È reato indurre la figlia minore a ""tagliare i ponti"" con il padre

Condannata la madre che, eludendo dolosamente un provvedimento del giudice, ha messo la figlia minore contro il padre.

La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 35313/2011 depositata il 29 settembre, ha confermato la condanna a una mamma che, eludendo dolosamente un provvedimento del giudice, ha messo la figlia minore contro il padre, inducendola a rifiutare ogni rapporto con quest'ultimo.Il caso. Una donna veniva condannata alla pena di 4 mesi di reclusione pena rideterminata in appello a euro 600 per non aver eseguito dolosamente un provvedimento del giudice civile, in merito all'affidamento della figlia minore articolo 388, comma 2, c.p. . In pratica, la donna aveva impedito al padre di incontrare la figlia nei giorni stabiliti dal giudice. Oltre al giudice di primo grado, anche la Corte distrettuale, a sua volta, aveva evidenziato il notevole condizionamento psicologico esercitato dalla madre sulla figlia minore a lei affidata, determinando così nella bimba il rifiuto a coltivare un equilibrato rapporto con il padre . Per questo, e a seguito dell'intervento dei servizi specialistici, la donna era stata sospesa per 6 mesi dalla potestà genitoriale.Nel ricorso per cassazione, presentato dall'imputata, si sottolinea che la sua condotta era stata ispirata soltanto dalla volontà di evitare traumi alla figlia, provocati dal comportamento aggressivo del suo ex marito.L'astio per il marito ha influito negativamente sul rapporto padre-figlia. La Corte Suprema ha precisato, avallando quanto osservato dai servizi sociali, che il pesante condizionamento psicologico, esercitato dalla ricorrente sulla minore, aveva determinato nella bimba un forte disagio, portandola a rifiutare la figura paterna. I giudici di legittimità hanno evidenziato che il rifiuto della minore è conseguenza del condizionamento psicologico subìto dalla bambina, sin dai primi anni della sua crescita, proprio ad opera della madre. Il ricorso viene quindi rigettato e la donna condannata al pagamento delle spese di giudizio.

Corte di Cassazione, sentenza 29 settembre 2011, numero 35513Fatto e dirittoIl Tribunale di Trieste, con sentenza 27/3/2006, dichiarava R. G. colpevole del reato di cui agli articolo 81 cpv. e 388/2 c.p. - per avere eluso il provvedimento del giudice civile concernente l'affidamento della figlia minore G., impedendo al padre, P. M., di incontrarla nei giorni stabiliti ottobre 2001/novembre 2005 - e la condannava, in concorso delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi quattro di reclusione, con i benefici della sospensione condizionale e della non menzione della condanna.A seguito di gravame dell'imputata, la Corte d'Appello di Trieste, con sentenza 6/4/2009, riformando in parte la decisione di primo grado, che confermava nel resto, circoscriveva il periodo di consumazione del reato tra il dicembre 2003 e il giugno 2005 e rideterminava la pena in € 600,00 di multa.Il Giudice distrettuale riteneva che l'espletata istruttoria aveva evidenziato il notevole condizionamento psicologico esercitato dalla G. sulla figlia minore G., a lei affidata, sì da determinare nella bimba il rifiuto a coltivare un equilibrato rapporto con il padre tale atteggiamento dell'imputata, geneticamente riconducibile al permanente rapporto conflittuale della medesima con l'ex marito, aveva provocato anche l'intervento del Tribunale dei Minorenni che, con decreto 2/4/2003, aveva disposto l'intervento di sostegno dei servizi specialistici, finalizzato a favorire la graduale ripresa della relazione tar la minore e il padre, e, con successivo decreto 7/9/2004, aveva disposto accertamenti, tramite il Consultorio familiare, sulle capacità genitoriali della G. a cui aveva fatto seguito la sospensione di costei per sei mesi dalla potestà genitoriale.Ha proposto ricorso per cassazione l'imputata, deducendo 1 illogicità e contraddittorietà della motivazione, che - per un verso - aveva ricondotto il rifiuto della minore ad incontrare il padre all'influenza negativa su di lei esercitata dalla madre affidataria e - per altro verso - non aveva dato alcun rilievo al pur accertato comportamento litigioso e aggressivo del M., il che avrebbe imposto di acquisire la diretta testimonianza della minore e un'eventuale indagine psicologica sulla stessa 2 mancanza di motivazione sull'elemento psicologico del reato, non essendosi considerato che la sua condotta era stata ispirata soltanto dalla volontà di evitare traumi alla figlia, provocati dal detto comportamento del genitore.Il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.Le doglianze in esso articolate non pongono in crisi l'apparato argomentativo su cui riposa la sentenza di merito, che, facendo buon governo della legge penale, dà conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni che giustificano le conclusioni alla quale perviene.non è dato, invero, riscontrare alcuna illogicità o contraddittorietà della motivazione nella parte in cui, ravvisandosi nella condotta della G. gli estremi del reato contestatole, non si manca di sottolineare che tale condotta era stata in parte indotta anche dalla particolare aggressività e animosità del M. . Il comportamento di quest'ultimo, nel quale la ricorrente - in maniera assertiva - individua la principale causa del rifiuto della minore di incontrare il padre, deve invece essere letto, secondo la persuasiva e coerente ricostruzione dei giudici di merito, come l'espressione reattiva, nell'ambito del rapporto conflittuale tra i due coniugi separati, alla sistematica elusione da parte della G. del provvedimento giudiziario concernente l'affidamento della figlia minore, tanto che il M. in più occasioni aveva dovuto sollecitare l'intervento dei Carabinieri e si era visto costretto a sporgere ripetute querele contro la moglie, che, a sua volta, aveva irrigidito sempre più il suo atteggiamento.In sostanza, come bene argomenta la sentenza in verifica, i rapporti tra i coniugi G. M., erano rimasti, dopo la separazione, molto tesi e conflittuali e la G. in particolare, alla quale era stata affidata la figlia minore, non era stata in grado di evitare che il suo astio verso il marito si riverberasse negativamente sul rapporto padre-figlia, rapporto che aveva sistematicamente ostacolato, non ottemperando così a quanto statuito in sede di separazione consensuale, omologata dal Tribunale di Trieste in data 20/9/2000, e soprattutto al suo dovere di assicurare alla figlia una crescita equilibrata e serena.Il pesante condizionamento psicologico esercitato dall'imputata sulla minore, infatti, aveva determinato in costei, come accertato dai servizi sociali, un forte disagio, sino al punto da indurla al rifiuto della figura paterna, atteggiamento certamente non riconducibile ad una consapevole capacità di autodeterminazione della minore, che all'epoca della separazione dei genitori aveva solo quattro anni. Tale situazione, chiaramente indicativa della incapacità dell'imputata di garantire alla figlia un normale rapporto con la figura paterna, favorendo tale rapporto ed evitando qualunque interferenza sullo stesso delle problematiche interne alla coppia, aveva provocato l'intervento del Tribunale per i Minorenni a tutela della minore.Ciò posto, nessun dubbio è legittimo in ordina alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, punito a titolo di dolo generico. La ricorrente, su questo punto specifico, sostiene di avere voluto evitare alla figlia il trauma di forzati incontri col padre dalla stessa rifiutati non considera, però, che tale rifiuto era la conseguenza del condizionamento psicologico subìto dalla bambina, sin dai primi anni della sua crescita, proprio ad opera della madre.La sentenza di merito, infine, ritenendo ogni aspetto della vicenda sufficientemente chiarito sulla base del materiale probatorio acquisito, coerentemente disattende la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, al fine di acquisire la testimonianza della minore, mezzo di prova superfluo e non idoneo, considerato lo stato di condizionamento psicologico della bimba, ad accreditare una eventuale, diversa interpretazione della vicenda.Al rigetto del ricorso consegue, di diritto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.P.Q.M.Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.