Vittoria definitiva per una nota multinazionale. A inchiodare il lavoratore sono stati i video da lui postati su Instagram.
Legittimo il licenziamento dell'operaio che nello stabilimento si rifiuta, come da prescrizione del medico aziendale, di movimentare carichi aventi peso superiore ai 18 chilogrammi, mentre in palestra, come da video condivisi su Instagram, solleva pesi ben superiori. Scenario della vicenda è uno stabilimento italiano di una nota società multinazionale. A finire nei guai è un operaio, messo alla porta dall'azienda per il comportamento tenuto fuori dall'orario di lavoro, un comportamento additato come non compatibile coi problemi di salute riconosciutigli dal medico aziendale. Inequivocabili i dettagli della originaria contestazione disciplinare mossa all'operaio. Nello specifico, gli è stato «addebitato di avere svolto, quale personal trainer di fitness , iscritto alla ‘FIPE - Federazione Italiana Pesistica', attività e allenamenti incompatibili con le prescrizioni mediche con le quali il medico aziendale lo ha ritenuto idoneo alla specifica mansione» assegnatagli nello stabilimento «ma con la limitazione della movimentazione manuale dei carichi al di sopra dell'altezza della spalla e della movimentazione manuale di carichi aventi peso superiore ai 18 chilogrammi». Decisivo il riferimento, nello specifico, ai video caricati dall'operaio sulla propria pagina su Instagram, pagina mirata a pubblicizzare le sue competenze come personal trainer. A legittimare la linea dura adottata dall'azienda provvedono i giudici di merito, i quali confermano il licenziamento , nonostante le obiezioni sollevate dal lavoratore, e aggiungono che quest'ultimo «non ha mai negato di avere espletato le attività oggetto di contestazione disciplinare», attività certificate, come detto, da numerosi video caricati su Instagram, video che lo ritraggono impegnato in palestra in attività «comportanti sia movimentazione di pesi di oltre i 18 chilogrammi che sollevamenti di pesi oltre l'altezza della spalla». Per i giudici d'Appello, in particolare, non ci sono dubbi: «l'operaio ha posto in essere un'attività extra-lavorativa tutt'altro che episodica o casuale, consistente in esercizi fisici potenzialmente idonei a comportare un aggravamento delle patologie sofferte. In tal modo ha consapevolmente violato gli specifici obblighi contrattuali di fedeltà, correttezza e buonafede ». Di conseguenza, il modo di agire del lavoratore è «idoneo a configurare una giusta causa di licenziamento», sanciscono i giudici d'Appello, i quali riconoscono «la proporzionalità della sanzione espulsiva» adottata dall'azienda e concludono che «le violazioni poste in essere dall'operaio, considerate nell'aspetto sia oggettivo che soggettivo, appaiono di particolare gravità, sì da avere un inevitabile riflesso sulla funzionalità del rapporto di lavoro, compromettendo le aspettative della parte datoriale in ordine ad un futuro puntuale adempimento degli obblighi assunti dal lavoratore, secondo i canoni di fedeltà, buonafede, correttezza e diligenza». Impensabile, quindi, checché ne dica il lavoratore, ipotizzare una sanzione conservativa. A chiudere il cerchio provvedono i magistrati di Cassazione, respingendo definitivamente le obiezioni sollevate dal lavoratore. A legittimare la contestazione disciplinare operata dall'azienda sono «le immagini volontariamente pubblicate» dall'operaio «in una piattaforma ‘social', nella specie anche con finalità di promozione personale, aperta all'accesso di un numero indeterminato di persone». A fronte di tale quadro, accertato tra primo e secondo grado, i magistrati ribadiscono che «l'attività compiuta dal lavoratore in ambito extra-lavorativo, anche se non in costanza di malattia, può configurare una violazione dei doveri di correttezza e buonafede tale da giustificare il licenziamento laddove non sia compatibile con le sue condizioni fisiche che (abbiano) ridotto la sua capacità lavorativa, con» conseguente «rischio di aggravamento di quelle condizioni». Utile, in questa ottica, il riferimento al principio secondo cui «l'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto ampio» che impone «correttezza e buonafede anche nei comportamenti extra-lavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro. L'obbligo di fedeltà deve intendersi anche come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi con l'inserimento del dipendente nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima impresa o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro». Applicando questa visione alla vicenda in esame, è corretto, osservano i giudici di Cassazione, il ragionamento seguito in Appello, laddove «non si considera illecito disciplinare una condotta che sia esclusivamente confinata nell'ambito dei comportamenti privati del lavoratore, ma la si valuta nella misura in cui essa confligga con obblighi comunque derivanti dal rapporto di lavoro». Ciò anche tenendo a mente che «nel complesso sistema di interazione tra la persona del lavoratore subordinato e l'inserimento nell'organizzazione aziendale, gli obblighi gravanti sul lavoratore non si esauriscono nell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, alla quale si affianca un insieme di doveri accessori o strumentali comunque diretti al soddisfacimento di un interesse del datore che sia meritevole di tutela. In tale ambito si collocano sia obblighi preparatori all'adempimento, che pongano il lavoratore nella condizione di adempiere alla prestazione oggetto del contratto, sia obblighi di protezione della sfera di interessi del datore di lavoro, e, in entrambi i casi, possono assumere rilievo comportamenti tenuti dal lavoratore in ambiti extralavorativi e al di fuori dell'orario di lavoro. Ciò in coerenza con la struttura di un rapporto obbligatorio tipicamente di durata, in cui il risultato atteso del creditore di lavoro riguarda non solo l'adempimento della prestazione principale, ma anche l'assolvimento di obblighi ulteriori, in relazione di accessorietà e complementarietà con il rapporto obbligatorio principale, che trovano la loro fonte integrativa nei doveri di correttezza e buonafede». Tirando le somme e analizzando la condotta del lavoratore, «va giudicata come gravemente lesiva degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede un'attività extra-lavorativa, affatto occasionale, potenzialmente idonea a comportare un aggravamento delle patologie sofferte» dal lavoratore, «in presenza di prescrizioni mediche che sconsigliavano talune tipologie di sforzi fisici, tanto da determinare una limitazione alla prestazione esigibile dalla società», e tale condotta «va considerata, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, tale da compromettere irrimediabilmente l'affidamento datoriale sulla futura corretta funzionalità del rapporto di lavoro», chiosano i magistrati di Cassazione.
Presidente Manna – Relatore Amendola Fatti di causa 1. Con la sentenza impugnata, la Corte d'Appello di Roma, nell'ambito di un procedimento di reclamo ex lege n. 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva giudicato legittimo il licenziamento disciplinare intimato a R.T. dalla ( omissis ) Spa. 2. La Corte territoriale ha preliminarmente riportato i contenuti della contestazione disciplinare con cui veniva addebitato al dipendente di aver svolto, quale “( omissis ) iscritto alla Federazione ( omissis )”, “attività e allenamenti incompatibili con le prescrizioni mediche” con le quali il medico aziendale competente lo aveva ritenuto idoneo alla mansione specifica di “Addetto di linea ( omissis )” ma con la limitazione della movimentazione manuale dei carichi al di sopra dell'altezza della spalla e della movimentazione manuale di carichi aventi peso superiore ai 18 kg. 3. Quindi la Corte, in sintesi e per quanto ancora rilevi, ha respinto il motivo di reclamo con cui il lavoratore si doleva che il primo giudice avesse ritenuto “utilizzabili, ai fini della prova della sussistenza del fatto, le risultanze delle indagini difensive depositate dalla società”; ha condiviso il ragionamento del Tribunale che “ha ritenuto provati i fatti che hanno giustificato il licenziamento non già sulla base del ‘report' dell'agenzia cui la società reclamata ha conferito l'incarico investigativo, bensì sulla scorta del principio di cui all' articolo 115 c.p.c. , non avendo R.T. mai negato di aver espletato le attività oggetto di contestazione disciplinare”. Pertanto – ha proseguito la Corte – “la prova dei suddetti fatti non discende dal documento prodotto dalla società, bensì dal contegno difensivo del dipendente, che quei fatti, nella loro materialità, non ha contestato”. La Corte ha anche ritenuto che “deve ritenersi nuova, e dunque inammissibile, la questione introdotta alla pagina 20 dell'atto di reclamo, secondo cui l'inutilizzabilità della consulenza <inficia anche le contestazioni poste a base della lettera di licenziamento in quanto le condotte ivi indicate sono solo quelle registrate dall'agenzia investigativa nella relazione di cui al documento n. 30>”, aggiungendo che: “In ogni caso, ove (…) si ritenesse tempestiva la prospettazione di tale vizio, deve rilevarsi che certamente è legittima la contestazione di tutte le condotte di cui la società ha avuto, come detto, conoscenza diretta attraverso l'esame dei video caricati su (OMISSIS) dal lavoratore, relativi alla maggior parte delle condotte contestate e comportanti sia movimentazione di pesi di oltre i 18 chilogrammi che sollevamenti di pesi oltre l'altezza della spalla”. 4. Sulla scorta della consulenza tecnica d'ufficio, in conformità al primo giudice, il Collegio ha affermato che “l'odierno reclamante ha posto in essere un'attività extra-lavorativa, tutt'altro che episodica o casuale, consistente in esercizi fisici potenzialmente idonei a comportare un aggravamento delle patologie sofferte. In tal modo ha consapevolmente violato gli specifici obblighi contrattuali di fedeltà, correttezza e buona fede”. Ha ritenuto, quindi, la condotta idonea a configurare una giusta causa di licenziamento, delibando la proporzionalità della sanzione espulsiva e giungendo alla conclusione che “le violazioni poste in essere dal R.T., considerate nell'aspetto sia oggettivo che soggettivo, appaiono di particolare gravità, sì da avere un inevitabile riflesso sulla funzionalità del rapporto di lavoro, compromettendo le aspettative della parte datoriale in ordine ad un futuro puntuale adempimento degli obblighi assunti dal lavoratore, secondo i canoni di fedeltà, buona fede, correttezza e diligenza”. 5. Infine, la Corte ha escluso che il fatto accertato rientrasse in alcuna delle condotte previste dalle parti sociali come punibili con sanzione conservativa. 6. Per la cassazione di tale sentenza, il lavoratore ha proposto ricorso con quattro motivi; ha resistito l'intimata società con controricorso, poi illustrato anche da memoria. La Procura Generale ha depositato memoria con cui ha illustrato le conclusioni di rigetto del ricorso. Ragioni della decisione 1. I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati. 1.1. Il primo motivo denuncia: “violazione e/o falsa applicazione dell' articolo 5 e dell'articolo 8 della legge 20 maggio 1970 n. 300 nonché dell' articolo 2 decies del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 e 4 del Regolamento UE 679/2016”; si deduce che la sentenza della Corte di Appello è illegittima “in quanto ha ritenuto utilizzabile a fini disciplinari un trattamento di dati ‘occulto' riguardante la vita personale del ricorrente in assenza di consenso, in violazione della normativa sulla privacy e in violazione delle norme su divieti di controlli non strettamente connessi con l'attività lavorativa”. 1.2. Il secondo motivo denuncia: “violazione e/o falsa applicazione dell' articolo 1, co. 48 - 51 della legge 92/2012 e dell' articolo 112 c.p.c. , 414 c.p.c. nonché dell'articolo 1421 c.c. e dell'articolo 1324 c.c.”; si critica la sentenza gravata per aver considerato tardiva “l'eccezione di invalidità del trattamento dei dati e dell'acquisizione dei documenti e delle immagini del ricorrente utilizzate ai fini della contestazione disciplinare”. 1.3. Il terzo motivo denuncia: “violazione e/o falsa applicazione dell'articolo. 2119 c.c. nonché dell'articolo 2104 c.c., dell'articolo 2106 c.c., dell'articolo 1175 e 1375 c.c., dell'articolo 2105 c.c., dell'articolo 20 del d.lgs. n. 81/08 ”. Si argomenta che: “la sentenza della Corte di Appello di Roma afferma erroneamente la rilevanza disciplinare del comportamento dell'odierno ricorrente consistente nello svolgimento di una disciplina sportiva che, senza in alcun modo concretamente limitare o incidere sulla sua prestazione lavorativa, viene punita con la massima sanzione in quanto ritenuta ‘potenzialmente' suscettibile di aggravare una condizione di inidoneità al lavoro”. 1.4. Il quarto motivo, in via subordinata, denuncia: “violazione e/o falsa applicazione dell' articolo 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 e degli articolo 39 e 40 del CCNL chimico farmaceutico nonché dell' articolo 1362 c.c. e articolo 1364 e seguenti c.c. ”. Si critica la sentenza gravata nella parte in cui ha escluso che la condotta del ricorrente fosse riconducibile alla fattispecie del CCNL sanzionatoria di condotte punite con misura conservativa di cui alla lettera b) dell'articolo 39, che individua la condotta del lavoratore che “non osservi le prescrizioni in materia di ambiente e sicurezza”. 2. Il ricorso non può trovare accoglimento. 2.1. Il primo e il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per connessione, sono da respingere in quanto non risultano idonei a confutare la fondamentale ratio decidendi della sentenza impugnata secondo cui la prova dei comportamenti addebitati è stata, sia in primo che in secondo grado, giudizialmente accertata – come riportato nello storico della lite – “non già sulla base del ‘report' dell'agenzia cui la società reclamata ha conferito l'incarico investigativo, bensì sulla scorta del principio di cui all' articolo 115 c.p.c. , non avendo R.T. mai negato di aver espletato le attività oggetto di contestazione disciplinare”. Quindi la fonte del convincimento circa la sussistenza dei fatti addebitati non deriva da atti che chi ricorre assume non utilizzabili in quanto acquisiti in violazione di un divieto, bensì dal comportamento processuale del R.T., così come valutato dai giudici del doppio grado, mentre ogni ulteriore argomentazione sviluppata nella sentenza impugnata è svolta “ad abundantiam” dalla stessa Corte territoriale sulla base di quanto già ritenuto dal Tribunale. Come noto, giurisprudenza consolidata vuole che siano inammissibili i motivi di ricorso per cassazione volti a censurare argomentazioni della sentenza gravata svolte ad abundantiam, e pertanto non costituenti ratio decidendi della medesima in quanto prive di effetti giuridici, di modo che vi è difetto di interesse ad impugnarle (cfr. Cass. n. 24591 del 2005 ; Cass. n. 7074 del 2006 ; Cass. n. 23635 del 2010 ; Cass. n. 8755 del 2018 ; Cass. n. 18429 del 2022 ; ancora di recente, Cass. n. 1770 del 2025 ). Inoltre, il secondo mezzo di ricorso, là dove lamenta un preteso error in procedendo, presenta pregiudiziali profili di inammissibilità, vuoi perché non vengono riportati, neanche sommariamente, i contenuti degli atti processuali sui quali la censura si fonda e, in particolare, la verbalizzazione dell'udienza del 20 ottobre 2022, in cui sarebbe stata formulata dalla difesa del R.T. “l'eccezione di invalidità del trattamento dei dati e dell'acquisizione dei documenti e delle immagini del ricorrente ai fini della contestazione disciplinare”; vuoi perché non riporta la parte dell'atto di reclamo che avrebbe devoluto (e in quali termini) la questione al giudice del gravame. Secondo costante insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 8077 del 2012), infatti, a proposito degli errori di attività dei giudici del merito, “il riconoscere al giudice di legittimità il potere di cognizione piena e diretta del fatto processuale, […], non comporta certo il venir meno della necessità di rispettare le regole poste dal codice di rito per la proposizione e lo svolgimento di qualsiasi ricorso per cassazione, ivi compreso quello con cui si denuncino errores in procedendo”; “ciò vuoi dire non solo che, com'è del tutto ovvio, i vizi del processo non rilevabili d'ufficio possono essere conosciuti dalla Corte di cassazione solo se, e nei limiti in cui, la parte interessata ne abbia fatto oggetto di specifico motivo di ricorso, ma anche che la proposizione di quel motivo resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall'estensione ai profili di fatto del potere cognitivo della corte”; “nemmeno in quest'ipotesi viene meno, in altri termini, l'onere per la parte di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito della specificità dei motivi d'impugnazione, ora tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute nell' articolo 366 c.p.c. , comma 1, n. 6, e art.369 c.p.c. , comma 2, n. 4, (…); sicché l'esame diretto degli atti che la corte è chiamata a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato”. Ciò non consente al Collegio neanche di delibare, in limine litis, la decisività del preteso errore in relazione all'asserita invalidità della contestazione disciplinare fondata su immagini volontariamente pubblicate in una piattaforma “social”, nella specie anche con finalità di promozione personale, aperta all'accesso di un numero indeterminato di persone, in rapporto al licenziamento impugnato originariamente per vizi diversi e ritenuto legittimo nella sua causa giustificatrice. 2.2. Il terzo motivo, con cui si critica diffusamente la pronuncia impugnata per aver ritenuto nella specie sussistente una giusta causa di licenziamento, è infondato. 2.2.1. La sentenza è sul punto esplicitamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte che, in caso analogo, ha ritenuto che l'attività compiuta dal lavoratore in ambito extra-lavorativo, anche se non in costanza di malattia, può configurare una violazione dei doveri di correttezza e buona fede tale da giustificare il licenziamento laddove - con apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità - non sia “compatibile con le sue condizioni fisiche che (abbiano) ridotto la sua capacità lavorativa con rischio di aggravamento delle condizioni stesse” ( Cass. n. 155 del 2015 , cui adde, in sostanziale conformità, v. Cass. n. 1374 del 2018 ). L'orientamento si colloca nell'alveo del consolidato principio per il quale l'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall' articolo 2105 c.c. , dovendo integrarsi con gli articolo 1175 e 1375 c.c. , che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra-lavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro (tra le altre: Cass. n. 2550 del 2015 ; Cass. n. 14176 del 2009); l'obbligo di fedeltà richiamato, appunto, dalla rubrica dell' articolo 2105 c.c. quale sintesi verbale di doveri di correttezza e buona fede, deve quindi intendersi non soltanto come mero divieto di abuso di posizione attuato attraverso azioni concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi, ma anche come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi con l'inserimento del dipendente nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (cfr., ex aliis, Cass. n. 8711 del 2017 ; Cass. n. 14249 del 2015 ; Cass. n. 144 del 2015 ; Cass. n. 25161 del 2014 ; Cass. n. 6501 del 2013 ; Cass. n. 5629 del 2000 ; sulla giurisprudenza precedente v. Cass. n. 11437 del 1995 con i richiami ivi contenuti in motivazione). Più di recente Cass. n. 26181 del 2024 ha anche ribadito come sia sufficiente la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno (v. Cass. n. 313 del 1996 ; Cass. n. 512 del 1997 ; Cass. n. 8208 del 1998; Cass. n. 7990 del 2000; Cass. n. 6957 del 2005 ; Cass. n. 2474 del 2008 ; Cass. n. 2550/2015 cit. evidenzia come il “dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata”), atteso che occorre valutare l'idoneità del comportamento a produrre un pregiudizio potenziale, per sé stesso valutabile nell'ambito della natura fiduciaria del rapporto, indipendentemente dal danno economico effettivo, la cui entità ha un rilievo secondario e accessorio nella valutazione complessiva delle circostanze di cui si sostanzia l'azione commessa (Cass. n. 13536 del 2002). Nell'occasione questa Corte ha rilevato, poi, che “l'accertamento di tali elementi, così come, in particolare, la mera preordinazione di una attività contraria agli interessi del datore di lavoro, che sia potenzialmente lesiva, concreta un accertamento di fatto, riservato al giudice del merito, sindacabile in sede di legittimità nei ristretti limiti in cui lo è ogni accertamento di fatto” (in conformità v. pure Cass. n. 19391 del 2024 ). Analogamente, il ritenere la condotta tenuta dal lavoratore potenzialmente pericolosa per le sue condizioni di salute (anche ove sia stato escluso, in concreto, un aggravamento della malattia) costituisce, inevitabilmente, una questione di merito, il cui apprezzamento esorbita dai poteri di controllo di questa Corte (in termini, Cass. n. 11154 del 2025 , con la giurisprudenza ivi richiamata). 2.2.2. Alla stregua dei richiamati principii, la sentenza impugnata non merita le censure che le sono mosse. La Corte territoriale non considera illecito disciplinare una condotta che sia esclusivamente confinata nell'ambito dei comportamenti privati del lavoratore, ma la valuta nella misura in cui la stessa confligga con obblighi comunque derivanti dal rapporto di lavoro. È acquisito che, nel complesso sistema di interazione tra la persona del lavoratore subordinato e l'inserimento nell'organizzazione aziendale, gli obblighi gravanti sul primo non si esauriscono nell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, alla quale si affianca un insieme di doveri accessori o strumentali comunque diretti al soddisfacimento di un interesse del datore che sia meritevole di tutela. In tale ambito si collocano sia obblighi preparatori all'adempimento, che pongano il lavoratore nella condizione di adempiere alla prestazione oggetto del contratto, sia obblighi di protezione della sfera di interessi del datore di lavoro, e, in entrambi i casi, possono assumere rilievo comportamenti tenuti dal lavoratore in ambiti extra-lavorativi e al di fuori dell'orario di lavoro. Ciò in coerenza con la struttura di un rapporto obbligatorio tipicamente di durata, nel quale il risultato atteso del creditore di lavoro riguarda non solo l'adempimento della prestazione principale, ma anche l'assolvimento di obblighi ulteriori, in relazione di accessorietà e complementarietà con il rapporto obbligatorio principale, che trovano la loro fonte integrativa nei doveri di correttezza e buona fede ex articolo 1175 e 1375 c.c. i quali permeano l'esecuzione di ogni relazione contrattuale. Tuttavia, le violazioni di tali obblighi secondari, che non attengono all'esecuzione in senso stretto della prestazione lavorativa, in tanto possono integrare giusta causa di licenziamento in quanto abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale, sulla funzionalità del rapporto compromettendo irrimediabilmente le aspettative d'un futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa ovvero siano idonee, per le concrete modalità con cui si manifestino, ad arrecare grave pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (per tutte v. Cass. n. 16268 del 2015 , con la giurisprudenza ivi richiamata; in conformità, da ultimo, Cass. n. 267 e 31866 del 2024). Dunque, risulta metodologicamente coerente con gli arresti richiamati della giurisprudenza di legittimità il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale che ha giudicato come gravemente lesiva degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede un'attività extra-lavorativa, affatto occasionale, potenzialmente idonea a comportare un aggravamento delle patologie sofferte, in presenza di prescrizioni mediche che sconsigliavano talune tipologie di sforzi fisici tanto da determinare una limitazione alla prestazione esigibile dalla società, condotta considerata, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, tale da compromettere irrimediabilmente l'affidamento datoriale sulla futura corretta funzionalità del rapporto di lavoro. Ciò posto, il motivo in esame non riesce ad individuare l'errore di diritto in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, traducendosi piuttosto in doglianze meramente contrappositive rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito, ben oltre i limiti del sindacato di legittimità in materia (tra le altre, Cass. n. 18715 e 20817 del 2016; Cass. n. 4125 del 2017 ; Cass. n. 7305 del 2018 ; Cass. n. 1379 del 2019 ; Cass. 13534 del 2019 ; Cass. n. 13064 del 2022 , Cass. n. 31622 del 2024 ; Cass. n. 15330 del 2025 ; cui si rinvia, ai sensi dell' articolo 118, comma 1, disp. att. c.p.c. ). 2.3. Il quarto motivo, con cui si eccepisce la violazione degli articolo 39 e 40 del CCNL chimico farmaceutico, è inammissibile. Infatti, nel corpo della censura non è specificato il completo contenuto delle clausole contrattuali collettive di cui si denuncia l'erronea interpretazione (ex multis: Cass. n. 25728 del 2013 ; Cass. n. 13587 del 2010 ) né si specifica se il contratto collettivo nazionale sia stato prodotto integralmente (cfr. Cass. SS.UU. n. 20075 del 2010 ) e l'avvenuta sua produzione e la sede in cui quel documento sia rinvenibile ( Cass. SS.UU. n. 25038 del 2013 ; Cass., SS. UU. n. 7161 del 2010 ; conformi: Cass. nn. 17602 del 2011 e n. 124 del 2013 ). Invero, in calce al ricorso vi è solo la dicitura “si deposita documentazione come da indice” e nell'indice risultano depositati i fascicoli delle varie fasi, senza che venga specificata la precisa collocazione dell'integrale CCNL nell'incarto processuale (cfr. Cass. n. 8711 del 2017). 3. In conclusione, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese che, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall' articolo 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012 , occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020 ). P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il soccombente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre euro 200 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%. Ai sensi dell'articolo 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.