Problemi psichici e tendenze suicide: nessuna colpa dei medici se il paziente alla fine si toglie la vita

Escluso ogni addebito nei confronti dei sanitari che seguivano l’uomo e della struttura ospedaliera che lo ospitava. Ciò comporta il ‘niet’ alla richiesta di risarcimento dei danni avanzata dal fratello e dalla sorella dell’uomo.

Seri problemi psichici per un uomo, autore, in passato, di tentativi di suicidio, e ora preso in cura da un ospedale e seguito da alcuni medici. Nonostante tutto, però, l’uomo riesce, purtroppo, nel suo intento si toglie la vita. Ma tale tragedia non è addebitabile alla struttura ospedaliera e ai medici, anche se fratello e sorella dell’uomo sostengono la tesi della scarsa attenzione prestata per le condizioni precarie del loro familiare Cassazione, sentenza numero 23421, sez. III Civile, depositata oggi . Scelta di morte. Secondo fratello e sorella dell’uomo, in sostanza, il loro familiare si è tolto «volontariamente la vita», e già «in passato aveva manifestato intenti suicidari». Eppure, i medici che «l’avevano in cura», nonostante tali «chiari sintomi», spiegano ancora i due, «non adottarono alcuna misura concreta per prevenire il suicidio in particolare, non sottoposero il paziente al trattamento sanitario obbligatorio, né adottarono misure di sorveglianza». Tali considerazioni, però, vengono ritenute irrilevanti dai giudici di merito, i quali, difatti, respingono la richiesta di «risarcimento dei danni» avanzata dai due familiari dell’uomo. E anche in ultima battuta, in Cassazione, i medici e la struttura ospedaliera vengono liberati da ogni responsabilità per la morte del paziente. Per i giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, «non vi è contraddizione alcuna tra il ritenere che una persona sia morta a causa di un suicidio, e che l’evento non fosse prevedibile né evitabile da parte dei medici che curavano quella persona da disturbi psichici». Questo quadro non può essere modificato neanche dalla «lettera inviata», all’epoca dei fatti, dal fratello dell’uomo «ai medici curanti», lettera in cui «si paventava il rischio del suicidio da parte del paziente». A fare da contraltare a tale lettera ci sono, spiegano i giudici, tre semplici constatazioni «la malattia da cui era affetta la vittima non rientrava clinicamente tra quelle definibili pericolose non vi erano gli estremi per un ‘trattamento sanitario obbligatorio’ le manifestazioni di volontà suicidaria erano sempre state ‘ambivalenti’, e la vittima mutava poi repentinamente di proposito».

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 11 giugno – 4 novembre 2014, numero 23421 Presidente Segreto – Relatore Rossetti Svolgimento del processo 1. Nel 1995 F.C. e C.C. convennero dinanzi al Tribunale di Milano l'amministratore straordinario della USL 75/V di Milano la Provincia Lombardo-Veneta dell'Ordine Ospedaliero di S. Giovanni di Dio - Fatebenefratello, i dott.ri Roberto Garini, Giorgio M. e tale L. Pedrinoni , esponendo che - erano i fratelli di A.C. - A.C., affetto da malattia psichica, era in cura presso il Centro Sacro Cuore di Gesù di S. Colombano al Lambro, gestito dall'ente ecclesiastico Ordine Ospedaliero S. Giovanni di Dio , ed era seguito altresì dagli altri sanitari convenuti - il 4.7.1993 A.C. si era tolto volontariamente la vita - l'ammalato già in passato aveva manifestato intenti suicidare - i sanitari che l'avevano in cura, nonostante tali chiari sintomi, non adottarono alcuna concreta misura per prevenire il suicidio, ed in particolare non sottoposero il paziente al trattamento sanitario obbligatorio, né adottarono misure di sorveglianza in regime di day hospital, nonostante il fratello della vittima, per ragioni di lavoro, non fosse in grado di sorvegliarlo costantemente. Chiesero di conseguenza la condanna dei convenuti in solido al risarcimento dei danni. 2. Si costituirono tutti i convenuti ad eccezione del dott. Pedrinoni. Il convenuto M. provvide altresì a chiamare in causa il proprio assicuratore della responsabilità civile, Aurora s.p.a Nel corso del giudizio di primo grado il giudice, rilevato come la USL 75/V fosse stata soppressa prima della notifica della citazione, ritenne di autorizzare gli attori a chiamare in causa la Regione Lombardia, quale ente su cui gravavano i debiti della disciolta USL. La Regione rimase contumace. 3. Con sentenza 18.12.2003 numero 17706 il Tribunale di Milano rigettò la domanda, ritenendo non provato che il sig. A.C. si fosse suicidato. 4. I soccombenti impugnarono la decisione di primo grado. La Corte d'appello di Milano, con sentenza 31.10.2007 numero 2881, rigettò l'appello. 5. La sentenza d'appello viene ora impugnata per cassazione dai sigg.ri Franco e C.C., sulla base di tre motivi. Hanno resistito con controricorso Roberto Garini e Giorgio M. col ministero di unico difensore , la Provincia Lombardo-Veneta dell'Ordine di S. Giovanni di Dio, la Regione Lombardia e la Aurora s.p.a Motivi della decisione Questioni preliminari. 1.1. Risulta dagli atti che la notifica all'intimato dott. Pedrinoni non è andata a buon fine. Risulta altresì che il primo tentativo di notifica, tentato a dicembre del 2008, non fu seguito da altri tempestivi tentativi. Ne consegue che il ricorso va dichiarato inammissibile nei confronti del suddetto intimato, previa separazione della relativa domanda, a nulla rilevando che l'insuccesso della notifica fosse ascrivibile o meno a negligenza dei notificanti. 1.2. E' infatti pacifico il principio, nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui quando la notificazione di un atto processuale, da effettuare entro un termine perentorio, non si perfezioni per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha l'onere - anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio - di chiedere all'ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio e, ai fini del rispetto del termine perentorio, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari, secondo la comune diligenza, per conoscere l'esito negativo della notificazione e assumere le informazioni del caso ex multis, Sez. L, Sentenza numero 20830 del 11/09/2013, Rv. 627938 Sez. L, Sentenza numero 21154 del 13/10/2010, Rv. 615083 e soprattutto Sez. U, Sentenza numero 17352 del 24/07/2009, Rv. 609264 Sez. 5, Sentenza numero 6547 del 12/03/2008, Rv. 602726 . Escluso dunque che questa Corte possa fissare alcun termine per rinnovare la notificazione al resistente Pedrinoni, ne segue l'inammissibilità del ricorso, per difetto assoluto di notifica. 2. II primo motivo di ricorso. 2.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell'articolo 360, numero 5, c.p.c. . Espongono, al riguardo, che la motivazione della sentenza d'appello sarebbe contraddittoria per avere da un lato ritenuto dimostrato che A.C. si suicidò, e dall'altro che nessuna responsabilità fosse ascrivibile ai convenuti. 2.2. Il motivo è manifestamente infondato. Non vi è infatti contraddizione alcuna tra il ritenere che una persona sia morta a causa di un suicidio, e dall'altro che l'evento non fosse prevedibile né evitabile da parte dei sanitari che curavano quella persona da disturbi psichici. L'accertamento della causa della morte attiene infatti all'elemento causale dell'illecito la colpa all'elemento soggettivo della colpa si tratta di elementi diversi e non necessariamente coesistenti. Ben può accadere infatti che una condotta umana causi un danno senza essere colposa, ovvero che una condotta colposa non produca danno veruno. 3. II secondo motivo di ricorso. 3.1. Anche col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell'articolo 360, numero 5, c.p.c. . Espongono, al riguardo, che la motivazione della sentenza d'appello sarebbe insufficiente, perché non ha tenuto conto di tutti gli elementi di prova acquisiti nel corso dell'istruttoria. Non ha considerato, in particolare, la lettera inviata da F.C. tra gli altri al dott. Giorgio M. ed al dirigente della USL 75/V solo 24 giorni prima che A.C. compisse il suo gesto estremo, e nella quale si informavano i destinatari che il paziente aveva già tentato due volte di suicidarsi con il gas, e si invitavano i destinatari a non dimettere il paziente, perché non ancora pronto a rimanere in casa . 3.2. Il motivo è infondato. Non vi è dubbio che l'omesso esame, da parte del giudice di merito, di fonti di prova ritualmente raccolte nel corso dell'istruttoria può, in astratto, costituire un vizio di motivazione. Tuttavia non esiste alcun nesso di implicazione reciproca tra l'omesso esame di una prova ed il vizio di insufficiente motivazione vale a dire che non basta l'omesso esame d'una prova, perché la motivazione dei giudice di merito possa reputarsi per ciò solo viziata. Con orientamento risalente, costante ed uniforme questa Corte ha fissato al riguardo i principi in base ai quali stabilire se l'omesso esame d'una prova si sia tradotto in un vizio di motivazione. Essi sono tre. 3.2.1. II primo principio è che l'omesso esame d'una prova da parte del giudice di merito non è di per sé sufficiente a ritenere la motivazione viziata. Il giudice di merito, infatti, non è tenuto a prendere in esame e valutare una per una tutte le prove raccolte nel corso del giudizio, ma può limitarsi ad indicare quelle che ha ritenuto dirimenti ai fini del giudizio. Pertanto il vizio di omessa o insufficiente motivazione sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, mentre non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte ex permultis, Sez. L, Sentenza numero 6288 del 18/03/2011, Rv. 616550 Sez. L, Sentenza numero 27162 del 23/12/2009, Rv. 611547 Sez. L, Sentenza numero 6064 del 06/03/2008, Rv. 602595 Sez. 3, Sentenza numero 828 del 16/01/2007, Rv. 593744, e via risalendo sino alla sentenza capostipite rappresentata da Sez. 3, Sentenza numero 734 del 17/04/1962, Rv. 251161 . 3.2.2. II secondo principio in subiecta materia è che il vizio di omesso esame d'una prova può condurre alla cassazione della sentenza impugnata soltanto quando sussista un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza Sez. L, Sentenza numero 24092 del 24/10/2013, Rv. 629172 Sez. 3, Sentenza numero 14973 del 28/06/2006, Rv. 593039 Sez. 1, Sentenza numero 1987 del 25/02/1987, Rv. 451285 . 3.2.3. II terzo principio generale è che la prova trascurata dal giudice di merito può dirsi decisiva soltanto quando essa, se presa in considerazione, avrebbe infirmato le altre prova con certezza, e non in base ad un giudizio di mera probabilità ex multis, Sez. 3, Sentenza numero 21249 del 29/09/2006, Rv. 593597 Sez. 3, Sentenza numero 14973 del 28/06/2006, Rv. 593039 Sez. 3, Sentenza numero 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706 Sez. 3, Sentenza numero 5473 del 14/03/2006, Rv. 589661 Sez. 3, Sentenza numero 14304 del 07/07/2005, Rv. 582685 Sez. L, Sentenza numero 10156 del 26/05/2004, Rv. 573180 . 3.3. Applicando dunque i suddetti principi al caso di specie, deve escludersi che sussista il lamentato vizio di motivazione. I ricorrenti infatti ascrivono alla Corte d'appello di avere trascurato la fonte di prova rappresentata da una lettera inviata ai medici curanti ed altre autorità dal fratello della vittima, nella quale si paventava il rischio del suicidio da parte del paziente. Or bene, in questa sede ovviamente la Corte di cassazione non può stabilire se il giudice di merito abbia accertato correttamente o meno il fatto della condotta colposa dei convenuti può soltanto stabilire se [a motivazione adottata al riguardo dal giudice di merito sia insufficiente, e se la considerazione della prova che si assume trascurata avrebbe portato con ragionevole certezza ad un esito diverso della lite. A tali quesiti, però, non possiamo dare risposta affermativa. La Corte d'appello, nella sostanza, ha escluso la colpa dei convenuti con un ragionamento fondato sui seguenti elementi a la malattia da cui era affetta la vittima non rientrava clinicamente tra quelle definibili “pericolose b non vi erano gli estremi per un trattamento sanitario obbligatorio c per le malattie del tipo di quelle da cui era affetto A.C. la scienza medica prescrive l'inserimento del paziente nel contesto sociale e familiare, e sconsiglia l'internamento d le manifestazioni di volontà suicidaria da parte di A.C. erano sempre state ambivalenti , e la vittima mutava poi repentinamente di proposito così la motivazione della sentenza impugnata, pp. 11-13 . Questa motivazione è di per sé logica, e la circostanza che il fratello della vittima avesse informato i sanitari degli intenti suicidari del paziente, se fosse stata valutata dalla Corte d'appello, non può dirsi che avrebbe a certamente portato ad una decisione diversa per la semplice ragione che la Corte d'appello comunque ha esaminato e valutato il punto di fatto rappresentato dalle manifestazioni di intenti autolesivi da parte della vittima [punto d dell'elenco che precede]. Dunque nessun vizio di motivazione sussiste stabilire, poi, se la Corte d'appello abbia adottato una decisione felice nel valutare nel modo suddetto gli elementi di fatto ad essa sottoposti è questione, come noto, che non è prospettabile in questa sede di legittimità. 3. II terzo motivo di ricorso. 3.1. Anche col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell'articolo 360, numero 5, c.p.c. . Espongono, al riguardo, che la sentenza impugnata, là dove ha ritenuto che i convenuti abbiano superato la presunzione di colpa posta a loro carico dall'articolo 1218 c.c., sarebbe erronea perché a da un lato, contrasta con le risultanze documentali acquisite in corso di causa, ivi comprese le deposizioni testimoniali b dall'altro, le allegazioni in fatto formulate dei convenuti a propria discolpa e poste dal c.t.u. a fondamento della propria relazione, con la quale pure aveva escluso che la condotta dei sanitari convenuti potesse ritenersi imperita o negligente non erano state affatto confermate dai testimoni escussi. 3.2. II motivo e inammissibile. Nella parte in cui lamenta un contrasto con le risultanze documentali , il motivo infatti prospetta un vero e proprio revocatorio, che si sarebbe dovuto far valere col rimedio di cui all'articolo 395, numero 4, c.p.c La sostanza del motivo, in ogni caso, è la richiesta di una valutazione delle prove in primis testimoniali nuova e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito una richiesta, dunque, inammissibile in sede di legittimità. 4. Le spese. La oggettiva delicatezza dei l'accertamento in facto della condotta illecita ascritta ai convenuti, con la conseguente non certa prevedibilità dell'esito della lite al momento in cui venne introdotta, costituisce un giusto motivo per compensare integralmente tra tutte le parti le spese di lite. P.Q.M. la Corte di cassazione - rigetta il ricorso - compensa integralmente tra tutte le parti le spese del presente grado di giudizio.