Documento di identità distrutto? È una bugia che diventa un reato

L’imputato, attraverso la falsa dichiarazione a lui addebitata, intendeva ottenere il rilascio di un nuovo documento e, allo stesso tempo, disporre liberamente di quello rimasto in suo possesso, per il raggiungimento di altri obiettivi illeciti.

Per queste ragioni, la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 1145/2014 depositata lo scorso 14 gennaio, ha rigettato il ricorso dell’imputato. Il caso. Un uomo veniva condannato, in entrambi i giudizi di merito, per la falsità di una dichiarazione resa all’ufficio anagrafe di un Comune della provincia di Brescia, con la quale aveva rappresentato di aver inavvertitamente distrutto la propria carta di identità della quale, invece, avrebbe poi fatto uso, modificata nelle indicazioni del cognome e della data di nascita. Anche la Corte di Cassazione si è occupata della questione, dopo che l’imputato ha presentato ricorso. Carta di identità distrutta? I Giudici Supremi, ribadendo un orientamento delle stesse Sezioni Unite, hanno ricordato che «il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico articolo 483 c.p. è configurabile solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero» Cass., SSUU, numero 28/1999 . No, è solo un modo per commettere illeciti. Non solo. Gli Ermellini precisano che, nella fattispecie, è stata proprio la condotta effettivamente realizzata dall’imputato a dimostrare che attraverso la falsa dichiarazione a lui addebitata egli intendeva ottenere, da un lato, il rilascio di un nuovo documento e, dall’altro, disporre liberamente di quello rimasto in suo possesso, per il raggiungimento di altri obiettivi illeciti. Per tali motivi, la S.C. conferma quanto deciso dai giudici di merito e rigetta in toto il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 30 maggio 2013 – 13 gennaio 2014, numero 1145 Presidente Marasca – Relatore Micheli Ritenuto in fatto Il difensore di T.D. ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe, recante la conferma della sentenza emessa dal Tribunale di Brescia il 04/04/2011, nei confronti del suddetto. I fatti si riferiscono alla presunta falsità di una dichiarazione resa dall'imputato all'ufficio anagrafe del comune di Palazzolo sull'Oglio, con la quale egli aveva rappresentato di avere inavvertitamente distrutto la propria carta d'identità della quale, invece, avrebbe poi fatto uso, modificata nelle indicazioni del cognome e della data di nascita . Con il ricorso oggi in esame, il difensore lamenta 1. inosservanza ed erronea applicazione dell'articolo 483 cod. penumero . Secondo la difesa dell'imputato, il reato de quo può dirsi configurabile non già quando la dichiarazione asseritamente falsa intervenga in occasione di un atto pubblico, ma nel corpo di un atto pubblico situazione che non potrebbe dirsi verificata nel caso di specie, atteso che una dichiarazione sostitutiva ex articolo 46 e 47 del d.P.R. numero 445 del 2000 - come quella sottoscritta dal T. - risulta pur sempre un atto del privato, di cui il soggetto pubblico è semplice destinatario. Va peraltro considerato che la fattispecie concreta riguarda in realtà il lamentato deterioramento della carta d'identità, che - a differenza di quanto previsto in caso di smarrimento o furto - non prevede una formale denuncia a pubblico ufficiale per il rilascio di un duplicato 2. violazione dell'articolo 603 cod. proc. penumero , nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata. La difesa censura la decisione della Corte territoriale - comunque adottata senza esporne i motivi - di non dare corso alla rinnovazione dibattimentale al fine di escutere la teste To.Ge. , che aveva curato presso il comune di Palazzolo sull'Oglio la pratica concernente il presunto rilascio del duplicato del documento del T. pratica incardinatasi su richiesta di un soggetto che nessuno, a parte la suddetta, sarebbe stato in grado di riconoscere nella persona dell'imputato. Ergo, vista la testimonianza di un sottufficiale dei Carabinieri limitatosi a segnalare di avere effettuato un mero raffronto tra le fotografie apposte sulle due carte d'identità, non vi sarebbe alcun elemento di certezza per affermare che fu davvero l'odierno ricorrente a richiedere il duplicato de quo 3. inosservanza ed erronea applicazione degli articolo 133 e 163 cod. penumero . Ad avviso del difensore del T. , la negazione della sospensione condizionale nei confronti dell'imputato sarebbe ingiustificata, avendo la Corte di appello richiamato la sussistenza di precedenti ostativi che avrebbero comunque consentito di concedere il beneficio una delle condanne pregresse riguardava infatti una semplice invasione di edifici, mentre l'altra si riferiva ad un episodio successivo ai fatti qui contestati. Considerato in diritto 1. Il ricorso non può trovare accoglimento. 1.1 Secondo le Sezioni Unite di questa Corte, “il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico articolo 483 cod. penumero è configurabile solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all'atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l'efficacia probatoria dell'atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero” Cass., Sez. U, numero 28 del 15/12/1999, Gabrielli, Rv 215413 . Nel caso in esame, la sanzione normativa appare immediatamente prevista dagli articolo 46 e 47 del d.P.R. numero 445 del 2000, in tema di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà e il valore pubblicistico dell'atto risultante dalla presentazione di una dichiarazione di tal fatta deriva dalla natura del soggetto ricevente pubblico ufficiale, quale è senz'altro il funzionario preposto all'ufficio anagrafe di un comune , in uno con il rilievo che alla dichiarazione de qua conseguono effetti giuridici di portata immediata, vale a dire la possibilità del rilascio del duplicato del documento. Quella era, del resto, la finalità perseguita dal prevenuto, né potevano esservene di differenti od ulteriori già sul piano logico, realizzandosi perciò - pure in una vicenda dove si assumeva il semplice deterioramento del documento, come sottolineato dal ricorrente - una situazione concreta del tutto assimilabile a quella dell'avvenuto smarrimento. La stessa giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare, dopo alcuni contrasti interpretativi, che “integra il reato di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico articolo 483 cod. penumero la falsa denuncia di smarrimento della patente di guida presentata ai Carabinieri considerato che la stessa attestazione di ricezione della denuncia è dichiarativa di attività svolta dal pubblico ufficiale e riveste efficacia probatoria, costituendo presupposto necessario per attivare il procedimento amministrativo di rilascio del duplicato della patente” Cass., Sez. 5, numero 7022 del 02/12/2010, Oliva, Rv 249832 . Nella motivazione di quest'ultima sentenza si ricordava peraltro che quella conclusione doveva imporsi anche tenendo presenti le indicazioni della suddetta pronuncia delle Sezioni Unite, giunte ad affermare il principio opposto con riguardo ad un caso di falsa denuncia di smarrimento di assegni veniva infatti precisato che “la questione dalla falsa denuncia di smarrimento di un assegno bancario [ ] pone delle problematiche in parte differenti. Infatti le Sezioni Unite hanno sottolineato che la denuncia di smarrimento degli assegni non costituiva presupposto essenziale per la procedura di ammortamento, in quanto il r.d. 21 dicembre 1933, numero 1736, articolo 69, contempla per tale procedura la denuncia al trattario e, a seguito di ricorso all'Autorità giudiziaria, appositi accertamenti ad opera della medesima relativi proprio alla verità dei fatti. Quindi le due situazioni sono differenti perché certamente la denuncia di smarrimento della patente di guida costituisce presupposto necessario per il rilascio del duplicato, come si è già notato. È il caso di rilevare che, comunque, la soluzione adottata dalla Sezioni Unite per il caso di smarrimento del blocchetto di assegni, non trasferibile per le considerazioni svolte alla falsa denuncia di smarrimento della patente di guida, non appare del tutto persuasiva non solo perché, come è stato posto in evidenza in altre pronunce [ ] la denuncia di smarrimento costituisce nei confronti della banca il dovere di non pagare gli assegni del blocchetto smarrito, ma anche perché non sembra corretto affermare che la destinazione dell'atto pubblico a provare la verità debba trovare la sua fonte necessariamente in un atto normativo. Ciò, infatti, se si tiene conto della lettera della legge, non è richiesto dal legislatore appare, pertanto, sufficiente che la destinazione di cui si è detto venga conferita all'atto proprio dalla libera scelta del cittadino, a condizione che lo stesso riferisca fatti rilevanti e che tale attestazione sia suscettibile di produrre effetti giuridici, tenuto conto del contesto normativo nel quale si inserisce. Insomma il cittadino è libero di denunciare o meno lo smarrimento della patente o del blocchetto di assegni, ma una volta che scelga di presentare denuncia per precostituirsi una prova e cioè per garantirsi dalle conseguenze, per lui negative, dello smarrimento, è tenuto a dichiarare la verità proprio perché la denuncia di smarrimento produce effetti giuridici rilevanti”. Le argomentazioni ora riportate valgono senz'altro anche per la fattispecie concreta oggi sub judice. Non appare pertanto necessario disquisire sulla possibilità che allo smarrimento od alla distruzione accidentale di una patente di guida o di un assegno possano conseguire effetti giuridici diversi da quelli che si verificano quando gli stessi accadimenti riguardino una carta d'identità, atteso che fu la condotta effettivamente realizzata dal T. a dimostrare che attraverso la falsa dichiarazione a lui addebitata egli intendeva da un lato ottenere il rilascio di un nuovo documento attestante la sua identità, e dall'altro disporre liberamente di quello rimasto in suo possesso, per il raggiungimento di altri obiettivi illeciti. Infatti, come emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, l'imputato intese avviare sotto falso nome attività imprenditoriali, alterando le proprie generalità sulla vecchia carta d'identità, in realtà mai andata distrutta o deteriorata. 1.2 Il secondo motivo di ricorso risulta inammissibile, afferendo a profili di merito in punto di ricostruzione dei fatti addebitati all'imputato, ed essendo manifestamente infondata la censura afferente la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. La Corte di appello di Brescia ha infatti già congruamente spiegato che non potevano esservi dubbi di sorta circa l'identificazione del soggetto che si presentò presso il comune di Palazzolo sull'Oglio richiedendo il duplicato della carta d'identità del T. , in quanto - l'imputato era comunque l'unico soggetto potenzialmente interessato a presentare quella istanza - nessun elemento è stato addotto circa la eventuale possibilità che un terzo fosse entrato in possesso del documento che si assumeva deteriorato o distrutto - la persona che chiese il rilascio della nuova carta venne identificata a mezzo della patente di guida appunto, del T. - la comparazione delle fotografie apposte sui due documenti porta a individuare con certezza nelle persone ivi ritratte lo stesso individuo. 1.3 La mancata concessione della sospensione condizionale risulta diffusamente motivata dalla Corte territoriale, anche a prescindere dalla rilevata esistenza di precedenti penali né risultano comunque condivisibili le doglianze della difesa, atteso che - quand'anche uno dei reati già giudicati fosse o meno da collocare in epoca posteriore a quello qui contestato - resterebbe l'insuperabile dato ostativo che il T. aveva già goduto più volte del beneficio in parola. 2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna dell'imputato al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.