In tema di intercettazioni, possono essere acquisite come prove documentali atipiche, le videoriprese non comunicative inerenti ad attività svolte in dimora privata, sempre che sia stata acconsentita l’installazione delle videocamere, e la conseguente acquisizione del materiale probatorio, da parte del proprietario dell’appartamento, ossia del legittimo titolare del diritto, disponibile, alla riservatezza del domicilio. In questi casi, il titolare di tale diritto, rinuncia alla tutela dello stesso in modo consapevole, e perciò non dovrà ritenersi necessaria la preventiva autorizzazione del giudice.
E’ stato così deciso dalla Corte di Cassazione nella sentenza numero 25177, depositata il 13 giugno 2014. Il caso. Il giudice di primo grado assolveva gli imputati per non aver commesso il fatto, poiché le imputazioni, produzione, detenzione e traffico di sostanze stupefacenti, non avevano trovato riscontro, dovendosi ritenere inutilizzabili le risultanze di videoriprese effettuate all’interno di un appartamento. Nonostante il proprietario del suddetto appartamento, imputato in un procedimento connesso, avesse acconsentito all’installazione delle microtelecamere, su autorizzazione del Procuratore, il giudice di merito riteneva inutilizzabili le riprese perché eseguite entro una dimora privata, comportandone l’illiceità come mezzo di prova. Il giudice di secondo grado riformava però la decisione, condannando gli imputati. I soccombenti ricorrevano quindi in Cassazione, lamentando l’inutilizzabilità delle videoriprese, essendo venuto a mancare il consenso imputati, domiciliato anch’essi presso il suddetto appartamento. Nessuna autorizzazione del giudice se c’è il consenso del proprietario. La Corte d’appello aveva rilevato come la tutela dei diritti fondamentali possa venir meno per esigenze processuali probatorie, per cui anche le videoriprese di tipo non comunicativo, in privata dimora, dovrebbero ritenersi valide e lecite, se autorizzate dal giudice con la procedura prevista per le intercettazione, ex articolo 266 c.p.p Tuttavia, nel caso in esame, il proprietario dell’appartamento, titolare del diritto alla riservatezza del domicilio, aveva autorizzato le riprese, perciò, a fortiori, secondo il Giudice territoriale, non era nemmeno necessaria l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Osservava, poi, il giudice che,non essendo stati captati rapporti comunicativi tra i soggetti all’interno dell’appartamento, le videoriprese non potevano essere equiparate alle intercettazioni ambientali, ritenendo ad esse non applicabile la medesima disciplina. Si trattava invece di prova documentale atipica utilizzabile ai sensi degli articolo 191 e 234 c.p.p Il giudice di secondo grado, in sintesi, riteneva tutelato il diritto alla riservatezza del domicilio, poiché in quanto diritto disponibile, il legittimo titolare può rinunciarvi, come era avvenuto nel caso di specie, così da non rendere necessaria nessuna preventiva autorizzazione da parte del giudice. Le videoriprese non comunicative non sono intercettazioni. La Suprema Corte conferma la ricostruzione del giudice territoriale. La giurisprudenza di legittimità difatti ha operato, nel corso della propria attività, una netta distinzione tra le videoriprese di atti comunicativi, riconducibili alla disciplina delle intercettazioni, e quelle di atti non comunicativi che, se effettua in ambienti pubblici, non possono equipararsi alle intercettazioni ambientali. Ma ha poi specificato che, qualora le riprese di atti non comunicativi avvengano in luoghi privati, riconducibili al domicilio, e quindi sottoposti alla tutela ex articolo 14 Cost. e 8 CEDU, la tutela del domiciliato ne impedisce la acquisizione e l’utilizzazione. Il Collegio, però, ricorda la possibilità di rinunciare a tale diritto fondamentale, rinuncia che deve manifestarsi attraverso il consenso, da parte del proprietario, all’acquisizione e utilizzazione delle riprese. L’autorizzazione del soggetto, quindi, fa venir meno ogni profilo di illiceità della prova. La Corte inoltre specifica che, benché gli imputati dichiarassero di dimorare e di avere libero accesso all’abitazione, e che quindi anche loro dovevano ritenersi titolari dello jus excludendi che consegue al diritto di domicilio, era sufficiente l’autorizzazione conferita del legittimo proprietario dell’appartamento e non anche il loro consenso.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 21 maggio – 13 giugno 2014, numero 25177 Presidente Maninno – Relatore Graziosi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 10 dicembre 2012 la Corte d'appello di Milano - a seguito di appello proposto da Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano avverso sentenza del 7 aprile 2008 con cui il Gup del suddetto Tribunale aveva assolto per non aver commesso il fatto P.M. dai reati di cui agli articoli 81 cpv., 110 c.p., 73, comma 1, d.p.r. 309/1990 capo a , 110 c.p., 73, comma 1 bis, d.p.r. 309/1990 capo b , 110 c.p., 73, comma 1, d.p.r. 309/1990 capo c e 99,110 c.p. e 73 d.p.r. 309/1990 capo d e C.S.F. dal suddetto reato di cui al capo d -, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato gli imputati responsabili dei reati loro ascritti, condannando il primo alla pena di sette anni di reclusione e Euro 40.000 di multa e il secondo alla pena di tre anni di reclusione e Euro 20.000 di multa. 2. Ha presentato ricorso il difensore del P. , denunciando violazione degli articoli 189 e 191 c.p.p. nonché 14 Cost. Erroneamente la corte territoriale avrebbe utilizzato i risultati di videoriprese di tipo non comunicativo che costituivano, come aveva ritenuto il giudice di primo grado, una prova illecita. Ha presentato ricorso il difensore del C. , sulla base di tre motivi. Il primo motivo corrisponde a quello del ricorso del difensore del P. . Il secondo motivo denuncia come vizio motivazionale ancora l'inutilizzabilità delle videoriprese, non avendo dato l'autorizzazione il P. , che avrebbe avuto la disponibilità dell'appartamento dove sono state effettuate. Il terzo motivo denuncia vizio motivazionale e violazione degli articoli 133, 62 bis c.p., 73, quinto comma, d.p.r. 309/1990. Non sussisterebbe chiamata di correità del C. e comunque il chiamante non avrebbe indicato l'appartamento come luogo di vendita dello stupefacente da parte del C. . La fattispecie sarebbe stata riconducibile all'articolo 73, quinto comma, d.p.r. 309/1990. In data 5 maggio 2014 entrambi i ricorrenti hanno presentati motivi aggiunti. Il difensore del P. adduce violazione di legge in conseguenza alla sentenza 32/2014 della Corte Costituzionale e all'articolo 533 c.p.p., chiedendo ex articolo 2 c.p. l'applicazione della normativa più favorevole. Il difensore del C. invoca a sua volta la suddetta sentenza della Consulta, e che sia conseguentemente dichiarato il reato estinto per prescrizione. Considerato in diritto 3. I ricorsi sono parzialmente fondati. È il caso di valutare congiuntamente il primo motivo di entrambi i ricorsi, attinente alla utilizzabilità delle prove sulle quali il giudice di secondo grado ha fondato, riformando la sentenza di primo grado, la dichiarazione di responsabilità degli imputati. Il primo giudice di merito aveva affermato che le imputazioni avevano trovato conferma nelle dichiarazioni accusatorie di un imputato in procedimento connesso, A.M. , intrinsecamente attendibile, ma che queste ultime non avevano goduto di alcun riscontro esterno, dovendosi ritenere inutilizzabili le risultanze di videoriprese effettuate all'interno di un appartamento in Milano di proprietà e in uso dell'A. mediante microtelecamere installate con il consenso del proprietario su autorizzazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trieste il chiamante, all'epoca, iniziata la collaborazione con gli inquirenti, aveva indicato l'appartamento quale luogo di occultamento dello stupefacente da parte del C. . Ad avviso del primo giudice, le videoriprese sarebbero inutilizzabili perché eseguite entro una dimora privata e quindi mezzo di prova illecito, perché formato in violazione del diritto alla inviolabilità del domicilio di cui all'articolo 14 Cost La Corte d'appello, invece, ha aderito alle doglianze dell'appellante, che aveva rilevato come la tutela dei diritti fondamentali della persona può essere limitata, secondo le procedure di legge, se è necessario per fini probatori, per cui anche le videoriprese di tipo non comunicativo in privata dimora dovrebbero ritenersi consentite se autorizzate dal giudice con la procedura per le intercettazioni ex articoli 266 ss. c.p.p Peraltro il titolare della tutela ex articolo 14 Cost. era il chiamante, e questi aveva autorizzato le riprese, per cui non era risultata necessaria alcuna autorizzazione preventiva del giudice. Osserva inoltre la corte territoriale che non essendo stati captati rapporti comunicativi tra i soggetti all'interno dell'appartamento le videoriprese non sono equiparabili alle intercettazioni ambientali, per cui non è ad esse applicabile la relativa disciplina si tratta invece di una prova documentale atipica, utilizzabile - in quanto rispettosa del livello minimo di garanzia costituzionale di cui all'articolo 14 Cost. - ex articoli 191 e 234, comma 1, c.p.p. e la tutela della riservatezza del domicilio è diritto disponibile, cui il titolare può legittimamente rinunciare, come è avvenuto nel caso di specie, così da non rendere necessaria effettivamente una preventiva autorizzazione della Autorità Giudiziaria. Ha ritenuto pertanto il giudice d'appello utilizzabile il risultato della captazione, in conformità con giurisprudenza di questa Suprema Corte. L'impostazione della corte territoriale correttamente individua la normativa applicabile nel caso di specie. La giurisprudenza di legittimità, inquadrandosi nei vari interventi relativi all'articolo 14 Cost. nonché all'articolo 8 CEDU della Corte Costituzionale sentenze 135/2002, 149/2008 e 320/2009 , ha operato una netta distinzione tra le videoriprese di atti comunicativi, riconducibili alla disciplina delle intercettazioni, e quelle di atti non comunicativi mere condotte, che non hanno nessun valore esprimente sono comunque comunicative, assoggettando così la relative videoriprese alla disciplina delle intercettazioni, tutte quelle condotte che hanno un significato fungibile con la comunicazione verbale/scritta, come un gesto di assentimento o di rifiuto, espressioni fisionomiche ecc , che non rientrano nella qualifica di intercettazioni e, se effettuate in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico, sono utilizzabili come prove atipiche ex articolo 189 c.p.p. Qualora invece le videoriprese di atti non comunicativi siano effettuate in luoghi riconducibili al domicilio, e quindi sottoposti alla tutela di cui agli articoli 14 Cost. e 8 CEDU, la tutela in tal senso di chi è ivi domiciliato ne impedisce l'utilizzazione e, prima ancora, anche l'acquisizione, escludendo l'applicabilità dell'articolo 189 c.p.p. in quanto sono qualificabili prove illecite S.U. 28 marzo 2006 numero 26795 . Si tratta, peraltro, della tutela di un diritto disponibile, per cui, qualora le riprese siano effettuate con il consenso del titolare al diritto di tutela del domicilio, si esce da ogni profilo di illiceità, cosicché la prova, come atipica, risulta utilizzabile senza necessità di autorizzazione dell'autorità giudiziaria in tal senso Cass. sez. III, 7 luglio 2010 numero 37197, nonché Cass. sez. II, 13 dicembre 2007-10 gennaio 2008 numero 1127, quest'ultima richiamata anche dalla corte territoriale . Erroneamente, dunque, il primo giudice aveva ritenuto inutilizzabili i risultati delle videoriprese e infondate sono invero le argomentazioni dei due ricorrenti sulla pretesa violazione del diritto ex articolo 14 Cost. Quanto poi all'allegazione che nell'appartamento in cui sono state effettuate dimorasse e avesse libero accesso anche il P. , presentata nel ricorso suo difensore, e alla analoga allegazione del difensore del C. che il P. avesse la disponibilità dell'appartamento e quindi fosse titolare dello jus excludendi che consegue al diritto di domicilio, ciò non muta quanto appena rilevato in termini di utilizzabilità delle riprese come prove atipiche lecite. È infatti pacifico che il proprietario dell'appartamento era il chiamante A. , e non è discusso neppure che questi avesse domicilio nell'appartamento. L'autorizzazione conferita dal suddetto, dunque, è sufficiente per consentire la ripresa di immagini di atti non comunicativi cfr. la già citata Cass. sez. III, 7 luglio 2010 numero 37197, riguardante un caso in cui uno di due soggetti che fruivano del luogo come domicilio ha filmato gli atti non comunicativi riprendendo l'altro soggetto senza sua autorizzazione e a sua insaputa, caso in cui i risultati delle videoriprese sono stati ritenuti utilizzabili , non potendosi sostenere che la compresenza di più soggetti titolari del diritto alla riservatezza domiciliare renda tamquam non esset l'atto dispositivo del diritto effettuato da uno di loro e ciò tanto più in considerazione della esigenza di bilanciamento dei valori costituzionali, essendo stata nel caso di specie concessa l'autorizzazione al fine di fronteggiare un'attività criminosa. In conclusione, i motivi attinenti alla inutilizzabilità presenti in entrambi i ricorsi devono essere rigettati. 4. Rimane, del ricorso del difensore del C. , il terzo motivo, che si compone di due doglianze. La prima riguarda la pretesa illogicità della motivazione sul trattamento sanzionatorio in contrasto con gli atti del processo, e la seconda denuncia violazione di legge per mancata applicazione del quinto comma dell'articolo 73 d.p.r. 309/1990. Le due doglianze possono essere valutate congiuntamente, perché mirano entrambe a sostenere che la condotta criminosa del C. sarebbe stata di lieve entità. Ma anziché dimostrare realmente l'esistenza di un vizio di illogicità della motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente ne riporta stralci per poi metterli a confronto con una elencazione di dati fattuali che, a suo avviso, sarebbero l'esito del compendio probatorio. È evidente, pertanto, l'inammissibilità di una simile doglianza, che consiste in una versione alternativa della vicenda criminosa. Quanto poi all'indicazione dei presupposti ad avviso del ricorrente sussistenti per la concessione delle attenuanti generiche, nuovamente il ricorrente non riesce a enucleare un effettivo vizio motivazionale, né tanto meno una violazione di legge, bensì manifesta la sua non condivisione con le valutazioni fattuali - in questa sede non verificabili nella loro condivisibilità - operate dal giudice di merito. Complessivamente, dunque, il motivo va rigettato. 5. Rimangono i motivi aggiunti da entrambi i ricorrenti. Nel caso in esame i reati in questione riguardano stupefacenti del tipo marijuana e hashish. Per ambedue gli imputati la corte territoriale ha scelto come pena base sei anni di reclusione e Euro 30.000 di multa, collocandosi così sul massimo edittale attualmente vigente, coincidente con il minimo edittale vigente al momento in cui il giudice di merito ha operato la sua scelta dosimetrica. Il riferimento dai motivi, infatti, è alla ormai nota sentenza numero 32 del 25 febbraio 2014 pronunciata dalla Corte Costituzionale per dichiarare l'illegittima costituzionalità degli articoli 4 bis e 4 vicies ter d.l. 30 dicembre 2005 numero 272, come convertiti con modificazioni dall'articolo 1 I. 21 febbraio 2006 numero 49, così rimuovendo le modifiche da essi apportate agli articoli 73, 13 e 14 d.p.r. 9 ottobre 1990 numero 309. Ritornano così applicabili, tra l'altro, i commi primo e quarto dell'articolo 73 come erano dettati prima del suddetto intervento normativo, e dunque recupera vigenza l'irrogazione di una pena più mite nei reati attinenti alle c.d. droghe leggere da due a sei anni di reclusione, oltre a multa, anziché da sei a venti anni di reclusione, oltre a multa . Pur non avendo, dunque, la pena base determinata dalla corte territoriale matematicamente superato i limiti edittali ora reintrodotti, emerge con evidenza che la scelta è stata compiuta sulla base di una misura diversa nell'identificazione della pena base il giudice di merito partiva da quello che all'epoca era il minimo della pena base, e che ora è tornato ad essere il massimo , per cui l'apparente correttezza numerica non esime dalla necessità di una rideterminazione della pena v. Cass. sez. VI, 20 marzo 2014 numero 15152 per entrambi gli imputati, con ogni conseguenza di legge. Deve pertanto annullarsi la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano, rigettando nel resto ambedue i ricorsi. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Milano. Rigetta nel resto i ricorsi.