Formazione professionale: il Comune non può escludere gli stranieri extracomunitari

Vittoria per una donna, che si era vista esclusa dalla partecipazione di un corso gratuito per ‘make up artist’ solo sulla base della sua nazionalità. Censurato l’ente locale perché aveva considerato come possibili candidate solo le donne italiane o cittadine di uno Stato dell’Unione Europea. Il Giudice ha obbligato il Comune a correggere l’avviso pubblicato, fissando un nuovo termine per la presentazione delle domande di partecipazione.

Deve essere garantita anche agli stranieri extracomunitari la possibilità di presentare domanda per la partecipazione al corso di formazione gratuito organizzato dall’ente locale. A fissare questo principio è il Tribunale di Nola, sanzionando un Comune campano, che aveva escluso i soggetti residenti extracomunitari dai possibili destinatari di un corso gratuito per ‘make up artist’. Nello specifico, il giudice ha ritenuto “discriminatorio” il ‘no’ alla domanda presentata da una donna straniera extracomunitaria ma residente nel territorio comunale Tribunale di Nola, ordinanza numero 21248, Sezione Lavoro, depositata il 13 settembre 2018 . Corso. Ben definito il terreno di scontro col Comune secondo la donna è evidente «il carattere discriminatorio dell’avviso pubblico», risalente al settembre del 2017, per la partecipazione a «corsi di formazione gratuiti per ‘make up artist’», nella parte in cui «esclude i soggetti residenti extracomunitari». Consequenziale è la richiesta avanzata al Tribunale di Napoli, cioè «ordinare al Comune di modificare l’avviso fissando un nuovo termine per la presentazione delle domande, ammettendo tutte le straniere non comunitarie alle stesse condizioni di quelle italiane o comunitarie». Chiara anche la linea difensiva seguita dal Comune, secondo cui, innanzitutto, «non ricorre una ipotesi di discriminazione collettiva, non essendo provata la presenza nel territorio comunale di un numero tale di donne straniere non specificamente individuabili che abbiano tutti gli altri requisiti richiesti nel bando oltre la nazionalità». Allo stesso tempo, il legale dell’ente pubblico evidenzia che la donna «era sprovvista di regolare permesso di soggiorno, e comunque non legittimata a partecipare al corso di formazione», per aggiungere poi che è escluso «vi sia discriminazione nei casi di esclusione di cittadini stranieri nell’accesso al pubblico impiego». Esclusione. Il disagio lamentato dalla cittadina extracomunitaria viene ritenuto concreto dal Tribunale di Nola, che, in premessa, ricorda che «il principio di parità di trattamento» va applicato anche all’«accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali». Proprio alla luce di questo principio, «la violazione del divieto di discriminazione» compiuta dal Comune campano «appare evidente», non essendo stati nemmeno «addotti eventuali ragioni motivazioni che potessero giustificare l’esclusione» di possibili candidate al corso di formazione «in ragione della nazionalità». A questo proposito, viene evidenziato che «l’avviso pubblico indetto dal Comune per l’accesso al corso gratuito di formazione per ‘make up artist’» era «riservato alle sole donne di cittadinanza italiana o di altro Stato dell’Unione Europea, residenti nel Comune, di età compresa tra 18 e 45 anni, prive di occupazione e qualifica professionale» tutti requisiti «posseduti dalla donna» che ha scelto di adire le vie legali contro l’ente locale, tutti tranne «la cittadinanza italiana o europea». Peraltro, viene aggiunto dal Tribunale, «il principio di parità di trattamento nell’accesso alla formazione è espressamente previsto dal ‘Testo unico sull’immigrazione’», laddove si stabilisce che «lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano. Lo stesso ‘Testo unico’ definisce espressamente in termini di discriminazione, qualunque comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza, le convinzioni e le pratiche religiose» o, come in questo caso, «l’origine nazionale o etnica». Una volta appurata «la violazione del divieto di discriminazione» realizzata dal Comune, quest’ultimo viene condannato a «modificare l’avviso, fissando un nuovo termine per la presentazione delle domande, ammettendo tutte le straniere non comunitarie alle stesse condizioni di quelle italiane o comunitarie».

Tribunale di Nola, sez. Lavoro, ordinanza 13 settembre 2018, numero 21248 Giudice Di Palma Con ricorso depositato in data 12.3.18 la parte ricorrente in epigrafe chiamava in giudizio il convenuto Comune al fine di sentir accertare e dichiarare il carattere discriminatorio dell’Avviso Pubblico indetto dal Comune convenuto in data 4.9.17 per la partecipazione a corsi di formazione gratuiti per make up artist, nella parte in cui esclude soggetti residenti extracomunitari, chiedendo, a titolo di rimozione degli effetti della accertata discriminazione, di ordinare al Comune di modificare l’avviso fissando un nuovo termine per la presentazione delle domande, ammettendo tutte le straniere non comunitarie alle stesse condizioni di quelle italiane o comunitarie, ovvero in subordine, laddove il corso sia stato già completato, reiterare identico corso per le straniere non comunitarie in via subordinata, laddove non fosse possibile l’adozione degli indicati rimedi, condannare l’amministrazione convenuta al risarcimento dei danni patiti, patrimoniali e non condannare altresì l’amministrazione convenuta a risarcire i danni subiti da ciascuna delle potenziali partecipanti straniere al corso, ovvero condannare l’amministrazione convenuta a risarcire direttamente alle associazioni ricorrenti i danni subiti in relazione alla perpetrata discriminazione collettiva. Si costituiva in giudizio il Comune convenuto eccependo in via preliminare il difetto di legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti ritenendo che nel caso di specie non ricorra una ipotesi di discriminazione collettiva, non essendo provata la presenza nel comune convenuto di un numero tale di donne straniere non specificamente individuabili che abbiano tutti gli altri requisiti richiesti nel bando oltre la nazionalità, quali presupposti per la proposizione di una azione collettiva in secondo luogo eccependo il difetto di interesse ad agire della ricorrente in quanto sprovvista di regolare permesso di soggiorno, comunque non legittimata a partecipare al corso nel merito contestando la fondatezza della domanda ritenendo che consolidata giurisprudenza esclude che vi sia discriminazione nei casi di esclusione di cittadini stranieri nell’accesso al pubblico impiego. All’odierna udienza, acquisiti agli atti i documenti prodotti, la causa è stata decisa con la presente ordinanza. La domanda appare fondata e va accolta per quanto di ragione. In via preliminare va respinta l’eccezione di difetto di interesse ad agire della ricorrente, avendo la stessa documentato in prima udienza l’avvio della procedura di rinnovo del permesso scaduto. Quanto al rito, l’articolo 28 D.Lgs. 150/2011 statuisce che “Le controversie in materia di discriminazione di cui all'articolo 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286, quelle di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, numero 215, quelle di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, numero 216, quelle di cui all'articolo 3 della legge 1. marzo 2006, numero 67, e quelle di cui all'articolo 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, numero 198, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo”. Orbene, l’articolo 4 D.Lgs. 216/2003, al comma 2, dispone che “La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all'articolo 2 si svolge nelle forme previste dall'articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286.”. L’articolo 2 surrichiamato, a sua volta dispone “Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall'articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. L’articolo 3, infine, definisce l’ambito d’applicazione della suddetta disciplina laddove statuisce che “1.Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree a accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione b occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento c accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali d affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni. 2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di a condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all'occupazione, all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato b sicurezza e protezione sociale c sicurezza pubblica, tutela dell'ordine pubblico, prevenzione dei reati e tutela della salute d stato civile e prestazioni che ne derivano e forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap. 3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima. Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell'idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare”. E’ di tutta evidenza che la fattispecie sottoposta al vaglio dell’odierno giudicante sia perfettamente riconducibile all’ipotesi di cui alla let. C dell’articolo 3 summenzionato, venendo in rilievo un avviso pubblico indetto dal comune convenuto per l’accesso ad un corso gratuito di formazione per make up artist, riservato alle sole donne di cittadinanza italiana o di altro stato UE, residenti nel Comune di Palma Campania, di età compresa tra 18 e 45 anni, prive di occupazione e qualifica professionale. Trattasi di requisiti tutti posseduti dalla ricorrente ad eccezione della cittadinanza italiana o Europea. Peraltro il principio di parità di trattamento nell’accesso alla formazione è espressamente previsto dal TU Immigrazione d.lgs. 286/98, ai sensi del quale lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano. Lo stesso Testo Unico, all’articolo 43 definisce espressamente in termini di discriminazione, qualunque comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose . La violazione del divieto di discriminazione nel caso di specie appare dunque evidente, non avendo il Comune nemmeno addotto eventuali ragionevoli motivazioni che potessero giustificare l’esclusione in ragione della nazionalità. Invero, sul punto il Comune si difende ritenendo che in materia di accesso al Pubblico Impiego, copiosa Giurisprudenza di legittimità ha ritenuto non discriminatoria l’esclusione in ragione del difetto del requisito della cittadinanza. Trattasi di ipotesi, tuttavia, decisamente differenti da quella in esame sicchè la giurisprudenza allegata appare poco pertinente in cui non si discute di accesso ad un pubblico impiego, bensì di partecipazione ad un corso formativo indetto dal Comune senza alcuna instaurazione di rapporti lavorativi, e dunque solo finalizzato a favorire l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro. Accertata dunque la discriminazione perpetrata ai danni della ricorrente, occorre vagliare la tutela applicabile. Invero, l’articolo 28 D.Lgs. 150/2011 statuisce che “Con l'ordinanza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l'ente collettivo ricorrente. 6. Ai fini della liquidazione del danno, il giudice tiene conto del fatto che l'atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. 7. Quando accoglie la domanda proposta, il giudice può ordinare la pubblicazione del provvedimento, per una sola volta e a spese del convenuto, su un quotidiano di tiratura nazionale. Nel caso di specie, non avendo nessuna delle parti dedotto o documentato né che il corso sia effettivamente già cominciato né che si sia eventualmente già concluso, va accolta la domanda principale con condanna del Comune convenuto a modificare l’avviso fissando un nuovo termine per la presentazione delle domande, ammettendo tutte le straniere non comunitarie alle stesse condizioni di quelle italiane o comunitarie. Va di contro, rigettata, la domanda risarcitoria formulata dalle associazioni ricorrenti in virtù della natura collettiva della discriminazione perpetrata, in difetto dei presupposti per l’esercizio di una azione collettiva. Se da un lato, può ritenersi sussistente la legittimazione ad agire delle suddette associazioni anche a sostegno della ricorrente sul punto vedasi articolo 5 D.Lgs. 216/2003 “Legittimazione ad agire.1. Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell'articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l'atto discriminatorio. , dall’altro il secondo comma dell’articolo 5 D.Lgs. 216/2003 puntualizza che “Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.”. Orbene, nella fattispecie in discorso, trattandosi di Comune di piccole dimensioni e di bando riferito alle sole donne residenti con precisi requisiti anagrafici e senza occupazione, non sarebbe stato difficile individuare specificamente i soggetti potenzialmente lesi dalla discriminazione in commento, sicchè difetta a monte il presupposto per una azione collettiva. Per tutte le ragioni suesposte, la domanda va accolta nei termini di cui in motivazione. Le spese di lite seguono la soccombenza, previa compensazione per metà in ragione del parziale accoglimento, e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale così provvede - accoglie la domanda e per l’effetto condanna il Comune convenuto a modificare l’avviso fissando un nuovo termine per la presentazione delle domande, ammettendo tutte le straniere non comunitarie alle stesse condizioni di quelle italiane o comunitarie - rigetta nel resto - condanna parte resistente al rimborso delle spese di lite che, compensate per metà, liquida nel residuo in Euro. 500,00, oltre spese forfettarie, iva e cpa come per legge con attribuzione.