In caso di furto, un sistema di videosorveglianza non impedisce l’applicazione dell’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, se non si dimostra la presenza di un operatore addetto a controllare continuamente le immagini.
Lo statuisce la Corte di Cassazione nella sentenza numero 8794, depositata il 24 febbraio 2014. Il caso. La Corte d’Appello di Palermo confermava la condanna di un imputato per il furto di una bicicletta, aggravato dall’esposizione della cosa alla pubblica fede. Il soggetto ricorreva in Cassazione, contestando il riconoscimento dell’aggravante, sul presupposto che il bene era oggetto di sorveglianza continuativa mediante un impianto di videosorveglianza “chiuso”. L’occhio elettronico non basta. Analizzando la questione, la Corte sottolineava che un sistema di videosorveglianza, anche se consente la conoscenza postuma delle immagini riprese, non costituisce di per sé una difesa idonea ad impedire la consumazione dell’illecito attraverso un intervento immediato, né garantisce in maniera continuativa la custodia del bene. Serve una presenza umana. Il ricorrente, invece, non aveva saputo spiegare in base a quali circostanze si sarebbe dovuto dedurre che il sistema di videosorveglianza fosse governato da un operatore, addetto a controllare in maniera continuativa le immagini trasmesse e, eventualmente, se lo facesse in un luogo idoneo a garantire una reazione tempestiva al furto. Di conseguenza, la Cassazione confermava il riconoscimento dell’aggravante e dichiarava inammissibile il ricorso.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 29 gennaio – 24 febbraio 2014, numero 8794 Presidente Ferrua – Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 21 novembre 2012 la Corte d'appello di Palermo confermava la condanna di P.E. per il reato di furto aggravato dall'esposizione della cosa alla pubblica fede in concorso con B.G. e ad oggetto una bicicletta. 2. Avverso la sentenza ricorre a mezzo dei proprio difensore il P. deducendo l'errata applicazione dell'articolo 625 numero 7 c.p. in merito al riconoscimento dell'aggravante contestata, rilevando l'inconfigurabilità della medesima in ragione del fatto che il bene sottratto era oggetto di sorveglianza continuativa a mezzo di impianto di videosorveglianza chiuso . Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato e generico. Infatti per il costante insegnamento di questa Corte sussiste l'aggravante di cui all'articolo 625, comma primo, numero 7 c.p. qualora il furto della cosa esposta alla pubblica fede sia commesso in un luogo avente un sistema di videosorveglianza, il quale, ancorché consenta la conoscenza postuma delle immagini registrate dalla telecamera, non costituisce di per sé una difesa idonea a impedire la consumazione dell'illecito attraverso un immediato intervento ostativo, né garantisce in maniera continuativa la custodia del bene da parte del proprietario o di altra persona addetta alla sua sorveglianza Sez. 5, numero 6682/08 del 8 novembre 2007, Manno, Rv. 239095 Sez. 5, numero 35473 del 20 maggio 2010, Canonica, Rv. 248168 . La Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione di tale principio, mentre il ricorrente non ha saputo indicare da quali circostanze di fatto dovrebbe dedursi che il sistema di videosorveglianza fosse governato da un operatore addetto a controllare in maniera continuativa le immagini trasmesse dalla telecamera per di più in luogo idoneo a garantire una tempestiva reazione all'azione furtiva. Quanto infine al precedente menzionato dal ricorrente è appena il caso di rilevarne l'inconferenza, riguardando il medesimo ben altra fattispecie quella dell'antifurto satellitare e ciò a tacere del fatto che lo stesso in ogni caso ribadisce il principio per cui solo una vigilanza continuativa è in grado di escludere l'aggravante di cui si tratta. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorso consegue ai sensi dell'articolo 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di euro mille alla cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.