Concesso il danno patrimoniale ma non il danno alla reputazione all’avvocato tedesco al quale è stato impedito di esercitare la professione forense nello Stato italiano. Inutile il suo ricorso in Cassazione lamentando la violazione della normativa europea.
Sul punto la Cassazione con ordinanza numero 10469/18, depositata il 3 maggio. Il caso. La Corte d’Appello di Roma dichiarava inammissibile l’appello proposto da un avvocato tedesco perché tardivo. Gli stessi Giudici accoglievano parzialmente, invece, l’appello principale proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e riformavano la decisione di prime cure con la quale era stata accertata la responsabilità dello Stato italiano per il danno cagionavo al predetto avvocato, consistente nell’aver impedito al legale di svolgere la professione forense in Italia in particolare veniva rifiutata la sua iscrizione all’albo professionale e veniva richiesto il superamento di una prova attitudinale . Ciò in violazione della direttiva 89/48/CEE del 1998, «relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione che prevedevano formazioni professionali di una durata minima di tre anni». Danno patrimoniale e danno alla reputazione. Accogliendo il gravame la Corte territoriale riduceva l’ammontare del danno risarcibile al solo danno patrimoniale «per mancato esercizio delle professione», liquidato in 75mila euro. Al contrario il Giudice di secondo grado non riconosceva il danno non patrimoniale, inteso come danno alla reputazione, per difetto del nesso causale. Secondo i Giudici la violazione delle norme sul divieto di esercizio della professione doveva imputarsi allo stesso avvocato, e per questo motivo la Corte disponeva, inoltre, la restituzione alla Presidenza del Consiglio del maggior importo corrisposto all’avvocato in esecuzione della sentenza di primo grado. L’avvocato tedesco contro la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione. La Suprema Corte con sentenza rigettava il ricorso, confermando quanto deciso dai Giudici di merito. Successivamente lo stesso professionista proponeva ricorso in revocazione, ai sensi dell’articolo 391-bis c.p.c Violazione della normativa europea. In particolare il ricorrente lamenta che la Suprema Corte sia incorsa in un errore di fatto nell’affermare che il medesimo «non aveva espletato gli specifici rimedi apprestati dall’ordinamento processuale per eliminare le norme statali contrarie all’ordinamento comunitario». Il ricorrente sostiene, inoltre, di aver richiesto alla Commissione Europea di aprire una procedura di infrazione, ex articolo 169 TUE, e tale richiesta non è stata mai esaminata dalla Corte di Cassazione. Gli Ermellini, nell’odierna decisione, hanno rilevato l’inammissibilità del motivo per difetto di autosufficienza poiché ai sensi dell’articolo 366 c.p.c. la parte ricorrente avrebbe dovuto riprodurre nel ricorso gli atti e documenti di giudizio di merito richiamati nella doglianza, indicando in quale sede processuale fossero stati prodotti. Non avendo il ricorrente adempiuto a tale onere non è ammissibile il ricorso per revocazione. A ciò consegue la dichiarazione di inammissibilità della Cassazione e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese.
Corte Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 12 ottobre 2017 – 3 maggio 2018, numero 10469 Presidente Amendola – Relatore Positano Fatto e diritto Rilevato che La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 20 settembre 2013 numero 4913, dichiarava l’inammissibilità dell’appello proposto tardivamente ex articolo 333 c.p.c. dell’avvocato L.J. . Accoglieva, invece, parzialmente l’appello principale, proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, riformando la decisione di prime cure che aveva accertato la responsabilità dello Stato Italiano per il danno cagionato al predetto avvocato, di nazionalità tedesca, consistito nell’avere impedito al professionista di svolgere la professione forense in Italia, rifiutando la sua iscrizione all’albo professionale e subordinandola all’espletamento di una prova attitudinale, in violazione della direttiva 89/48/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1988 relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che prevedano formazioni professionali di una durata minima di tre anni . In accoglimento del gravame riduceva l’ammontare del danno risarcibile al solo danno patrimoniale per mancato esercizio della professione, nel quinquennio 1994-1999, liquidato in complessivi Euro 75.000,00 in base al fatturato medio rilevato dal CTU nel periodo lavorativo 1999-2004, decurtato dei costi forfettariamente determinati, ed attualizzato al tempo della pronuncia. La Corte territoriale non riconosceva, invece, il danno non patrimoniale inteso come danno alla reputazione per difetto del nesso causale, dovendo imputarsi allo stesso avvocato la violazione delle norme sul divieto di esercizio della professione, al tempo vigenti, che aveva dato luogo a procedimenti penali e disciplinari. Accoglieva la domanda della Presidenza del Consiglio di condanna del danneggiato alla restituzione del maggior importo corrisposto, a titolo risarcitorio, in esecuzione della sentenza di primo grado, compensando per metà le spese del grado proponeva ricorso per la cassazione avverso la predetta sentenza L.J. . La Presidenza del Consiglio presentava ricorso incidentale. La Corte di Cassazione con sentenza numero 19384 del 30 settembre 2016 rigettava il ricorso principale e quello incidentale propone ricorso in revocazione ai sensi dell’articolo 391 bis c.p.c., L.J. ritenendo la sentenza che affetta da errore di fatto ai sensi dell’articolo 395 numero 4 c.p.c Resiste in giudizio in Presidenza del Consiglio dei Ministri con controricorso. Parte ricorrente deposita memoria ex articolo 380 bis c.p.c. e istanza ex articolo 376 c.p.c. di rimessione della controversia alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Considerato che con il primo motivo il ricorrente deduce l’errore di fatto in cui sarebbe incorsa la Suprema Corte nell’affermare che il ricorrente non aveva espletato gli specifici rimedi apprestati dall’ordinamento processuale per eliminare le norme statali contrarie all’ordinamento comunitario. Al contrario, lo stesso, nei procedimenti amministrativi, disciplinari e penali nei quali si contestava la legittimità dell’attività professionale forense, aveva richiamato costantemente il rispetto delle norme comunitarie, presentando domanda pregiudiziali ignorate o respinte, aveva anche richiesto alla Commissione Europea di aprire una procedura di infrazione ai sensi dell’articolo 169 TUE. Tale richiesta non era stata esaminata dalla Corte di Cassazione. Ha formulato una richiesta al Ministro della Giustizia di modifica della legge numero 31 del 8 febbraio 1982. Altra richiesta di rinvio alla Corte di Giustizia Europea era menzionata nel testo della sentenza del Consiglio Nazionale Forense del 17 dicembre 2009. Si tratta di atti contenuti nei fascicoli dell’attore, relativi ai diversi giudizi di merito affrontati dal ricorrente Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza poiché parte ricorrente avrebbe dovuto allegare non solo l’esistenza di tali atti nei fascicoli relativi ai precedenti giudizi, ma che tali atti erano stati riprodotti indirettamente o comunque allegati ed esattamente individuati nel ricorso per Cassazione proposto avverso la sentenza del 20 settembre 2013 della Corte d’Appello di Roma. Infatti, ai sensi del numero 6 dell’articolo 366 c.p.c., la parte è tenuta oltre a richiamare gli atti e i documenti del giudizio di merito, anche a riprodurli nel ricorso e ad indicare in quale sede processuale fossero stati prodotti Sez. 6 – 3, Ordinanza numero 16134 del 30/07/2015, Rv. 636483 – 01 . Ciò in quanto la revocazione di una sentenza della Corte di Cassazione può essere domandata solo ove sia dedotto che la decisione sia frutto di un errore di fatto, che dia luogo ad un indiscutibile contrasto tra quanto in essa rappresentato e le oggettive risultanze degli atti processuali, sicché, tale impugnazione non è ammissibile qualora, per dimostrare detto errore, sia necessario produrre documenti nuovi, non depositati nelle precedenti fasi di giudizio e non richiamati, ai sensi dell’articolo 366, numero 6, c.p.c., con l’originario ricorso per cassazione Sez. 2 -, Ordinanza numero 14002 del 06/06/2017, Rv. 644473 – 01 Il motivo è, altresì, inammissibile perché l’azione proposta presuppone l’errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza od esistenza di un fatto, positivamente acquisito od escluso nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale. Orbene, nel caso di specie, l’assunto del ricorrente coinvolge profili valutativi e presuppone che “l’omesso ricorso da parte del legale allo specifico rimedio prestato dall’ordinamento processuale per eliminare le predette norme statali dall’ordinamento interno” si riferisca alla presentazione di domande pregiudiziali “ottusamente ignorate o respinte” dagli organi giurisdizionali o amministrativi, alla richiesta di aprire una procedura di infrazione, alla richiesta rivolta al Ministro della Giustizia di modifica della legge numero 31 del 9 febbraio 1982 e di rinvio alla Corte di Giustizia europea. Profilo questo che non è dimostrato e neppure allegato dal ricorrente infine, la circostanza che un certo fatto e le istanze sopra descritte non sia stato considerato dal giudice, non implica necessariamente che quel fatto sia stato espressamente negato nella sua materiale esistenza potendo, invece, esserne stata implicitamente negata la rilevanza giuridica ai fini del giudizio , perché, altrimenti, si ricondurrebbe all’ambito del giudizio per revocazione, piuttosto che nell’ordinario giudizio di impugnazione, ogni fatto che non sia stato espressamente considerato nella motivazione giudiziale Sez. 1, Sentenza numero 3200 del 07/02/2017, numero 643866 – 01 ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di al D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. numero 228 del 2012, articolo 1, comma 17 riguardo al pagamento del doppio contributo. P.T.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.