La previsione dell’affidamento con procedura ad evidenza pubblica non viola le competenze delle Regioni

Le modalità di organizzazione e affidamento dei servizi pubblici locali introdotte con il c.d. decreto liberalizzazioni - che prevedono, tra l’altro, l’inserimento dell’affidamento dei servizi con procedura ad evidenza pubblica tra gli elementi di valutazione della virtuosità degli enti - non privano le Regioni delle loro competenze, ma semplicemente ne orientano l’esercizio in base ai principi indicati dal legislatore statale.

Lo ha chiarito la Corte Costituzionale con la sentenza numero 46/13, depositata il 20 marzo. Il ricorso. La decisione della Corte ha per oggetto il ricorso presentato dalla Regione Veneto, riguardante più disposizioni del D.l. numero 1/2012 c.d. decreto liberalizzazioni, poi convertito, con modificazioni, dalla l. numero 27/2012 , ed in particolare l’articolo 25, comma 1, lett. a la norma impugnata inserisce nel D.l. numero 138/2011 l’articolo 3 bis, il quale ridetermina le modalità di organizzazione e affidamento dei servizi pubblici locali, per meglio garantirne l’efficienza e la concorrenzialità. L’obbligo di usare la procedura ad evidenza pubblica. La ricorrente sottolinea anzitutto che, anche se in base alla giurisprudenza costituzionale la disciplina dei servizi pubblici locali rientra nella materia «tutela della concorrenza», di competenza statale esclusiva, l’esigenza primaria deve essere quella di dare centralità ai destinatari del servizio, la cui responsabilità ricade sull’ente locale. In particolare, secondo la Regione, la disposizione impugnata obbligherebbe di fatto le Regioni e gli enti territoriali ad utilizzare sempre la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi e non le procedure in house, con l’obiettivo di evitare così le conseguenze negative derivanti dall’eventuale mancata inclusione della Regione fra gli enti virtuosi tale previsione contrasterebbe, ai sensi dell’articolo 117, comma 1, Cost., con la disciplina comunitaria, la quale non esclude affatto la possibilità dell’affidamento in house. La procedura in house può essere più efficiente? In materia, non pare corretto operare una valutazione negativa ex ante, poiché è possibile che questa tipologia di affidamento di servizi si dimostri in concreto più efficiente e virtuosa attualmente, invece, gli enti territoriali sono privati della possibilità di valutare le proprie esigenze e di scegliere la modalità di gestione dei servizi a loro più convenienti, in violazione dell’autonomia regionale, prevista dall’articolo 118 Cost. nell’esercizio delle funzioni amministrative. Gli obiettivi del decreto liberalizzazioni. La Consulta premette che il D.l. numero 1/2012 mira a ottenere un contenimento della spesa pubblica attraverso la tutela della concorrenza liberalizzazione nella fattispecie in oggetto, il legislatore statale ha ritenuto che questo obiettivo si potesse meglio realizzare affidando i servizi pubblici locali mediante gare ad evidenza pubblica, in quanto tale meccanismo dovrebbe comportare un risparmio dei costi e una migliore efficienza nella gestione per questo è preferibile contenere il fenomeno delle società in house. La tutela della concorrenza è di competenza statale. I giudici costituzionali ricordano poi che, secondo quanto affermato in più occasioni dalla Corte stessa, le modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica vanno ricondotte alla materia «tutela della concorrenza», la quale, incidendo direttamente sul mercato, è di competenza esclusiva statale. Il legislatore era consapevole del problema posto dal coordinamento della competenza esclusiva dello Stato in materia con le competenze concorrenti regionali proprio per questo ha scelto di utilizzare una tecnica «premiale», dividendo gli enti pubblici territoriali in due classi, secondo un giudizio di «virtuosità». Il giudizio di «virtuosità». Nel caso di specie, pertanto, l’applicazione di procedure di affidamento dei servizi ad evidenza pubblica è stata inserita tra gli elementi di valutazione della virtuosità degli enti che la prevedono, al fine di consentire a questi ultimi di sottostare a vincoli finanziari meno pesanti rispetto agli altri. Secondo questa tecnica, dunque, risultano più virtuosi gli enti che si conformano alle indicazioni del legislatore statale nell’affidamento dei servizi pubblici locali tramite gare ad evidenza pubblica. Le Regioni non sono private delle loto competenze. Questa soluzione, basata su indicazioni fornite dal legislatore statale in virtù della competenza esclusiva in materia di concorrenza, non priva le Regioni e gli altri enti territoriali delle loro competenze, ma si limita a valutare il loro esercizio ai fini dell’attribuzione del «premio» in sostanza, dunque, le Regioni non risultano private o menomate delle competenze legislative e amministrative loro spettanti, ma sono semplicemente orientate ad esercitarle in base ai principi indicati dal legislatore statale nell’esercizio della sua competenza. Per questi motivi la Corte ritiene che le censure formulate in relazione agli articolo 117 e 118 Cost. non siano fondate con la disposizione impugnata, infatti, il legislatore nazionale non ha occupato gli spazi riservati a quello regionale, ma ha agito presupponendo invece che le singole Regioni continuino ad esercitare le loro competenze, conformandosi tuttavia ai principi stabiliti a livello statale.

Corte Costituzionale, sentenza 13 20 marzo 2013, numero 46 Presidente Gallo Redattore Napolitano Ritenuto in fatto 1.– La Regione Veneto, con ricorso notificato il 23 maggio del 2012 e depositato nella cancelleria di questa Corte il successivo 29 maggio, ha impugnato, insieme ad altre disposizioni dello stesso provvedimento normativo, la cui trattazione è stata riservata a separato giudizio, l’articolo 25, comma 1, lettera a , del decreto-legge 24 gennaio 2012, numero 1 Disposizioni urgenti per me concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività , convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, numero 27. 1.1.– La disposizione impugnata inserisce nel decreto-legge 13 agosto 2011, numero 138 Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo , convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, numero 148, l’articolo 3-bis, il quale ridetermina le modalità di organizzazione e affidamento dei servizi pubblici locali, per meglio garantire l’efficienza e la concorrenzialità degli stessi. La ricorrente Regione ritiene che i commi 2, 3, 4, e 5 del citato articolo 3-bis del decreto-legge numero 138 del 2011 siano costituzionalmente illegittimi per contrasto con gli articolo 3, 5, 97, 114, 117, commi primo, secondo, lettera e , terzo, quarto e sesto, 118 e 119, commi secondo, terzo, quarto e quinto, della Costituzione, nonché dell’articolo 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, numero 3 Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione , della legge 5 maggio 2009, numero 42 Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione , e del principio di leale collaborazione. 2.– La Regione Veneto, preliminarmente, sottolinea che, seppure la giurisprudenza costituzionale abbia costantemente affermato che la disciplina dei servizi pubblici locali rientra nella materia «tutela della concorrenza», di competenza statale esclusiva, pur tuttavia ritiene che primaria esigenza continui ad essere, nella materia oggetto della norma censurata, quella di dare «centralità ai destinatari del servizio, destinatari di cui è l’ente ad essere esponenziale e responsabile». 2.1.– Ciò premesso, la Regione ricorrente espone analiticamente il contenuto dei sopra ricordati commi dell’articolo 3-bis, di cui lamenta l’illegittimità costituzionale e le motivazioni riguardo alle singole censure. 2.2.– Secondo la ricorrente, il comma 2 del nuovo articolo 3-bis che dispone che «In sede di affidamento del servizio mediante procedura ad evidenza pubblica, l’adozione di strumenti di tutela dell’occupazione costituisce elemento di valutazione dell’offerta», si porrebbe, innanzitutto, in contrasto con l’articolo 3 Cost., quanto al profilo della ragionevolezza, e con l’articolo 117 Cost., poiché – prevedendo l’adozione del solo strumento di tutela dell’occupazione quale elemento di valutazione dell’offerta, e, non prendendo, irragionevolmente, in considerazione «nessun ulteriore requisito dei candidati aspiranti pur utile alla buona gestione del servizio a livello locale» – concretizzerebbe un intervento ingiustificato e non proporzionato rispetto alla tutela della concorrenza. Inoltre, tale disposizione violerebbe anche l’articolo 118 Cost., in quanto essa determinerebbe «una compressione dell’autonomia regionale nell’esercizio delle funzioni amministrative [] sotto il profilo di gestire liberamente l’affidamento e il servizio magari tenendo in conto, alla luce dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, delle specificità territoriali proprie». 2.3.– Anche il comma 3 del nuovo articolo 3-bis, aggiunto al d.l. numero 138 del 2011, presenterebbe, secondo la Regione Veneto, profili di illegittimità costituzionale. 2.3.1.– Al riguardo, la ricorrente ritiene che la norma impugnata – nel prevedere che l’applicazione di procedure di affidamento dei servizi a evidenza pubblica da parte di Regioni, Province e Comuni o degli enti di governo locali dell’ambito o del bacino costituisca elemento di valutazione della virtuosità degli stessi, ai sensi dell’articolo 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, numero 98 Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria , convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, numero 111 – avrebbe introdotto una nuova forma di controllo sull’attività della Regione, in contrasto sia con il principio autonomistico di cui all’articolo 5 Cost., sia con quello di equiordinazione tra enti della Repubblica, di cui all’articolo 114 Cost., nonché con quanto previsto dall’articolo 9, comma 2, della legge costituzionale numero 3 del 2001, che ha abrogato le forme di controllo previste dagli articolo 125 e 130 Cost., in quanto non più coerenti con il nuovo assetto delle autonomie territoriali dopo la revisione costituzionale. Infatti, prosegue la Regione, un tipo di controllo come quello previsto dalla normativa censurata non appare avere natura collaborativa e comporta pesanti conseguenze economico-finanziarie per la Regione, aggravando la responsabilità di questa ultima nel concorso alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, oltre ad un aumento del contributo dell’ente medesimo alla manovra annuale. Essendo, in più, tale tipo di controllo svolto dal Ministero dell’economia e delle finanze soggetto non imparziale , peraltro su «comunicazione» del Presidente del Consiglio dei ministri, esso verrebbe ad incidere negativamente sull’autonomia finanziaria della Regione, così come regolata dall’articolo 119 Cost. e dalla legge numero 42 del 2009, che vi ha dato applicazione, nonché con gli articolo 117, commi primo, secondo, lettera e , 118 e 97 Cost. 2.3.2.– Secondo la ricorrente, la disposizione impugnata – che, di fatto, obbliga la Regione e gli enti territoriali ad utilizzare sempre la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi, e non le procedure in house, al fine di evitare le deteriori conseguenze derivanti dall’eventuale mancata inclusione della Regione fra gli enti virtuosi – sarebbe altresì in contrasto ai sensi dell’articolo 117, comma primo, Cost. con la disciplina comunitaria, che non esclude affatto la possibilità dell’affidamento in house. Sottolinea ancora la Regione che, se è indubbio che il legislatore nazionale, relativamente ai sistemi di affidamento dei servizi, gode, relativamente alla normativa comunitaria, «di un certo margine di apprezzamento», è altrettanto indubbio che, secondo quanto previsto dall’ordinamento UE, l’affidamento mediante procedura ad evidenza pubblica non sia l’unico possibile, potendo essere lo stesso supportato da altre forme di attribuzione della responsabilità del servizio, quali quelle in house, potendo queste ultime considerarsi più ragionevoli ed efficienti. La disposizione impugnata violerebbe, poi, l’articolo 117, comma secondo, lettera e , Cost., in relazione al riparto delle competenze tra il legislatore statale e quello regionale, avendo il primo esorbitato dalla sua potestà legislativa esclusiva nell’ambito della «tutela della concorrenza», per manifesta sproporzione rispetto al fine vengono citate le sentenze numero 270 del 2010 e numero 326 del 2008 . La normativa in esame, infatti, – a detta della ricorrente – «finisce con l’escludere nei fatti la possibilità di affidamenti in house, in seguito ad una valutazione negativa operata ex ante, mentre è ben possibile, in concreto, che questa tipologia di affidamento di servizi si dimostri in concreto più efficiente e virtuosa», tenendo, altresì, presente che il controllo operato dal Ministero sulla base della comunicazione della Presidenza del Consiglio si svolge addirittura senza alcuna forma di contraddittorio. In tal modo, conclude la Regione Veneto, si priverebbero gli enti territoriali della possibilità di valutare le proprie esigenze e di scegliere la modalità di gestione dei servizi a loro più convenienti, violando l’autonomia regionale, prevista dall’articolo 118 Cost., nell’esercizio delle funzioni amministrative. Tale parametro sarebbe leso anche in riferimento al principio di sussidiarietà, essendo il Governo il soggetto che valuta le modalità di affidamento. Quest’ultima considerazione, sempre secondo la Regione, determinerebbe la violazione dell’articolo 97 Cost., poiché la disciplina impugnata non rispetterebbe il principio di buon andamento dell’amministrazione, anche in relazione ai principi di efficienza, efficacia ed economicità. 2.4.– Il disfavore che il legislatore nazionale, inoltre, con la normativa in esame dimostra verso i sistemi di affidamento diversi dall’evidenza pubblica, contraddice – prosegue la ricorrente – con quanto disposto dal comma 4 dello stesso articolo 3-bis. 2.4.1.– Il comma 4, difatti, prevede che i gestori di servizi non selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica possano accedere a finanziamenti speciali, con la sola condizione che l’Autorità abbia verificato l’efficienza gestionale e la qualità del servizio reso. Esso, infatti, stabilisce che «Fatti salvi i finanziamenti ai progetti relativi ai servizi pubblici locali di rilevanza economica cofinanziati con fondi europei, i finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a valere su risorse pubbliche statali ai sensi dell’articolo 119, comma quinto, della Costituzione sono prioritariamente attribuiti agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica o di cui comunque l’Autorità di regolazione competente abbia verificato l’efficienza gestionale e la qualità del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall’Autorità stessa». A parere della ricorrente, tale disposizione – prevedendo la prioritaria attribuzione agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio, selezionati attraverso la procedura ad evidenza pubblica o di cui, in ogni caso, l’Autorità di regolazione competente abbia verificato l’efficienza della gestione, nonché la qualità del servizio reso, in base, peraltro, a parametri stabiliti dall’Autorità stessa – si porrebbe, innanzitutto, in contrasto con l’articolo 119, commi secondo, terzo, quarto e quinto, Cost., venendo a violare l’autonomia finanziaria regionale. Secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, difatti – prosegue la Regione Veneto –, soltanto due tipologie di fondi possono essere considerate rispettose del dettato dell’articolo 119 Cost., e precisamente 1 un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante articolo 119, comma terzo, Cost. , che, insieme ad entrate e tributi propri e compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al proprio territorio in particolare, articolo 119, comma secondo, Cost. , serva a finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite a Regioni ed enti locali articolo 119, comma quarto, Cost. 2 «risorse aggiuntive» ed «interventi speciali» in favore di determinate Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni, al fine di «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, [ ] rimuovere gli squilibri economici e sociali, [ ] favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, [ ] provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni» articolo 119, comma quinto, Cost. . La Regione sottolinea che, relativamente a questa seconda tipologia di interventi – tra i quali sembra rientrare la fattispecie in esame –, la giurisprudenza costituzionale ha precisato che essi «non solo debbono essere aggiuntivi rispetto al finanziamento integrale [ ] delle funzioni spettanti ai Comuni o agli altri enti, e riferirsi alle finalità di perequazione e di garanzia enunciate nella norma costituzionale, o comunque a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni, ma debbono essere indirizzati a determinati Comuni o categorie di Comuni o Province, Città metropolitane, Regioni », precisando che «l’esigenza di rispettare il riparto costituzionale delle competenze legislative fra Stato e Regioni comporta altresì che, quando tali finanziamenti riguardino ambiti di competenza delle Regioni, queste siano chiamate ad esercitare compiti di programmazione e di riparto dei fondi all’interno del proprio territorio» sentenze numero 22 del 2005 e numero 16 del 2004 . I finanziamenti di cui all’impugnato comma 3 dell’articolo 3-bis del decreto-legge numero 138 del 2011, conclude la ricorrente, non possono ritenersi aggiuntivi relativamente all’integrale finanziamento delle funzioni in materia di servizi pubblici, in conseguenza della sottostima del fabbisogno degli enti sul punto, né essi sono indirizzati esclusivamente agli enti territoriali peraltro non predeterminati con sufficiente precisione . Inoltre, sempre a parere della ricorrente, essendo tali finanziamenti rientranti nell’ambito di competenze regionali, e non essendo contemplato, dalla normativa in esame, alcun coinvolgimento delle Regioni, risulterebbe violato anche il principio di leale collaborazione. 2.5.– Infine, per la difesa regionale, anche il comma 5 dell’articolo 3-bis – stabilendo l’assoggettamento delle società affidatarie in house al Patto di stabilità interno secondo le modalità definite dal decreto ministeriale previsto dall’articolo 18, comma 2-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, numero 112 Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria , convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, numero 133, e successive modificazioni, violerebbe l’articolo 117, commi terzo e sesto, Cost. 2.5.1.– Rileva, al riguardo, la ricorrente Regione, che, con l’impugnato comma 5, il legislatore statale è venuto sostanzialmente a riproporre il contenuto della prima parte della lettera a del comma 10 dell’articolo 23-bis del d.l. numero 112 del 2008, così come modificato dall’articolo 15, comma l, del decreto-legge 25 settembre 2009, numero 135 Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee , convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, numero 166. L’articolo 23-bis, ricorda la Regione Veneto, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto dì stabilità interno e», con la sentenza numero 325 del 2010, con conseguente venir meno del presupposto legislativo per potersi affermare l’assoggettabilità delle società in house al Patto di stabilità interno. Quindi, con l’abrogazione dell’intero articolo 23-bis a seguito dell’esito del referendum popolare del 2-13 giugno 2011, sarebbe rimasto privo di base normativa anche l’intero decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, numero 168 Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, numero 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, numero 133 , attuativo del medesimo articolo. In particolare, ciò si sarebbe verificato per ciò che riguarda l’articolo 5, rubricato «Patto di stabilità interno». Ma, continua la ricorrente, anteriormente alla legge numero 166 del 2009 che, come ricordato, aveva modificato l’articolo 23-bis del d.l. numero 112 del 2008 e, altresì, prima della pubblicazione della citata sentenza numero 325 del 2010, l’articolo 19, comma l, del decreto-legge 1° luglio 2009, numero 78 Provvedimento anticrisi, nonché proroga di termini , convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, numero 102, aveva aggiunto, all’articolo 18 del d.l. numero 112 del 2008, il comma 2-bis, il quale – in sostanziale continuità con l’originale formulazione dell’articolo 23-bis – confermava l’assoggettabilità al Patto di stabilità interna delle società in house previa definizione delle relative modalità per via ministeriale. Pertanto, il nuovo comma 2-bis dell’articolo 18, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale e del conseguente parziale annullamento del citato articolo 23-bis del d.l. numero 112 del 2008, si sarebbe posto in antinomia con il contenuto della pronuncia l’una disposizione, infatti, assoggettava le società in house al patto di stabilità rinviando ad un «adottando decreto ministeriale», e l’altra disposizione annullata «assoggettava le medesime società in house al patto di stabilità con la stessa tecnica del rinvio ad uno o più adottandi regolamenti governativi». Inoltre, il legislatore statale – nonostante l’esito referendario e la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 23-bis, con la dichiarata finalità di «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’Unione Europea», ha disposto, al comma 14 dell’articolo 4 del d.l. numero 138 del 2011, che «Le società cosiddette “in house” affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali sono assoggettate al patto di stabilità interno secondo le modalità definite, con il concerto del Ministro per le riforme per il federalismo, in sede di attuazione dell’articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, numero 112, convertito con legge 6 agosto 2008, numero 133, e successive modificazioni. Gli enti locali vigilano sull’osservanza, da parte dei soggetti indicati al periodo precedente al cui capitale partecipano, dei vincoli derivanti dal patto di stabilità interno», con le espresse limitazioni di cui al comma 34 che esclude dall’intera disciplina dell’articolo 4 i settori del servizio idrico integrato tranne i commi da 19 a 27 , del servizio di distribuzione di gas naturale salvo il comma 33 , del servizio di distribuzione dell’energia elettrica, del servizio di trasporto ferroviario regionale, della gestione delle farmacie comunali. 2.5.2.– In questo contesto normativo, secondo la Regione, va considerata la legittimità costituzionale della norma qui in esame, che, di fatto, ripristinerebbe la normativa abrogata, demandando nuovamente ad una fonte sub-legislativa la definizione delle modalità per l’assoggettamento al patto di stabilità interno delle società in house. La citata disposizione – conclude la Regione ricorrente – avendo già la Corte costituzionale ritenuto fondate le doglianze regionali contro la disciplina statale prevista dal comma 10, lettera a , prima parte, dell’articolo 23-bis del d.l. numero 112 del 2008, sarebbe costituzionalmente illegittima, violando i commi terzo e sesto dell’articolo 117 Cost., sulla base del presupposto che «l’àmbito di applicazione del patto di stabilità interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica sentenze numero 284 e numero 237 del 2009 numero 267 del 2006 , di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l’articolo 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potestà regolamentare». Inoltre, la disposizione impugnata violerebbe anche l’articolo 117, commi terzo e sesto, Cost., in quanto, non avendo lo Stato potestà legislativa esclusiva in tale materia, esso «è privo anche della potestà regolamentare e ad essa non può far rinvio, né ipotizzando regolamenti governativi ex articolo 17, secondo comma, l. numero 400/1988, né ipotizzando decreti ministeriali ex articolo 18, comma 2-bis, d.l. numero 112/2008». 2.6.– Infine, la ricorrente – dopo aver ricordato il percorso cronologico delle varie norme statali che hanno, di fatto, previsto l’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno secondo modalità da definirsi per via regolamentare in particolare, per quanto qui rileva, l’articolo 18, comma 2-bis, del d.l. numero 112 del 2008 e l’articolo 4, comma 14, del d.l. numero 138 del 2011 – chiede alla Corte di estendere il giudizio, mediante autorimessione, a queste due ultime disposizioni ricordate, costituenti gli “antecedenti storici” di quella qui impugnata. In particolare, si sottolinea che, relativamente all’articolo 18, comma 2-bis, esso avrebbe già dovuto essere dichiarato costituzionalmente illegittimo da questa Corte in conseguenza dell’intervenuto annullamento dell’articolo 23-bis, essendo le due disposizioni sostanzialmente identiche. Quanto, poi, all’autorimessione dell’articolo 4, comma 14, del d.l. numero 138 del 2011, essa sarebbe giustificata dai profili di autonomia che tale norma, pur viziata dalle stesse illegittimità sanzionate con la sentenza numero 325 del 2010, presenta rispetto all’articolo 25, comma 1, lettera a , ora censurata. 2.7.– Alla luce di quanto esposto, la Regione ricorrente chiede, pertanto, che la Corte costituzionale dichiari l’illegittimità costituzionale in parte qua dell’articolo 25, comma l, lettera a , del d.l. numero 1 del 2012, così come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, numero 27, per violazione degli articolo 3, 97, 117 commi primo, secondo, terzo, quarto e sesto , 118, 119 Cost., nonché del principio di leale collaborazione, previo accoglimento dell’istanza di sospensione. 3.– Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto, per la parte che qui interessa, del ricorso promosso dalla Regione Veneto. 3.1.– L’Avvocatura generale ritiene che la disposizione impugnata – nel fissare nuove modalità di organizzazione e di affidamento dei servizi pubblici locali, al fine di garantirne l’efficienza e la concorrenzialità – non comprima gli ambiti di autonomia organizzativa regionale, in quanto la stessa permette comunque alle Regioni di individuare, purché «con adeguata motivazione, i bacini territoriali di tali servizi aventi un ambito diverso da quello prescritto dalla norma». Inoltre, secondo la resistente, il comma 5 dell’impugnato articolo 3-bis non vieterebbe in alcun modo gli affidamenti in house, ma si preoccuperebbe semplicemente di garantire che tali tipi di società rientrino nella disciplina della finanza pubblica allargata, ricomprendendoli nel patto di stabilità, conformemente «alla loro necessaria natura di mera “longa manus” dell’ente pubblico erogatore del servizio, che sola può giustificare la sottrazione dei relativi servizi al mercato». La normativa impugnata, quindi, conclude la difesa pubblica, risulta conforme alla consolidata giurisprudenza costituzionale, che ritiene l’organizzazione e l’affidamento dei servizi pubblici locali rientranti nella materia «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva statale. 4.– In prossimità dell’udienza, la Regione Veneto ha depositato memoria in replica all’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri. La Regione ricorrente – dopo aver rilevato che l’Avvocatura dello Stato è venuta ad argomentare in merito al contenuto del comma 1 dell’articolo 3-bis del d.l. numero 138 del 2011 travalicando così i limiti del thema decidendum, in quanto il comma non è oggetto di impugnazione ed aver sottolineato che la resistente ha, invece, omesso di replicare alle censure mosse dalla Regione relativamente ai primi tre commi dell’articolo 3-bis, venendo ad appuntare le sue argomentazioni in merito al solo comma 5 – rinvia integralmente a quanto già esposto nel ricorso, insistendo per l’accoglimento. Considerato in diritto 1.– La Regione Veneto, ha promosso – nell’ambito di una più vasta impugnativa – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 25, comma 1, lettera a , del decreto-legge 24 gennaio 2012, numero 1 Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività , così come convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, numero 27, il quale inserisce nel decreto-legge 13 agosto 2011, numero 138 Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo , convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, numero 148, l’articolo 3-bis, inerente a «Ambiti territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali». Quest’ultimo ridetermina le modalità di organizzazione e affidamento dei servizi pubblici locali, per meglio garantire l’efficienza e la concorrenzialità degli stessi. La ricorrente Regione ritiene che i commi 2, 3, 4, 5 del citato articolo 3-bis del d.l. numero 138 del 2011 siano costituzionalmente illegittimi per violazione degli articolo 3, 5, 97, 114, 117, commi primo, secondo, lettera e , terzo, quarto e sesto, 118 e 119, commi secondo, terzo, quarto e quinto, della Costituzione, nonché dell’articolo 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, numero 3 Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione , della legge 5 maggio 2009, numero 42 Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione , e del principio di leale collaborazione. 2.– In particolare, il comma 2 dell’articolo 3-bis, introdotto nel citato d.l. numero 138 del 2011 dall’art 25, comma 1, lettera a , del d.l. numero 1 del 2012, come risultante a seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, numero 27, stabilisce che «In sede di affidamento del servizio mediante procedura ad evidenza pubblica, l’adozione di strumenti di tutela dell’occupazione costituisce elemento di valutazione dell’offerta». Secondo la ricorrente, tale disposizione violerebbe l’articolo 3 Cost., quanto al profilo della ragionevolezza, l’articolo 117 Cost., in quanto – prevedendo l’adozione del solo strumento di tutela dell’occupazione quale elemento di valutazione dell’offerta, e, non prendendo, irragionevolmente, in considerazione «nessun ulteriore requisito dei candidati aspiranti pur utile alla buona gestione del servizio a livello locale» – concretizzerebbe un intervento ingiustificato e non proporzionato rispetto alla tutela della concorrenza. La disposizione in esame violerebbe altresì, per la ricorrente, l’art 118 Cost., perché determinerebbe «una compressione dell’autonomia regionale nell’esercizio delle funzioni amministrative». 2.1.– La censura relativa all’articolo 3 Cost., è inammissibile, in quanto non sufficientemente motivata né riguardo all’asserita lesione del principio di ragionevolezza, invocato a parametro di giudizio, né per ciò che riguarda la ridondanza sul riparto di competenze tra Stato e Regioni sancito dal Titolo V della parte II della Costituzione, così come richiesto da questa Corte da ultimo, sentenze numero 8 del 2013, numero 311 e numero 299 del 2012 . 2.2.– In riferimento alla violazione dell’articolo 117 Cost., la censura non è fondata. La disposizione impugnata attiene alla disciplina delle procedure ad evidenza pubblica, che la giurisprudenza costituzionale ha costantemente ricondotto alla materia «tutela della concorrenza», con la conseguente titolarità da parte dello Stato della potestà legislativa esclusiva, di cui all’articolo 117, comma secondo, lettera e , Cost. ex plurimis, sentenze numero 62 e numero 32 del 2012 numero 339, numero 320, numero 187 e numero 123 del 2011 numero 325 del 2010 . In particolare, per quanto riguarda il caso di specie, questa Corte ha anche sottolineato che nell’ambito della disciplina delle procedure di gara rientra «la regolamentazione della qualificazione e selezione dei concorrenti, delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione» sentenza numero 339 del 2011 . La Regione ricorrente – pur riconoscendo l’afferenza della norma impugnata all’ambito materiale della «tutela della concorrenza» – tuttavia ritiene che il legislatore statale non avrebbe rispettato, nel caso di specie, «il bilanciamento fra le ragioni della concorrenza e quelle [] dell’utenza attraverso il necessario vaglio di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza della disciplina impugnata», peraltro con una normativa estremamente dettagliata. A prescindere dall’erroneo assunto interpretativo della Regione Veneto la quale ritiene che il contenuto della disposizione censurata preveda quale unico elemento di valutazione nell’affidamento dei servizi lo strumento della tutela dell’occupazione, questa Corte ha più volte affermato che l’articolo 117, comma secondo, lettera e , Cost., attribuendo allo Stato, in via esclusiva, il compito di regolare la concorrenza, consente allo stesso, nell’ambito di tale competenza, di porre in essere una disciplina dettagliata sentenze numero 148 del 2009, numero 411 e numero 320 del 2008 . È stato anche affermato che tale normativa ha carattere prevalente sentenza numero 325 del 2010 . Pertanto, nell’ambito di questa attribuzione, il legislatore statale, con la norma impugnata, è venuto, non irragionevolmente, a prevedere quale ulteriore elemento di valutazione dell’offerta da tenere presente nell’affidamento dei servizi mediante procedure ad evidenza pubblica anche l’adozione di strumenti di tutela dell’occupazione. Conseguentemente, la censura mossa dalla regione Veneto al comma 2 dell’articolo 3-bis, del d.l. numero 138 del 2011 non è fondata. 2.3.– Alla luce delle sopra indicate considerazioni, consegue anche la non fondatezza della questione in relazione alla violazione dell’articolo 118 Cost., avendo lo Stato agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva di cui all’articolo 117, comma secondo, lettera e , Cost. 3.– La regione Veneto ha altresì impugnato il comma 3 del citato articolo 3-bis del d.l. numero 138 del 2011. 3.1.– La disposizione impugnata prevede che, a decorrere dal 2013, l’applicazione delle procedure di affidamento ad evidenza pubblica da parte di Regioni, Province e Comuni o degli enti di governo locali o del bacino costituisca elemento di valutazione della “virtuosità” degli stessi enti, ai sensi dell’articolo 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, numero 98 Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria , convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, numero 111. Inoltre, lo stesso comma stabilisce che la Presidenza del Consiglio comunichi perentoriamente, a fine gennaio di ogni anno, al Ministero dell’economia gli enti che hanno attuato tale procedura e che, in assenza della comunicazione nel termine stabilito, «si prescinde dal predetto elemento di valutazione della virtuosità» . Per la ricorrente, la disposizione censurata viola a gli articolo 5 e 114 Cost., poiché il legislatore nazionale avrebbe introdotto, con la normativa impugnata, una forma di controllo sull’attività legislativa regionale, in contrasto con il principio autonomistico e con quello di equiordinazione tra gli enti della Repubblica b l’articolo 9, comma 2, della legge costituzionale numero 3 del 2001, che ha abrogato le forme di controllo sulle Regioni previste dagli articolo 125 e 130 Cost. c l’articolo 119 Cost. e la legge 5 maggio 2009, numero 42, che vi ha dato applicazione in particolare, gli articolo 1, comma 1, e 2, comma 2, lettere z e ll , sia perché la disposizione censurata non sembra essere di natura collaborativa e comporta pesanti conseguenze economiche per la Regione, sia perché il previsto tipo di controllo è svolto dal Ministero dell’economia e delle finanze soggetto non imparziale , su comunicazione del Presidente del Consiglio dei ministri, venendo così ad incidere negativamente sull’autonomia finanziaria regionale d l’articolo 117, comma primo, Cost., perché, obbligando di fatto le Regioni e gli enti territoriali ad utilizzare sempre la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi, al fine di evitare le deteriori conseguenze derivanti dalla mancata inclusione della Regione fra gli enti virtuosi, sarebbe in contrasto con la disciplina comunitaria, la quale non esclude la possibilità degli affidamenti in house «qualora quest i si rivelino, di fatto, più ragionevoli ed efficienti» e l’articolo 117, comma secondo, lettera e , Cost., poiché eccederebbe dalla potestà statale esclusiva in materia di «tutela della concorrenza» per manifesta sproporzione rispetto al fine f l’articolo 118 Cost., perché violerebbe l’autonomia regionale nell’esercizio delle funzioni amministrative, ponendosi in contrasto con il principio di sussidiarietà, dal momento che la valutazione sulle modalità di affidamento avverrebbe ad opera del livello di governo centrale g l’articolo 97 Cost., quanto al buon andamento della pubblica amministrazione, perché – stante il dettato della disposizione impugnata – non verrebbero rispettati i principi di efficienza, efficacia ed economicità. 3.1.1.– Le questioni prospettate in riferimento agli articolo 5 e 114 Cost., e al principio di cui all’articolo 9, comma 2, della legge costituzionale numero 3 del 2001 sono inammissibili. Ad identica conclusione questa Corte è già pervenuta nel decidere una questione di legittimità costituzionale promossa dall’odierna ricorrente nel medesimo ricorso, relativa all’articolo 1, comma 4, sempre del d.l. numero 1 del 2012, che presenta stretta analogia con quella ora in esame. Infatti con la recente sentenza numero 8 del 2013, si è ritenuto che «Dette censure sono esclusivamente vòlte a rivendicare la posizione equiordinata di cui godrebbero le Regioni rispetto allo Stato, che renderebbe illegittima l’introduzione di qualsiasi strumento di controllo statale sulle Regioni, senza che siano addotte specifiche argomentazioni in ordine alla asserita illegittimità costituzionale della disposizione impugnata. La motivazione, oltre che insufficiente, appare anche inconferente, in quanto la norma censurata non ripristina alcun controllo sugli atti legislativi o amministrativi delle Regioni, in contrasto con la legge costituzionale numero 3 del 2001, invocata a parametro del presente giudizio». 3.1.2.– Considerazioni analoghe valgono per quanto riguarda le censure relative all’articolo 119 Cost. e all’articolo 1, comma 1, e 2, comma 2, lettere z e ll , della legge numero 42 del 2009. Nella sopra citata sentenza, infatti, si è affermato che «è inammissibile, per carenza assoluta di motivazione, il ricorso della Regione Veneto nella parte in cui ritiene violati l’articolo 119 Cost. e gli articolo 1, comma 1, e 2, comma 2, lettere z e ll , della legge numero 42 del 2009. Sul punto, il ricorso è privo di qualunque svolgimento argomentativo, limitandosi a richiamare le suddette norme, senza mostrare in quale senso esse risultino incise dalle disposizioni impugnate e senza neppure offrire ragioni a sostegno della possibilità di far valere l’evocata legge numero 42 del 2009 come parametro nei giudizi davanti a questa Corte» sentenza numero 8 del 2013 . Le motivazioni poste a fondamento della sopra ricordata decisione vanno ribadite anche nell’odierno caso. 3.1.3.– Infine, parimenti inammissibile deve essere ritenuta la censura relativa all’articolo 97 Cost., sia per carenza e genericità delle motivazione, sia per il già ricordato principio più volte affermato dalla giurisprudenza costituzionale che le Regioni sono legittimate a censurare le leggi dello Stato esclusivamente in base a parametri relativi al riparto delle rispettive competenze legislative. Esse possono dedurre altri parametri soltanto ove la loro violazione comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite. Tale circostanza non ricorre nel caso di specie, «in quanto la violazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione non si risolve in una questione sul riparto delle competenze legislative» ex plurimis, sentenza numero 128 del 2011 . 3.2.– Le restanti questioni non sono fondate. Innanzitutto, in relazione alla violazione degli articolo 117, comma secondo, lettera e , e 118 Cost., sembra opportuno premettere alcune considerazioni di massima, estensibili anche alle censure mosse dalla ricorrente Regione al successivo comma 4 del medesimo articolo 3-bis del d.l. numero 138 del 2011 per violazione dell’autonomia finanziaria regionale, di cui all’articolo 119 Cost. L’intervento normativo statale, con il d.l. numero 1 del 2012, si prefigge la finalità di operare, attraverso la tutela della concorrenza liberalizzazione , un contenimento della spesa pubblica. Per quello che qui interessa, con la norma impugnata, il legislatore statale ritiene che tale scopo si realizzi attraverso l’affidamento dei servizi pubblici locali al meccanismo delle gare ad evidenza pubblica, individuato come quello che dovrebbe comportare un risparmio dei costi ed una migliore efficienza nella gestione. Da qui l’opzione – in coerenza con la normativa comunitaria – di promuovere l’affidamento dei servizi pubblici locali a terzi e/o a società miste pubblico/private e di contenere il fenomeno delle società in house. Le modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, secondo consolidata giurisprudenza della Corte, attengono alla materia «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva statale, tenuto conto della sua diretta incidenza sul mercato e «perché strettamente funzionale alla gestione unitaria del servizio» ex plurimis sentenze numero 62 e numero 32 del 2012 numero 339, numero 320, numero 187 e numero 128 del 2011 numero 325 e numero 142 del 2010 numero 246 e numero 148 del 2009 . Peraltro, per pervenire a questo obiettivo, il legislatore si è trovato di fronte al problema di coordinare la competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» con le competenze concorrenti regionali. Da qui l’opzione, già sperimentata in altri contesti, di utilizzare una tecnica «premiale», dividendo gli enti pubblici territoriali in due classi, secondo un giudizio di “virtuosità” ai sensi dell’articolo 20, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, numero 98 Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria , convertito dall’articolo 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, numero 111, «sulla base della valutazione ponderata» di parametri di virtuosità, ai fini del rispetto del Patto di stabilità sentenza numero 8 del 2013 . Nel caso di specie, «l’applicazione di procedure di affidamento dei servizi ad evidenza pubblica da parte di regioni, province e comuni o degli enti di governo locali dell’ambito o del bacino», previsto dalla disposizione impugnata, è stato inserito dal legislatore statale – quale ulteriore elemento di valutazione di “virtuosità” degli enti che ad esso si adeguano, al fine di consentire a questi ultimi di sottostare a vincoli finanziari meno pesanti rispetto agli altri enti – tra quelli già previsti dal citato articolo 20, comma 2, del d.l. numero 98 del 2011. Secondo questa tecnica, dunque, riguardo al tema in esame, risultano più virtuosi gli enti che si conformano alle indicazioni del legislatore statale indicazioni fornite in virtù della competenza esclusiva in materia di concorrenza nell’affidamento dei servizi pubblici locali tramite gare ad evidenza pubblica. Questa tecnica ha, in generale, il pregio di non privare le Regioni e gli altri enti territoriali delle loro competenze e di limitarsi a valutare il loro esercizio ai fini dell’attribuzione del «premio», ovvero della coerenza o meno alle indicazioni del legislatore statale, che ha agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di concorrenza. Infatti, «grazie alla tecnica normativa prescelta i principi di liberalizzazione presuppongono che le Regioni seguitano ad esercitare le proprie competenze in materia di regolazione delle attività economiche». Ne consegue, dunque, che le Regioni «non risultano menomate nelle, né tantomeno private delle, competenze legislative e amministrative loro spettanti, ma sono orientate ad esercitarle in base ai principi indicati dal legislatore statale, che ha agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia della concorrenza» sempre sentenza numero 8 del 2013 . 3.2.1. – In base alla precedenti considerazioni, conseguentemente, le censure formulate in relazione all’articolo 117, comma secondo, lettera e , Cost. ed anche in riferimento all’articolo 118 Cost. non sono fondate con la disposizione impugnata il «legislatore nazionale non ha occupato gli spazi riservati a quello regionale, ma ha agito presupponendo invece che le singole Regioni continuino ad esercitare le loro competenze, conformandosi tuttavia ai principi stabiliti a livello statale» sentenze numero 8 del 2013 e numero 200 del 2012 . In particolare, in riferimento all’articolo 118 Cost., non sussiste la lamentata violazione dell’autonomia regionale nell’esercizio delle sue funzioni da parte del comma 3 del citato articolo 3-bis, in quanto la capacità amministrativa degli enti non può ritenersi limitata da un sistema che garantisce ad essi la piena autonomia di gestione. Quanto, poi, al comma secondo, lettera e , dell’articolo 117 Cost. e alla non fondatezza della sua lamentata violazione, si può ancora ricordare quanto è stato sottolineato da questa Corte sulle finalità perseguite dal decreto-legge numero 1 del 2012 e cioè che esso si colloca nel solco di un’evoluzione normativa diretta ad attuare «il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale» sentenza numero 200 del 2012 . Tale intervento normativo, conformemente ai principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, «prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri principi costituzionali» sentenza numero 200 del 2012, citata dalla sentenza numero 8 del 2013 . 3.2.2.– In relazione all’articolo 117, comma primo, Cost., poi, la censura risulta ugualmente non fondata, in quanto nella disciplina di cui trattasi «non emerge alcun profilo di contrasto con il diritto dell’Unione europea», tanto più che la stessa si qualifica in termini di tutela della concorrenza sentenze numero 299 e numero 200 del 2012 , «rientrando dunque pienamente all’interno delle competenze di pertinenza esclusiva statale ex articolo 117, secondo comma, lettera e , Cost. senza nulla togliere alle Regioni in materia di attuazione del diritto europeo» sentenza numero 8 del 2013 analogamente, sul punto, la sentenza numero 325 del 2010 . 4.– La Regione Veneto dubita, poi, della legittimità costituzionale del comma 4 dell’articolo 3-bis del d.l. numero 138 del 2011 per violazione dell’articolo 119 Cost. e del principio di leale collaborazione 4.1.– Il comma 4 stabilisce che, «Fatti salvi i finanziamenti ai progetti relativi ai servizi pubblici locali di rilevanza economica cofinanziati con fondi europei, i finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a valere su risorse pubbliche statali ai sensi dell’articolo 119, comma quinto, della Costituzione sono prioritariamente attribuiti agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica o di cui comunque l’Autorità di regolazione competente abbia verificato l’efficienza gestionale e la qualità del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall’Autorità stessa». 4.1.1.– A parere della ricorrente Regione Veneto, tale disposizione – prevedendo la prioritaria attribuzione agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio, selezionati attraverso la procedura ad evidenza pubblica o a quelli di cui l’Autorità di settore che abbia verificato la qualità e l’efficienza in base a specifici parametri dalla stessa definiti, e privilegiando, quindi, i più efficienti – poiché non stabilisce la riconducibilità dei predetti finanziamenti ai tipi di fondi consentiti dall’articolo 119 Cost., violerebbe l’autonomia finanziaria regionale ivi prevista. La stessa, inoltre, sempre secondo la ricorrente, violerebbe anche il principio di leale collaborazione, in quanto i finanziamenti ivi previsti rientrerebbero in ambiti di competenza regionale, mentre la normativa in esame non sembra aver previsto alcun coinvolgimento delle Regioni. 4.2.– Entrambe le censure non sono fondate per i motivi qui di seguito esposti. 4.2.1.– Relativamente alla violazione dell’autonomia finanziaria della Regione, di cui all’articolo 119, comma quinto, Cost., una corretta analisi letterale della norma impugnata porta a ritenere che il legislatore statale – in linea con le finalità perseguite dal decreto-legge numero 1 del 2012, sopra ricordate in riferimento alle censure relative al precedente comma 3 della medesima disposizione – ha, anche nel caso di specie, fatto ricorso ai principi propri della «tecnica premiale», la quale, appunto, come già evidenziato, non comporta l’assorbimento delle competenze regionali. Gli enti territoriali, infatti, conservano le loro competenze che esercitano in conformità ai principi di liberalizzazione dettati dallo Stato, il quale, nell’erogare i finanziamenti di sua competenza, privilegia le amministrazioni più “virtuose”. Del resto, è stato già affermato da questa Corte che «non è irragionevole che il legislatore abbia previsto un trattamento differenziato fra enti che decidono di perseguire un maggiore sviluppo economico attraverso politiche di ri-regolazione dei mercati ed enti che, al contrario, non lo fanno, purché, naturalmente, lo Stato operi tale valutazione attraverso strumenti dotati di un certo grado di oggettività e comparabilità, che precisino ex ante i criteri per apprezzare il grado di adeguamento raggiunto da ciascun ente nell’ambito del processo complessivo di razionalizzazione della regolazione, all’interno dei diversi mercati singolarmente individuati. Introdurre un regime finanziario più favorevole per le Regioni che sviluppano adeguate politiche di crescita economica costituisce, dunque, una misura premiale non incoerente rispetto alle politiche economiche che si intendono, in tal modo, incentivare» sentenza numero 8 del 2013 . Né sembra essere di ostacolo l’eccepita non riconducibilità della norma impugnata alle ipotesi di cui all’articolo 119 Cost. È infatti vero che la giurisprudenza costituzionale ha affermato che «gli interventi statali fondati sulla differenziazione tra Regioni, volti a rimuovere gli squilibri economici e sociali, devono seguire le modalità fissate dall’articolo 119, quinto comma, Cost., senza alterare i vincoli generali di contenimento della spesa pubblica, che non possono che essere uniformi» sentenza numero 284 del 2009 , e che « Da ciò deriva l’implicito riconoscimento del principio di tipicità delle ipotesi e dei procedimenti attinenti alla perequazione regionale, che caratterizza la scelta legislativa di perequazione “verticale” effettuata in sede di riforma del Titolo V della Costituzione mediante la legge costituzionale 18 ottobre 2001, numero 3 Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione » sentenza numero 176 del 2012 . Ma è necessario sottolineare che la stessa giurisprudenza ha evidenziato in numerose sentenze che «Il rispetto di detto principio di tipicità non impedisce certamente – allo stato della legislazione – che possano essere adottati interventi perequativi a favore delle collettività economicamente più deboli. Ciò potrà tuttavia avvenire solo attraverso quei moduli legislativi e procedimentali non collidenti con il dettato dell’articolo 119 Cost., alcuni dei quali sono già stati scrutinati favorevolmente da questa Corte sentenze numero 71 del 2012, numero 284 e numero 107 del 2009, numero 216 del 2008, numero 451 del 2006 e numero 37 del 2004 ». Nel caso di specie deve, infatti, escludersi che il dettato del comma 4 possa prevedere misure perequativo-solidaristiche non previste dal comma quinto dell’articolo 119 Cost. «risorse aggiuntive» e «interventi speciali» , che non integrino, come precisato da questa Corte, interventi straordinari, aggiuntivi e diretti a garantire i servizi indispensabili alla tutela di diritti fondamentali sentenze numero 71 del 2012 numero 45 del 2008, numero 105 del 2007, numero 451 del 2006, numero 222 del 2005, numero 49 e numero 16 del 2004 . Non sussiste, pertanto, alcuna violazione sotto l’invocato profilo dell’articolo 119 Cost. 4.2.2.– Anche in merito alla censura di violazione del principio di leale collaborazione, lamentata dalla Regione, la questione – prescindendo dalla carenza e genericità della motivazione – non è fondata. Questa Corte ha più volte sottolineato che tale principio «non trova applicazione in riferimento al procedimento legislativo e, inoltre, che esso non opera allorché lo Stato eserciti la propria competenza esclusiva in materia di “tutela della concorrenza”» così le sentenze numero 8 del 2013 numero 299 e numero 234 del 2012 numero 88 del 2009 e numero 219 del 2005 . 5.– Infine, per la difesa regionale, anche il comma 5 dell’articolo 3-bis, così come inserito nel d.l. numero 138 del 2011, stabilendo l’assoggettamento delle società affidatarie in house al Patto di stabilità interno secondo le modalità definite dal decreto ministeriale previsto dall’articolo 18, comma 2-bis, del d.l. numero 112 del 2008, violerebbe l’articolo 117, commi terzo e sesto, Cost. 5.1.– Al riguardo, la Regione Veneto, preliminarmente, chiede che la Corte voglia sollevare davanti a se stessa, mediante autorimessione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 2-bis, del d.l. numero 112 del 2008 e dell’articolo 4, comma 14, del d.l. numero 138 del 2011, costituenti quelli che definisce «antecedenti storici» della disposizione in oggetto. Per ciò che riguarda la richiesta di autorimessione della questione di legittimità costituzionale del comma 2-bis dell’articolo 18 del d.l. numero 112 del 2008, si premette che si tratta di una sollecitazione – formulata per ovviare alla intervenuta decorrenza dei termini perentori entro i quali può essere presentato il ricorso – che questa Corte non è tenuta ad esaminare. Nel caso in oggetto, ad essa si darà comunque, per la stretta connessione che tale normativa viene ad avere con quella attualmente impugnata, una più ampia risposta in sede di esame del merito della questione di legittimità costituzionale del suddetto comma 5 dell’articolo 3-bis. Per quanto, poi, riguarda il comma 14 dell’articolo 4 del d.l. numero 138 del 2011, esso congiuntamente all’intero articolo è stato già dichiarato da questa Corte costituzionalmente illegittimo con la sentenza numero 199 del 2012, peraltro decisa e pubblicata dopo l’instaurazione del presente giudizio, a seguito dell’impugnazione del medesimo comma da parte delle Regioni Puglia, Lazio, Marche, Emilia-Romagna, Umbria e Sardegna. 5.2.– Nel merito, anche la questione di legittimità costituzionale del comma 5 dell’articolo 3-bis, del d.l. numero 138 del 2011, per violazione dell’articolo 117, commi terzo e sesto, Cost., non è fondata. 5.3.– Ad avviso della ricorrente, tale disposizione, prevedendo che gli affidatari in house siano soggetti al Patto di stabilità interno, secondo le modalità previste dall’articolo 18, comma 2-bis, del d.l. numero 112 del 2008, avrebbe sostanzialmente riproposto il dettato della prima parte della lettera a del comma 10 dell’articolo 23-bis del medesimo decreto legge come modificato dall’articolo 15, comma l, del d.l. numero 135 del 2009 , dichiarato costituzionalmente illegittimo da questa Corte con sentenza numero 325 del 2010, limitatamente alle parole «l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto dì stabilità interno e». La disposizione in esame – secondo la Regione ricorrente – avrebbe ripristinato, di fatto, la normativa dichiarata costituzionalmente illegittima, demandando nuovamente ad una fonte sub-legislativa la definizione delle modalità per l’assoggettamento al Patto di stabilità interno delle società in house. Anche essa sarebbe, pertanto, costituzionalmente illegittima, venendo a violare la competenza regolamentare della Regione nelle materie di competenza legislativa concorrente, di cui all’articolo 117, comma sesto, Cost. La ricorrente sottolinea che la sentenza sopra richiamata ha ritenuto che l’ambito di applicazione del Patto di stabilità interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica, di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale per le quali soltanto l’articolo 117, comma sesto, Cost., attribuisce allo Stato la potestà regolamentare. Il nucleo argomentativo di questa decisione di illegittimità costituzionale, sostiene la Regione, è incentrato sul fatto che, in relazione alla coordinata lettura dell’articolo 117, commi terzo e sesto, Cost. e, poiché si verte in materia di competenza legislativa concorrente, non sussiste una potestà regolamentare dello Stato che consenta a quest’ultimo di prescrivere l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al Patto di stabilità interno. 5.3.1.– Se il comma 5 dell’articolo 3-bis , norma in esame, si leggesse nel senso che lo Stato avesse previsto l’utilizzazione della sua potestà regolamentare e non quella legislativa per assoggettare le società affidatarie in house al Patto di stabilità interno o avesse previsto, come nel precedente giurisprudenziale sopra richiamato, l’uso dello strumento regolamentare per intervenire nella suddetta materia, dovrebbe concludersi per la fondatezza della questione. Ma non è questa la corretta interpretazione da attribuire alla disposizione impugnata. È ben noto, al riguardo, il costante insegnamento di questa Corte – espresso soprattutto nei giudizi incidentali, ma che vale, per ciò che attiene alla decisione di merito, anche nei giudizi in via principale sentenza numero 21 del 2013, ordinanze numero 255 del 2012, numero 287 del 2011 e numero 110 del 2010 – che di una disposizione legislativa non si pronuncia l’illegittimità costituzionale quando se ne potrebbe dare un’interpretazione in violazione della Costituzione, ma quando non se ne può dare un’interpretazione conforme a Costituzione. È, quindi, necessario esaminare sia il contenuto della lettera a del comma 10 dell’articolo 23-bis del d.l. numero 112 del 2008 e della disposizione legislativa impugnata col presente ricorso, sia l’esatto percorso argomentativo della sentenza numero 325 del 2010. Con riferimento alle diverse e contrapposte tesi che le parti ricorrenti e la parte resistente avevano in quel giudizio formulato circa il rapporto che la disposizione censurata veniva ad avere con la analoga disciplina comunitaria, nella citata sentenza si afferma che «Nessuna di tali due opposte prospettazioni è condivisibile, perché le disposizioni censurate dalle ricorrenti non costituiscono né una violazione né un’applicazione necessitata della richiamata normativa comunitaria ed internazionale, ma sono semplicemente con questa compatibili, integrando una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare l’evocato primo comma dell’articolo 117 Cost.». A seguito, poi, di un analitico esame delle due normative, questa Corte conclude che «Ne deriva, in particolare, che al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici – di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario». Esclusa, quindi, qualunque possibile violazione della disciplina comunitaria, che potesse venire a vulnerare il comma primo dell’articolo 117 Cost., questa Corte inquadra la disposizione nell’ambito della materia, di competenza concorrente, del «coordinamento della finanza pubblica» e, poiché il comma 10 del più volte citato articolo 23-bis prevedeva che il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni e sentita la Conferenza unificata, adottasse «uno o più regolamenti, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, numero 400, al fine di a prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari cosiddetti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno», ha sancito l’illegittimità costituzionale di quest’ultimo periodo. Infatti la disposizione legislativa, prevedendo l’adozione, da parte del Governo, di un atto regolamentare in una materia di legislazione concorrente violava il comma sesto dell’articolo 117 Cost. Ma, ed è questa l’erronea prospettazione della ricorrente, con la citata sentenza non si è certo affermato che, in mancanza del previsto regolamento, le società in house non fossero assoggettate al patto di stabilità interno. In essa, infatti, si afferma chiaramente che «Secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti tale tipo di gestione ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto capitale totalmente pubblico controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo». Quindi, una diversa disciplina che favorisca le società in house rispetto all’aggiudicante Amministrazione pubblica si potrebbe porre in contrasto con la stessa disciplina comunitaria, in quanto verrebbe a scindere le due entità e a determinare un ingiustificato favor nei confronti di questo tipo di gestione dei servizi pubblici dato che il bilancio delle società in house non sarebbe soggetto alle regole del patto di stabilità interno. Le suddette regole, invece, debbono intendersi estese a tutto l’insieme di spese ed entrate dell’ente locale sia perché non sarebbe funzionale alle finalità di controllo della finanza pubblica e di contenimento delle spese permettere possibili forme di elusione dei criteri su cui detto “Patto” si fonda, sia perché la maggiore ampiezza degli strumenti a disposizione dell’ente locale per svolgere le sue funzioni gli consente di espletarle nel modo migliore, assicurando, nell’ambito complessivo delle proprie spese, il rispetto dei vincoli fissati dallo stesso Patto di stabilità. Chiariti, quindi, il percorso motivazionale della sentenza numero 325 del 2010 e la portata della declaratoria di illegittimità costituzionale in essa contenuta, occorre valutare se analogo vizio è riscontrabile nella disposizione legislativa attualmente impugnata, partendo da quanto espressamente prevede l’articolo 18, comma 2-bis, del d.l. numero 112 del 2008 cui essa rinvia per ciò che riguarda le modalità alle quali il decreto ministeriale si deve attenere in merito all’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno. Quest’ultimo prevede che «Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con i Ministri dell’interno e per i rapporti con le regioni, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, numero 281, e successive modificazioni, da emanare entro il 30 settembre 2009, sono definite le modalità e la modulistica per l’assoggettamento al patto di stabilità interno delle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgano attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica». Si tratta, come già precisato, della disposizione alle cui modalità di attuazione il censurato comma 5 dell’articolo 3-bis del d.l. numero 1 del 2012 rinvia e nei cui confronti la ricorrente chiedeva l’autoremissione, ritenendo che avesse, in via legislativa, sottoposto le società in house al Patto di stabilità interno e che, quindi, già con la suddetta sentenza numero 325 del 2010 questa Corte avrebbe dovuto estendere, ex articolo 27 della legge numero 87 dell’11 marzo 1953, la pronuncia di illegittimità. Al riguardo, il punto di partenza della ricorrente cioè che con tale disposizione si è prevista la sottoposizione delle società in house al patto di stabilità interno è esatto, ma sono errate le conclusioni. Con tale disposizione si è, infatti, reso legislativamente esplicito un adempimento di origine comunitaria rientrante in quei contenuti minimi non derogabili cui fa riferimento la sentenza numero 325 del 2010 e proprio la mancata estensione ad essa della pronuncia di illegittimità di parte del comma 10 dell’articolo 23-bis dimostra che questa Corte, già dalla citata sentenza, ha ben differenziato tra l’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno, che era fuori dal giudizio, e gli strumenti per renderlo normativamente o amministrativamente più facilmente gestibile che costituivano, invece, l’oggetto della pronuncia. È a tali strumenti, o, per meglio dire, alla loro natura, che occorre fare riferimento, dato che la materia cui le due disposizioni legislative attengono è la stessa, vale a dire quella del «coordinamento della finanza pubblica» di cui al comma terzo dell’articolo 117 Cost., nella quale lo Stato non può ricorrere alla potestà regolamentare. Nel comma 10 dell’articolo 23-bis si prevedeva il ricorso, da parte del Governo, ad uno o più regolamenti di cui all’articolo 17, comma 2, della legge numero 400 del 1988, cioè ad un atto di normazione secondaria generale ed astratto, idoneo a determinare, nel rispetto dei principi che regolano la gerarchia delle fonti di produzione del diritto, innovazioni nella materia. Invece, nella disciplina legislativa attualmente impugnata ed in quella cui questa fa riferimento si prevede il ricorso ad un decreto ministeriale che, per quello che costituisce il suo oggetto, ha la natura di atto non regolamentare. Mentre, difatti, nel comma 10 dell’articolo 23-bis si precisava che il regolamento avrebbe avuto come oggetto quello di «prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari così detti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno», con possibilità, quindi, di dettare regole che disciplinassero anche nel merito questo assoggettamento o che, in ogni caso, potessero, nel limite del rispetto di quanto contenuto nella legge che lo prevedeva, determinare innovazioni normative, nella disposizione legislativa cui rinvia il censurato comma 5 dell’articolo 3-bis è previsto che il decreto ministeriale definisca esclusivamente le «modalità e la modulistica» dell’assoggettamento al patto di stabilità. Si tratta, quindi, di un atto che non ha contenuti normativi, ma che adempie esclusivamente ad un compito di coordinamento tecnico, volto ad assicurare l’uniformità degli atti contabili in tutto il territorio nazionale. Per ciò, poi, che riguarda il secondo dei termini usati per delimitare la materia del decreto ministeriale, cioè la «modulistica», ci si trova di fronte ad una materia che rientra nella legislazione esclusiva dello Stato cioè il «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» di cui alla lettera r del comma secondo dell’articolo 117 Cost. e, quindi, poiché era possibile, per lo Stato, anche il ricorso allo strumento regolamentare, non può ravvisarsi un’illegittimità nel ricorso ad una fonte non regolamentare. Con la norma impugnata, pertanto, il legislatore statale non ha oltrepassato i limiti posti dall’articolo 117, comma terzo, Cost., né è venuto a ledere la competenza regolamentare della Regione, di cui al comma sesto dell’articolo 117 Cost. 6.– L’istanza di sospensione dell’efficacia delle norme impugnate, formulata dalla Regione Veneto, rimane assorbita dalla decisione circa la non fondatezza nel merito delle censure proposte con il ricorso ex plurimis, sentenza numero 299 del 2012 . per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riservata a separate pronunce la decisione delle questioni di legittimità costituzionale riguardanti le altre disposizioni contenute nel decreto-legge 24 gennaio 2012, numero 1 Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività , convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, numero 27 1 dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 25, comma 1, lettera a , del decreto-legge 24 gennaio 2012, numero 1 Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività , convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, numero 27, nella parte in cui introduce l’articolo 3-bis, comma 3, nel decreto-legge 13 agosto 2011, numero 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, promosse dalla Regione Veneto, con riferimento agli articoli 3, 5, 97, 114 e 119 della Costituzione, all’articolo 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, numero 3 Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione , agli articoli 1, comma 1, e 2, comma 2, lettere z e ll , della legge 5 maggio 2009, numero 42 Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione , con il ricorso in epigrafe 2 dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del citato articolo 25, comma 1, lettera a , del decreto-legge numero 1 del 2012, quale convertito dalla legge numero 27 del 2012, nella parte in cui introduce l’articolo 3-bis, commi 2, 3, 4 e 5, nel decreto-legge numero 138 del 2011, promosse dalla Regione Veneto, con riferimento agli articoli 117, commi primo, secondo, lettera e , terzo, e sesto, 118, 119, commi secondo, terzo, quarto e quinto, Cost. e al principio di leale collaborazione, con il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 marzo 2013.