Il doppio binario dell’analogia in materia penale

In diritto penale, a margine delle note più ricorrenti in tema di analogia in malam partem vietata e analogia in bonam partem consentita c’è spazio per rilievi calibrati su indirizzi concreti, meno scontati delle direttrici assiologiche della materia.

Primo senso di analogia. L’analogia, classificata generalmente come un meccanismo di completamento del sistema, e problematicamente del sistema penale, viene insidiosamente accostata al tema dell’interpretazione. In modo piano – è un insegnamento del professore Gaetano Contento – bisogna sgombrare il campo da facili equivoci, rivenienti dalla prossimità dei due argomenti. In particolare, occorre ricordare che il richiamo analogico ad una norma non esime dall’interpretarla rispetto ad una lacuna il ricorso all’analogia, come che la si voglia considerare secundum legem, praeter legem, contra legem , afferisce anzitutto al problema delle lacune in diritto penale, più spesso scelte e selezione che vuoti da colmare. In ogni caso, ove ammesso, qualora il ricorso all’analogia fosse ritenuto satisfattivo lascerebbe inevaso un passaggio necessario nell’applicazione di qualsiasi norma giuridica analogia o no, il diritto va interpretato. Su queste premesse, appare dunque più corretta l’afferenza dell’analogia al tema delle fonti, sia nella prospettiva di escludere dal diritto penale l’analogia iuris , per violazione della riserva di legge in materia penale, sia nel senso di escludere l’analogia legis , per violazione del principio di tassatività. Al di là del profilo sistematico – la manualistica non dà una collocazione uniforme all’argomento – gli indirizzi concreti sono pienamente aderenti al fatto che il ricorso all’analogia violerebbe la tassatività. Secondo senso di analogia. Alla prova dei fatti, tuttavia, l’incertezza resta in agguato. Con approccio lineare alla complessa materia della compartecipazione eventuale, così come disciplinata negli artt. 110 e seguenti del codice penale, si scorge uno scollamento dalle premesse accennate, premesse che sembrano pacifiche. Alle insidie legate alla norma di apertura in materia di concorso appunto l’art. 110 c.p. con la sua clausola generale in grado di fagocitare ogni classificazione ed ogni sforzo definitorio chiunque concorre è punito , si affiancano migliori auspici rivenienti da una perimetrazione del concorso c.d. morale, nelle forme dell’istigazione, della determinazione e dell’accordo alle quali fa spazio lo stesso art. 110 c.p. con la clausola di salvezza che ne chiude la formula . Si tratta di forme tassative, che – richiamo ancora l’insegnamento del mio Maestro – vanno costruite con la massima autonomia e tassatività possibile, evitando, in particolare, la sovrapposizione tra determinazione ed istigazione ed evitando parimenti una lettura delle stesse secondo un climax ascendente, o secondo un’evoluzione diacronica determina chi fa sorgere, istiga chi rafforza, il proposito criminoso . Quella ai limiti più corretti delle forme di concorso non è un’attenzione circoscritta al tema della compartecipazione psichica, atteso che la prevenzione di prospettive analogiche fondate logicamente sul come se”, e dunque su una fictio iuris si realizza anche, e più pericolosamente, nella sovrapposizione tra concorso materiale e concorso morale, ogniqualvolta forme di partecipazione vengono convertite dal piano del supporto materiale a quello del supporto motivazionale, solo perché difficili da incriminare siccome sprovviste di una qualche rilevanza causale. Il vulnus è chiaro ed evidente l’univocità di senso di un comportamento viene violata dall’interprete, nel caso concreto, ma in realtà l’interprete finisce così per violare indicazioni tassative, sul piano astratto. L’assunto è chi ha fornito un contributo materiale è come se . avesse fornito un contributo sul piano morale. Utile una comparazione con altro tema delicato e sottile della dogmatica penalistica il reato putativo con riguardo alle modalità di realizzazione. Senza digressioni concettualistiche, si pensi ad una condotta ingannatoria che voglia indurre la vittima ad un acquisto, mentre la vittima si determina a concludere il contratto per paura del venditore. Va da sé che il reato di truffa non è facilmente riscontrabile in capo al venditore truffaldino, il quale, in definitiva, ha sovrastimato le proprie capacità persuasive rispetto alla propria forza intimidatrice. La divaricazione tra la tipologia del fatto voluta e l’epifenomeno non dovrebbero legittimare l’intervento penale, proprio secondo il modello del reato supposto erroneamente. Si conferma che la connotazione della condotta così come posta in essere dal suo autore non è un dato marginale e rappresenta, piuttosto, elemento indefettibile nella valutazione di rilevanza penale. Al concorso serve esattamente questo una fedeltà al modello teorico ed ai paradigmi assiologici della materia penale il modello teorico è molto fragile, come sa qualsiasi operatore proprio per questo non è il caso di infierire in un contesto di minorata difesa.