Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati ha il potere di disporre in via cautelare la sospensione dall’attività professionale sulla base di una valutazione d’incompatibilità dell’addebito con l’esercizio della professione.
Lo hanno stabilito le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione con la sentenza numero 19711/2012, depositata il 13 novembre. Il caso. Un avvocato veniva processato e condannato in primo grado per i reati di falso ed appropriazione indebita e, in via cautelare, l’Ordine degli Avvocati competente aveva disposto la sospensione dall’esercizio della professione forense. Il legale impugnava il provvedimento innanzi al CNF, senza però ottenere l’annullamento dello stesso. Ecco perché propone ricorso per cassazione, lamentando che la sospensione cautelare era stata adottata solo dopo l’emissione della sentenza penale di condanna, quindi a notevole distanza temporale dei fatti addebitati all’incolpato, senza tener conto inoltre che i fatti non erano gravi e in assenza di qualsiasi esigenza cautelare. Sospensione cautelare indipendentemente dalle indagini. Le Sezioni Unite Civili chiamate a decidere sulla questione, ribadendo un principio già espresso Cass., SSUU, numero 28505/2005 , precisano che il COA «ha il potere di disporre in via cautelare la sospensione dall’attività professionale sulla base di una valutazione d’incompatibilità dell’addebito con l’esercizio della professione, indipendentemente da ogni indagine sulla consistenza dell’incolpazione, che rimane riservata al giudice penale». Pertanto, conclude la S.C., il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 6 – 13 novembre 2012, numero 19711 Presidente Preden – Relatore Rordorf Esposizione del fatto Il 22 giugno 2011 il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Monza dispose la sospensione cautelare dell'avv. P.D. dall'esercizio della professione forense. L'impugnazione proposta dall'avv. P. avverso tale provvedimento fu rigettata dal Consiglio Nazionale Forense con decisione depositata il 30 gennaio 2012. Detto consiglio ritenne che la sospensione cautelare fosse adeguatamente motivata, sia con riferimento alla gravità delle imputazioni penali elevate a carico del professionista, pur dovendosi prescindere in sede disciplinare da ogni giudizio circa la loro fondatezza, sia con riguardo allo strepitus fori che ne era derivato, testimoniato da articoli di stampa apparsi sui quotidiani. Escluse poi il consiglio che, ai fini dell'adozione della misura cautelare, si dovesse attendere la pronuncia di una sentenza definitiva all'esito del processo penale cui l'avv. P. era stato sottoposto e reputò che non avesse rilievo il tempo decorso dal momento della commissione dei fatti addebitati al professionista, non bastando ciò ad attenuare l'attualità dell'allarme sociale cagionato da quei fatti. Per la cassazione di tale decisione l'avv. P. ha proposto ricorso, articolato in due motivi ed illustrato da successiva memoria. Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Monza ha resistito con controricorso. Ragioni della decisione 1. Col primo motivo di ricorso l'avv. P. lamenta un vizio del procedimento, consistente nel fatto che il Consiglio Nazionale Forense avrebbe acquisito d'ufficio il dispositivo e la copia integrale della sentenza penale di condanna in primo grado, emessa nei suoi confronti per reati di falso ed appropriazione indebita, non allegata al fascicolo trasmesso dai Consiglio dell'Ordine di Monza. La censura appare inammissibile, per difetto di rilevanza, atteso che il fatto storico dell'emissione di detta sentenza di condanna non è contestato, e che non si evidenzia alcun profilo della decisione impugnata rispetto al quale possa avere avuto incidenza decisiva la lettura di specifiche affermazioni contenute nella motivazione o nel dispositivo di quella sentenza. 2. Il secondo motivo di ricorso è volto a denunciare la violazione dell'articolo 43 del r.d.l. 27 novembre 1933, numero 1578, per essere stata la sospensione cautelare adottata a notevole distanza temporale dai fatti addebitati all'incolpato, solo dopo l'emissione della sentenza penale di condanna di primo grado a carico del professionista, e senza tener conto né del fatto che si sarebbe trattato di comportamenti non gravi e non reiterati, né dell'assenza di qualsiasi effettiva esigenza cautelare, rispetto alla quale era mancata comunque un'idonea motivazione. Nemmeno tali doglianze appaiono meritevoli di accoglimento. Questa corte ha già avuto modo di precisare che l'articolo 43, 3 comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, numero 1578, conferisce al consiglio dell'ordine il potere di disporre in via cautelare la sospensione dall'attività professionale sulla base di una valutazione d'incompatibilità dell'addebito con l'esercizio della professione, indipendentemente da ogni indagine sulla consistenza dell'incolpazione, che rimane riservata al giudice penale cfr. Sez. unumero 23 dicembre 2005, numero 28505 . Ciò premesso, le considerazioni che il ricorrente svolge per sostenere che quelli per i quali egli è stato condannato penalmente in primo grado sarebbe comportamenti di scarso rilievo, in difetto di ogni loro reiterazione, si risolvono in una valutazione di merito, non consentita in questa sede. L'asserita insufficienza della motivazione della decisione cautelare al riguardo, d'altronde, non sussiste giacché il riferimento alla già ricordata condanna penale, per fatti inerenti all'esercizio dell'attività professionale dell'incolpato, e l'eco che ne è derivato sulla stampa costituiscono ragioni idonee a giustificare, sul piano dell'argomentazione logica, l'esigenza cautelare sulla quale il provvedimento del consiglio dell'ordine si è basato. Quanto, poi, al tempo decorso tra la commissione dei fatti per i quali il professionista è stato imputato e l'adozione del provvedimento impugnato, è sufficiente osservare che la già rilevata esigenza cautelare è stata desunta anche e proprio dallo strepitus fori determinato dalla pronuncia di condanna penale sulla non arbitrarietà di una tale deduzione si veda la sentenza di queste sezioni unite 25 novembre 2009, numero 24760 e, rispetto al momento in cui questo strepitus fori si è manifestato, non può parlarsi di inattualità della misura cautelare, né a tale effetto ha rilievo la circostanza che il relativo procedimento fosse stato già da alcun tempo avviato dal competente consiglio dell'ordine. 3. Il ricorso, dunque dev'essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.