporre una perizia, sebbene l'appellante avesse specificamente eccepito, sulla base della documentazione che chiedeva di acquisire, che la reale situazione di luoghi era diversa da quella ritenuta dalla sentenza di primo grado. La sentenza impugnata ha invece ritenuto sufficiente trarre la dimostrazione dello stato dei luoghi da un filmato delle operazioni di sopralluogo girato da un verbalizzante, che però non risulta essere stato formalmente acquisito al fascicolo per il dibattimento. Inoltre, sempre al fine di acquisire la necessaria conoscenza dello stato dei luoghi, la sentenza impugnata ha invece utilizzato una foto allegata alla consulenza di parte, la quale però era stata, in premessa, dichiarata inutilizzabile. La sentenza, poi, non ha risposto alla questione posta dalla difesa secondo cui, da un lato, il pozzo in questione non era un pozzo artesiano bensì un pozzetto di ispezione dell'acquedotto, con modestissimi residui d'acqua e sostanzialmente inidoneo per l'irrigazione, e, da un altro lato, le piante erano invece facilmente annaffiabili attraverso una cisterna esistente a poca distanza sul fondo adiacente. La motivazione con cui è stata rigettata la richiesta di acquisire gli elementi probatori proposti dalla difesa è quindi carente, contraddittoria e manifestamente illogica, dal momento che la sentenza si basa sostanzialmente proprio sullo stato dei luoghi e perciò implicitamente ammette che la descrizione dei luoghi aveva un rilievo determinante ai fini della decisione. D'altra parte, nel caso in esame, le prove, o almeno gli indizi, non dovevano limitarsi alla sola disponibilità del terreno ma alla effettiva attività di coltivazione delle piante di marijuana. Ed a tal fine, la motivazione della sentenza avrebbe dovuto essere particolarmente approfondita, congrua ed esaustiva per escludere la necessità di accertare le situazioni di fatto indicate dalla difesa, quali - la consistenza del pozzo in questione, la sua natura di pozzetto di ispezione e la sufficienza per l'irrigazione dell'acqua ivi esistente - l'esistenza e l'utilizzabilità di una cisterna sul fondo adiacente - la reale situazione del quadro elettrico esistente all'interno del fabbricato e l'esistenza di una presa interna dedicata all'alimentazione delle pompe elettriche - l'esistenza di prese sulle pareti esterne idonee a collegare il motore di eventuali pompe elettriche - la possibilità di lasciare disattivate tali prese esterne stante la presenza di un frigorifero acceso. Esattamente il ricorrente lamenta che la motivazione è poi manifestamente illogica anche sotto altri profili. Cosi, la sentenza ritiene irrilevante la presenza di un secondo accesso al fondo, peraltro del tutto libero, in luogo di quello principale in quanto l'accesso secondario sarebbe meno agevolmente praticabile e meno diretto ma non spiega perché ciò escluderebbe senz'altro un accesso abusivo da parte di terzi che utilizzassero l'accesso meno agevole proprio perché meno in vista. La sentenza, inoltre, per sostenere la possibilità di azionare possibili pompe elettriche, sostiene che l'imputato poteva farlo nonostante la cessazione della fornitura poiché captava l'elettricità abusivamente ma poche righe dopo al fine di sostenere che l'imputato non avrebbe avuto necessità di incaricare il figlio di nascondere le tracce dell'allaccio abusivo afferma il contrario, e cioè che non vi sarebbe prova dell'abusivo allaccio alla rete elettrica. Inoltre, la sentenza afferma che il figlio del ricorrente ed inizialmente coimputato, Ferdinando, giunto sul posto poco prima del padre e dei finanzieri, si sarebbe diretto subito verso le piante e non verso la casa, senza però darne una adeguata spiegazione alla luce dell'accertato stato dei luoghi e senza rispondere all'osservazione difensiva che dal posto in cui l'auto era stata parcheggiata la direzione era la stessa. La sentenza, in proposito, sostiene anche che era probabile che l'imputato avesse mandato avanti il figlio per disperdere le tracce della coltivazione ed estirpare il maggior numero di piante, ma omette di replicare alle considerazioni contenute nell'atto di appello secondo cui questa ricostruzione era implausibile perché il figlio aveva preceduto di pochi minuti il padre e i finanzieri e perché poi furono impiegate ben sei persone per l'estirpazione delle piante, e che ciò richiese circa mezz'ora di lavoro, anche con l'utilizzazione di una zappa, per poter estirpare alcune piante. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata per vizio di motivazione con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Bari per nuovo esame. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Bari.