È il cedente che paga l'IVA se è coinvolto nella falsa dichiarazione d'intenti dell'acquirente

la consapevolezza da parte del cedente della falsità della dichiarazione d’intento presentata da un esportatore abituale comporta l'obbligo per il primo del versamento dell’IVA

Con la sentenza numero 23610 dell’11 novembre, la Corte di Cassazione afferma che, in materia IVA, il soggetto cedente che emetta fattura in regime di non imponibilità, a fronte di dichiarazioni d’intento false poste in essere dall’acquirente quale persona dichiaratasi esportatore abituale, è tenuto a versare la relativa IVA quale imposta evasa oltre alle sanzioni e agli interessi, qualora l’Agenzia delle Entrate gli contesti la mancata applicazione dell’imposta dimostrando con elementi diretti il suo coinvolgimento nella frode attuata dall’acquirente. Gli esportatori abituali possono chiedere la non applicazione dell’imposta. Al riguardo, giova ricordare brevemente come gli «esportatori abituali», cioè quei soggetti che effettuano operazioni non imponibili per un ammontare superiore al 10% del volume d’affari, possono chiedere ai propri fornitori e/o prestatori nei limiti dell’importo delle fatture registrate nell’anno precedente, ovvero, nei dodici mesi precedenti cosiddetto «plafond annuale» o «plafond mensile» , la non applicazione dell’imposta, attraverso una preventiva dichiarazione su appositi modelli denominata anche «lettera d’intento» inviata al proprio fornitore o prestatore. Il caso. La sentenza in commento prende in esame la frode IVA perpetrata attraverso una falsa dichiarazione d’intenti resa dal cessionario che, nella fattispecie, era una mera società filtro cartiera , creata al solo scopo di evitare il pagamento dell’imposta. Si precisa sul punto che il cedente, che riceveva le false dichiarazioni d’intento dalla «cartiera» era in combutta con l’acquirente. Si deve, peraltro, osservare che l’Amministrazione finanziaria aveva accertato nei confronti della società in questione una maggiore IVA dovuta, oltre a sanzioni e interessi, per l’emissione di fatture in regime di non imponibilità, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lett. C , del DPR 633/1972, in assenza dei presupposti previsti. Di diverso avviso erano stati i giudici di merito che ritenevano che l’ammontare complessivo dei corrispettivi delle cessioni fatte nel corso dell’anno solare dalla società in questione non prevedevano la responsabilità del cedente dei beni per una falsa dichiarazione di intenti in quanto la responsabilità solidale era stata introdotta con la legge finanziaria del 2005 articolo 1, comma 384, della legge 311/2004 . I giudici di merito, concludevano, che il contribuente non avesse alcuna responsabilità per l’IVA dovuta, giacché aveva ricevuto le dichiarazioni d’intento dal cessionario e, applicando la normativa sopra indicata, aveva, quindi, correttamente operato in regime di non imponibilità, non essendo responsabile per le false dichiarazioni rilasciate dall’acquirente. Inoltre, secondo gli stessi giudici di merito, il contribuente non avrebbe tratto alcun vantaggio dalla mancata applicazione dell’IVA anzi, aveva dovuto rimandare il recupero dell’imposta versata in eccedenza relativa agli acquisti a momenti successivi. Il cedente era consapevole della falsità della dichiarazione di intenti. La sentenza emessa dai giudici di piazza Cavour afferma che la consapevolezza da parte del cedente della falsità della dichiarazione d’intento presentata da un esportatore abituale, grazie alla quale l’operazione non viene assoggettata ad IVA, «comporta la non sussumibilità di quest’ultima nella fattispecie legale delineata dall’articolo 8 del DPR 633/1972 per mancanza originaria dell’elemento che caratterizza quel modello legale», e di conseguenza il cedente è tenuto a versare egli stesso l’imposta, così come disposto dalla disciplina dell’imposta sul valore aggiunto articolo 17 del DPR 633/1972 . Gli Ermellini hanno ricordato, quindi, le loro precedenti pronunce in base alle quali avevano confermato la legittimità del recupero IVA operato dal Fisco a carico di cedenti, che non avevano applicato l’imposta sulla scorta di false dichiarazioni d’intento pur essendo a conoscenza che la merce sarebbe rimasta in Italia cfr. Cass. 16819/2008, 21956/2010 .

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 11 novembre 2011, numero 23610 Presidente Pivetti – Relatore Greco Svolgimento del processo L'Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte che, rigettando i sette appelli, riuniti, dell'Agenzia delle entrate, ufficio di Ivrea, avverso altrettante decisioni di primo grado, ha confermato, per quanto nella presente sede ancora rileva, l'annullamento di quattro avvisi di accertamento emessi nei confronti della OP Computers spa per il recupero di IVA, IRPEG e IRAP dovute per gli anni 1997, 1998 e 1999 quanto all'IVA, in relazione alla cessione alla GEP srl di beni fatturati come non imponibili ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, numero 633, articolo 8, perché l'acquirente aveva emesso nei confronti della venditrice la dichiarazione d'intento richiesta per l'operazione fatturata, dimostratasi poi non veritiera e fraudolenta quanto alle imposte dirette, in relazione ai costì, per fatture emesse nei detti anni dalle società GEP srl, Swift on Line sas e Ampersand Informatica srl, ritenuti indeducibili, che avevano determinato una variazione nel reddito, con conseguente variazione del carico fiscale. Il giudice d'appello riteneva infatti che la norma contenuta nel D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 8, comma 2, non prevedeva la responsabilità del cedente dei beni per una falsa dichiarazione di intenti, essendo stata introdotta la solidarietà passiva del cedente, a garanzia dell'imposta evasa, correlata all'infedeltà della dichiarazione ricevuta, dalla L. numero 311 del 2004 agli atti non risultava che la contabilità della contribuente fosse stata contestata dalla Guardia di finanza con riguardo ad acquisti non fatturati, pertanto la società non dovrebbe aver tratto vantaggi dalla vendita in esenzione d'IVA alla GEP srl, avendo dovuto rimandare l'incasso dell'eccedenza IVA a credito a tempi più lunghi la OP Computerà inoltre non aveva incassato tutto il pagamento delle merci vendute alla GEP srl. Il fallimento della società contribuente resiste con controricorso proponendo un motivo di ricorso incidentale. Motivi della decisione Il ricorso principale ed il ricorso incidentale devono essere riuniti, in quanto proposti nei confronti della medesima decisione. Con riguardo alla cessione dei beni in regime di esenzione IVA, con il ricorso principale l'amministrazione propone tre motivi con il primo censura la sentenza par vizio di motivazione in quanto, a fronte degli indizi che porterebbero a dedurre il carattere fittizio dell'attività della GEP come esportatore abituale e l'esistenza di un accorcio fraudolento coinvolgente anche la contribuente, ed avente la finalità di immetterne i prodotti sul mercato a prezzi, al netto dell'iva, più competitivi, non avrebbe fornito alcuna motivazione per escludere detto accordo la partecipazione della contribuente a detto accordo fraudolento avrebbe fatto cadere l'argomentazione basata sull'applicazione del D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 8, comma 2, come fonte di responsabilità del solo cessionario, non potendo la OP Computers giovarsi di una limitazione di responsabilità ottenuta con la frode, né di un regime di esenzione in assenza dei suoi presupposti, di tale assenza essendo pienamente consapevole con il secondo, denunciando violazione del D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 1 e 19, contesta la motivazione della sentenza in diritto circa la violazione della disciplina dell'IVA, assumendo che, a parte il vantaggio economico già evidenziato, la contribuente, pagando l'IVA per i propri acquisti e non incassandola per le proprie vendite, porterebbe in detrazione l'intera imposta versata per gli acquisti, senza dover effettuare alcuna compensazione con l'IVA che avrebbe dovuto e potuto incassare se avesse effettuato le sue operazioni in regime di imponibilità con il terzo motivo, nell'ipotesi in cui la ritenuta assenza di vantaggiosità per la contribuente sia stata considerata dal giudice d'appello elemento indiziario dell'inesistenza di un accordo fraudolento, censura la sentenza per insufficiente motivazione, in quanto, essendo stati cancellati e disattesi tutti gli elementi di fatto, riportati nel verbale di constatazione ed analiticamente individuati negli appelli - i cui passi salienti sul punto vengono trascritti -, non sarebbero state spiegate le ragioni per cui non essi costituirebbero indizi favorevoli all'esistenza dell'accordo fraudolento coinvolgente la contribuente, sottolineando in particolare la natura dell'attività svolta dalla GEP e le vicende, considerate esemplari , della vendita di partite di computer al Banco di Napoli ed alla CDC Point spa. Due ulteriori motivi del ricorso principale concernono la deducibilità di costi nei periodi d'imposta 1997, 1998 e 1999 con il quarto motivo l'amministrazione censura infatti la sentenza, sotto il profilo dell'omessa motivazione, per aver confermato le sentenze di primo grado anche su punto della deducibilità o meno dei costi riportati nelle fatture oggetto di contestazione - le quali, riportando dati incompleti, ovvero non presentando le indicazioni richieste obbligatoriamente per essere considerate valide, non chiarivano la natura delle prestazioni rese a favore della contribuente, non consentendo di verificare l'inerenza e la correlazione tra le prestazioni ricevute e l'attività esercitata -, senza indicare le ragioni di tale statuizione con il quinto motivo, denunciando omessa pronuncia su un motivo di appello, violazione dell'articolo 112 c.p.c., in relazione all'articolo 360 c.p.c., numero 4 , nell'ipotesi in cui si ritenesse che la sentenza d'appello non abbia rigettato implicitamente i motivi di impugnazione inerenti la deducibilità dei costi, ma abbia omesso di pronunciarsi su di essi, deduce la nullità in parte qua della sentenza, per error in procedendo, per aver confermato la sentenza di primo grado rigettando il motivo d'appello indirizzato avverso un capo della sentenza di primo grado quello concernente la non imponibilità IVA. delle cessioni effettuate ai sensi del D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 8 , ma omettendo di pronunciarsi su un motivo di appello concernente un altro capo della sentenza appellata. Con l'unico motivo di ricorso incidentale il fallimento della OP Computers spa censura, sotto il profilo del vizio di motivazione, la compensazione delle spese tra le parti disposte dalla Commissione tributaria regionale. Il primo e il terzo motivo, che vanno esaminati congiuntamente siccome strettamente connessi, sono fondati, con assorbimento dell'esame del secondo motivo. Giova anzitutto ricordare che questa Corte ha chiarito come la consapevolezza da parte del soggetto che opera una cessione di beni della falsità della dichiarazione d'intenti emessa, D.L. 29 dicembre 1983, numero 74, ex articolo 1, comma 1, lett. e , convertito in L. 27 febbraio 1984, numero 17 - recante le condizioni per l'applicazione delle disposizioni di cui alla lett. e del D.P.R. 26 ottobre 1973, numero 633, articolo 8, commi 1 e 2, -, da persona dichiaratasi esportatore abituale, sulla cui scorta l'operazione non viene assoggettata ad imposta, comporta la non sussumibilità di quest'ultima nella fattispecie legale delineata dal D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 8, per mancanza originaria dell'elemento che caratterizza quel modello legale. Ne consegue che l'operazione commerciale posta in essere, non potendosi considerare in regime di esenzione, obblighi il cedente, ai sensi del D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 17, a versare egli stesso l'imposta in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto legittimo l'avviso di accertamento per il recupero di IVA non versata, emesso a carico di una società commerciale che aveva ceduto pneumatici ad un soggetto falsamente dichiaratosi esportatore abituale, pur sapendo che la merce sarebbe stata integralmente venduta nel mercato nazionale Cass. numero 16819 del 2008, numero 21956 del 2010 ma già Cass. numero 20894 del 2005 . Il recupero dell'IVA cui gli avvisi di accertamento erano diretti era fondato sulla ritenuta utilizzazione strumentale, da parte della contribuente, ed in difetto dei presupposti fissati dal D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 8, del sistema previsto per le cessioni all'esportazione sulla base della dichiarazione d'intento del cessionario, che nella specie sarebbe stato una società filtro, mera cartiera , al fine di evitare il pagamento dell'imposta. Ed in proposito, con i motivi d'appello, riportati dalla sentenza impugnata e trascritti nel ricorso per cassazione, venivano nuovamente forniti numerosi elementi diretti a provare l'esistenza dell' accordo fraudolento della contribuente con il cessionario. Chiamato a pronunciarsi, il giudice d'appello ha omesso di dare conto dell'esistenza ovvero dell'inesistenza di un accordo siffatto, circostanza costituente fatto decisivo e controverso, limitandosi a richiamare il regime di responsabilità del cedente previsto nella configurazione fisiologica del sistema predisposto dal D.P.R. numero 633 del 1972, articolo 8, ad interrogarsi sul vantaggio che un conportamento elusivo della contribuente avrebbe potuto recare alla stessa in presenza di contabilità formalmente regolare, tanto più che la OP Computers non aveva incassato tutto il pagamento delle merci vendute alla GEP srl . È inoltre fondato il quarto motivo del ricorso, assorbito l'esame del quinto, concernente la deducibilità di costi nei periodi d'imposta 1997, 1998 e 1999, ai fini dell'imposizione IRPEG, ILOR e IRAP. Il giudice d'appello, infatti, pur richiamando nella sentenza impugnata l'appello sul punto dell'Agenzia delle entrate, ufficio di Ivrea - nel prospetto grafico ad apertura dello svolgimento del processo e, nei motivi della decisione , tra pag. 9 e pag. 10 - perviene alla conferma delle sentenze di primo grado, omettendo ogni motivazione in proposito. Il ricorso principale va pertanto accolto, segnatamente in ordine al primo, al terzo ed al quarto motivo, assorbito l'esame del secondo e del quinto, ed assorbito l'esame del ricorso incidentale, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Piemonte. P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il primo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, assorbito l'esame del secondo e del quinto motivo, ed assorbito l'esame del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Piemonte.