Richieste di denaro ad imprenditori: ipotizzabile l’estorsione mafiosa se gli autori sono parenti del boss

Confermato dalla Cassazione il provvedimento adottato dal Tribunale. Legittima l'adozione della misura cautelare della custodia in carcere.

Richieste insistenti di piccole somme di denaro nei confronti di due imprenditori: legittimo ipotizzare il reato di estorsione, con l'aggravante del metodo mafioso, se ad agire sono figlia e genero di un boss mafioso. In discussione, per ora, la possibile applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di una donna, la quale è indagata, assieme al marito, per avere preso di mira due imprenditori toscani, chiedendo loro non solo generi alimentari ma anche denaro e accompagnando le richieste con riferimenti, neanche tanto velati, al padre e alla mafia. In prima battuta il Giudice per le indagini preliminari ha respinto l'ipotesi di sottoporre moglie e marito alla custodia cautelare in carcere. Di parere opposto, invece, il Tribunale che, accogliendo le considerazioni proposte dal Pubblico Ministero, ha disposto la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dei due coniugi, indagati per estorsione aggravata dal metodo mafioso . Con il ricorso in Cassazione, però, il legale che difende i due coniugi contesta l'esistenza di «gravi indizi di colpevolezza, anche in relazione all'aggravante contestata» e, in questa ottica, richiama alcune circostanze, ossia «lo scambio di messaggi privi di contenuto minatorio; le dichiarazioni delle persone offese, che pure hanno negato il contenuto intimidatorio; conversazioni telefoniche parimenti scevre di anomalie relazionali», circostanze «del tutto neutre, in quanto ampiamente giustificabili», sempre secondo il difensore, «con i cordiali pregressi rapporti con le persone offese» e con «l'attuale stato di illiquidità» dei due coniugi. Sempre secondo la difesa, «neppure sussiste il metodo mafioso, ricavato unicamente dalle relazioni familiari degli indagati, personalmente affatto estranei al contesto criminale di ‘Cosa nostra', consorteria che, ad oggi», sostiene il legale, «risulta essere stata completamente smantellata». Infine, secondo il legale, non vi sono esigenze cautelari tali da legittimare la custodia in carcere, anche perché, a suo dire, «risulta disancorata dalla concreta piattaforma indiziaria la prognosi infausta in tema di inquinamento probatorio e di reiterazione del reato, affermata sulla base di considerazioni meramente congetturali, nonostante le persone offese avessero già reso sommarie informazioni testimoniali e nonostante non emergano attuali collegamenti degli indagati con ambienti criminali». A fronte delle obiezioni difensive, però, arriva una secca risposta della Cassazione, che conferma la custodia cautelare in carcere , alla luce, viene specificato, di «gravi indizi di colpevolezza». Ciò perché «l'ampia ricostruzione delle emergenze investigative, complessivamente considerate, evidenzia congruamente l'effettiva portata dimostrativa delle reiterate richieste di aiuti economici avanzate dai due indagati (per telefono e mediante sistemi di messaggistica)» nei confronti dei due imprenditori, nonostante questi ultimi abbiano riferito «di essere stati infastiditi, ma di non essersi sentiti minacciati». In particolare, i magistrati di Cassazione richiamano quanto valutato dal Tribunale, e cioè che «a prescindere dall'esistenza di volontari elementi esplicativi della chiara percezione della valenza intimidatoria delle richieste» va valorizzato «il contenuto inespresso ma chiaro delle assillanti pretese di denaro (non apparendo sufficiente ai due coniugi il semplice invio di generi alimentari, pure loro proposto), le modalità di comunicazione (anche mediante telefonate dall'interno di un carcere, in palese e assai sintomatica violazione dei regolamenti penitenziari) e le dichiarazioni di congiunti e conoscenti delle vittime, che ne hanno confermato la condizione di turbamento e soggezione, alla luce del costante e trasparente richiamo, anche mediante risaputi stilemi lessicali, all'organizzazione mafiosa diretta, a suo tempo, dal padre della donna (“noi siamo sempre gli stessi… sempre gli stessi di un tempo…”, “questo è il mio Iban, ti ringraziamo tutti noi per quello che potrai fare”, e altri di consimile tenore)». In sostanza, «il Tribunale non delinea affatto una sorta di inammissibile tipo d'autore derivato unicamente da legami di parentela e affinità, ma, al contrario, valorizza ragionevolmente solidi elementi, rivelatori di una condotta dalle palesi connotazioni estorsive (a partire dalle richieste di denaro avanzate direttamente da un soggetto in stato di detenzione, richieste che stridono logicamente con ogni ricostruzione in termini di semplici rapporti di amicizia ed evidenziano invece un decisivo rafforzamento delle pressioni esercitate dall'indagata)». D'altronde, «l'affermazione difensiva per cui ‘Cosa nostra' dovrebbe considerarsi, ad oggi, non più operativa non può essere assunta, purtroppo e con ogni evidenza, come notoria massima di esperienza a contenuto generale, bensì, al più, come mera illazione, peraltro priva di una pur minima plausibilità», sanciscono i magistrati di Cassazione, respingendo in modo secco la tesi proposta dalla difesa. Ampliando l'orizzonte oltre la specifica vicenda, poi, viene chiarito che «la minaccia costitutiva del reato di estorsione, oltre che palese, esplicita e determinata, può manifestarsi in modi e forme differenti, e quindi anche in maniera implicita, larvata, indiretta e indeterminata, essendo solo necessario che sia idonea a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell'agente, alle condizioni soggettive e ambientali della vittima. D'altronde, una richiesta estorestorsiva, pur formalmente priva di espressioni di eclatante minaccia», come nel caso in esame, «ben può ugualmente contenere un'energica carica intimidatrice, chiaramente percepita come tale dalla vittima, anche alla sola luce dell'evocazione di un chiaro contesto mafioso». Ritornando all'episodio oggetto del processo, «rappresentano elementi indiziari di pregnante e insuperabile rilevanza il rifiuto di assistenza meramente alimentare da parte dei due indagati e la loro ossessiva pretesa di avere somme di denaro, pur non consistenti; la provenienza di alcune delle telefonate addirittura dall'interno di un istituto di reclusione; il ricorso ad avvertimenti obliqui, dal chiaro contenuto minatorio, tipici dell'agire mafioso sotto le vesti dell'apparente cordialità (tanto che, dopo l'ennesima formula di cortesia, un imprenditore vide bene di consegnare 1.000 euro in contanti, senza farne cenno ai carabinieri, con cui pure era già in contatto); il chiaro riferimento ai permanenti legami con la consorteria criminale già diretta dal padre della donna; la reticenza delle persone offese ad ammettere il proprio stato di timore, viceversa chiarissimo, e le loro informali richieste di aiuto alle forze dell'ordine, evitando però la formale presentazione di una denuncia». Per chiudere il cerchio, infine, i magistrati di Cassazione ritengono lampanti «le esigenze cautelari in tema di inquinamento probatorio e di reiterazione del reato e l' adeguatezza della misura» adottata, ossia la custodia in carcere. Ciò alla luce «della mole di interlocuzioni, pressanti e solo apparentemente garbate, nei confronti di due distinte persone offese, protratte sino a tempi recenti (un indagato era riuscito addirittura a procurarsi un telefono con cui chiamare dall'interno del carcere); i contatti della donna con un pregiudicato ben inserito nella malavita romana; la palese inefficacia deterrente delle precedenti condanne». Quindi, «il contenimento carcerario è reso necessario dalla assoluta necessità di isolare completamente gli indagati da ogni interazione con l'esterno».

Presidente Ariolli – Relatore Leopizzi Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Firenze, in funzione di Tribunale del riesame, in accoglimento dell'appello del Pubblico Ministero avverso l'ordinanza di rigetto del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze in data 26 novembre 2024, ha disposto la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di R.M.C. e  C.A., in relazione ai reati di cui agli articolo 110 -629 e 56-110-629 cod. pen. 2. Ricorrono per cassazione i suddetti indagati, con un unico atto a mezzo del proprio comune difensore, deducendo due motivi di impugnazione, che qui si riassumono nei termini di cui all' articolo 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione, in ordine alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, anche in relazione all'aggravante contestata. Il Tribunale, secondo la difesa, si sarebbe limitato a riportare le considerazioni espresse dagli inquirenti a sostegno della originaria richiesta di misura, senza confrontarsi compiutamente con le riflessioni del Giudice per le indagini preliminari (e, dunque, venendo meno all'obbligo di motivazione rafforzata), valorizzando illogicamente circostanze (lo scambio di messaggi privi di contenuto minatorio; le dichiarazioni delle persone offese, che pure avevano negato il contenuto intimidatorio, e di terzi; conversazioni telefoniche parimenti scevre di anomalie relazionali) del tutto neutre probatoriamente, in quanto ampiamente giustificabili con i cordiali pregressi rapporti con le persone offese e l'attuale stato di illiquidità degli indagati. Neppure sussisterebbe il metodo mafioso, ricavato unicamente dalle relazioni familiari degli indagati, personalmente affatto estranei al contesto criminale di (OMISSIS) (consorteria «che, ad oggi, risulta essere stata completamente smantellata»). 2.2. Violazione di legge e difetto di motivazione, in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari. Risulterebbe disancorata dalla concreta piattaforma indiziaria la prognosi infausta in tema di inquinamento probatorio e di reiterazione del reato, affermata sulla base di considerazioni meramente congetturali, nonostante le persone offese avessero già reso sommarie informazioni testimoniali e non emergano attuali collegamenti degli indagati con ambienti criminali. Sarebbe analogamente apodittico il tautologico richiamo alle presunzioni di legge. 3. All'odierna udienza camerale, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe. Considerato in diritto 1. I ricorsi sono complessivamente infondati. 2. Il primo motivo non è consentito, nella parte in cui sollecita un nuovo apprezzamento circa la rilevanza e concludenza dei dati probatori, ed è, comunque, infondato, in punto di diritto, per quel che concerne la lamentata carenza di motivazione rafforzata e la asserita impossibilità di configurare il delitto di estorsione. 2.1. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte in tema di misure cautelari personali, avuto particolare riguardo alla gravità indiziaria, il ricorso per cassazione è ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica e i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828; Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628-01; Sez. 4, n. 18795 del 02/03/2017, Di Iasi, Rv. 269884-01; Sez. 3, n. 20575 del 08/03/2016, Berlingeri, Rv. 266939-01; Sez. F, n. 47748 del 11/08/2014, Contarini, Rv. 261400-01). Il controllo di logicità, dunque, «deve rimanere “all'interno” del provvedimento impugnato, non essendo possibile procedere a una nuova o diversa valutazione degli elementi indizianti o a un diverso esame degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate» (Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, Tiana, Rv. 255460-01; in senso conforme, Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, Mazzelli, Rv. 276976-01). In ogni caso, costituisce questione di fatto, rimessa all'esclusiva competenza del giudice di merito, l'interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni captate, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715-01; Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337-01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389-01; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258164-01). 2.2. Nel caso di specie, l'ordinanza impugnata – compiutamente analizzati e logicamente apprezzati tutti gli elementi indiziari, ricondotti ad unità, attesa la loro piena concordanza – con motivazione priva di passaggi illogici o contraddittori, ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza a carico dei ricorrenti, in relazione ad ambedue i reati loro contestati, ivi compresi i profili circostanziali. In particolare, l'ampia ricostruzione delle emergenze investigative, complessivamente considerate, evidenzia congruamente l'effettiva portata dimostrativa delle reiterate richieste di aiuti economici avanzate dagli indagati (per telefono e mediante sistemi di messaggistica) nei confronti di S. e P.. Nonostante entrambe le persone offese avessero riferito di essere state infastidite, ma di non essersi sentite minacciate, il Tribunale – a prescindere dall'esistenza di volontari elementi esplicativi della chiara percezione della valenza intimidatoria di tali richieste – superando motivatamente tali cautele espositive (non prive esse stesse di efficacia inferenziale, adeguatamente contestualizzate), ha valorizzato, al contrario, il contenuto inespresso ma chiaro delle assillanti pretese di denaro (non apparendo sufficiente agli imputati il semplice invio di generi alimentari, pure loro proposto), le modalità di comunicazione (anche mediante telefonate dall'interno di un carcere, in palese e assai sintomatica violazione dei regolamenti penitenziari) e le dichiarazioni di congiunti e conoscenti delle vittime, che hanno confermato la loro condizione di turbamento e soggezione, alla luce del costante e trasparente richiamo, anche mediante risaputi stilemi lessicali, all'organizzazione mafiosa a suo tempo diretta dal padre della ricorrente («(OMISSIS)», e altri di con simile tenore). In tal modo, il Tribunale non delinea affatto una sorta di inammissibile tipo d'autore derivato unicamente da legami di parentela/affinità, ma, al contrario, valorizza ragionevolmente solidi elementi, rivelatori di una condotta dalle palesi connotazioni estorsive (a partire dalle richieste di denaro avanzate direttamente da un soggetto in stato di detenzione, che stridono logicamente con ogni ricostruzione in termini di semplici rapporti di amicizia ed evidenziano invece un decisivo rafforzamento delle pressioni esercitate dall'indagata). D'altronde, l'affermazione difensiva per cui (OMISSIS) dovrebbe considerarsi, ad oggi, non più operativa non può essere assunta, purtroppo e con ogni evidenza, come notoria massima di esperienza a contenuto generale, bensì, al più, come mera illazione, peraltro priva di una pur minima plausibilità. 2.3. Al netto delle ampie censure schiettamente fattuali svolte dai ricorrenti, la configurabilità della fattispecie provvisoriamente contestata emerge nitidamente dal corretto percorso giustificativo dell'ordinanza impugnata. In punto di diritto, può ribadirsi come la tradizionale esegesi di questa Corte ammetta che la minaccia costitutiva del reato, oltre che palese, esplicita e determinata, possa manifestarsi in modi e forme differenti, e quindi anche in maniera implicita, larvata, indiretta e indeterminata, essendo solo necessario che sia idonea a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell'agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni ambientali in cui questa versa (cfr., ex pluribus, Sez. 2, n. 14380 del 06/02/2025, Monetta, non mass; Sez. 2, n. 107 del 18/12/2024, dep. 2025, Donati, non mass.; Sez. 2, n. 27649 del 09/03/2021, Salvia, Rv. 281467-01). D'altronde, una richiesta estorestorsiva, pur formalmente priva di espressioni di eclatante minaccia, come nel caso di specie, ben può ugualmente contenere un'energica carica intimidatrice, chiaramente percepita come tale dalla vittima stessa, anche alla sola luce dell'evocazione di un chiaro contesto mafioso (cfr. Sez. 2, n. 51324 del 18/10/2023, Rizzo, Rv. 285669-01, secondo cui è configurabile l'aggravante del metodo mafioso anche a fronte di un messaggio intimidatorio “silente”. In termini, Sez. 3, n. 44298 del 18/06/2019, Di Caprio, Rv. 277182-01; Sez. 2, n. 26002 del 24/05/2018, Pizzimenti, Rv. 272884-01; Sez. 2, n. 20187 del 03/02/2015, Pizzimenti, Rv. 263570-01). L'aggravante del metodo mafioso, pertanto, nella pienezza della giurisdizione di merito, è stata ritenuta sussistente non sulla base di claudicanti congetture psicologiche, ma sul concreto presupposto che, in considerazione del modus operandi sopra descritto (sottili allusioni tali da richiamare alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo l'incombere retroscenico del sodalizio criminale siciliano), la minaccia avesse assunto la veste – ben più penetrante, energica ed efficace – propria dell'agire mafioso (cfr., Sez. 2, n. 32564 del 12/04/2023, Bisogni, Rv. 285018-02; Sez. 2, n. 36431 del 02/07/2019, Bruzzese, Rv. 277033-01; Sez. 5, n. 21530 del 08/02/2018, Spada, Rv. 273025-01; Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271103-01; Sez. 2, n. 16053 del 25/03/2015, Campanella, Rv. 263525-01). 2.4. L'apparato giustificativo, lungi dal risolversi in una mera contrapposizione valutativa, si è così confrontato puntualmente con le divergenti valutazioni del primo giudice e le ha superate, evidenziandone congruamente i profili di illogicità e di contraddittorietà rispetto al complessivo quadro indiziario, all'esito di un serrato confronto critico, connotato da maggiore persuasività e credibilità razionale e coerente con la consolidata interpretazione giurisprudenziale in tema di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Rappresentano elementi indiziari di pregnante e insuperabile rilevanza, in tal senso, secondo il Tribunale fiorentino, il rifiuto di assistenza meramente alimentare da parte degli indagati e la loro ossessiva pretesa di avere somme di denaro, pur non consistenti; la provenienza di alcune delle telefonate addirittura dall'interno di un istituto di reclusione; il ricorso ad avvertimenti “obliqui” dal chiaro contenuto minatorio, tipici dell'agire mafioso sotto le vesti dell'apparente cordialità (tanto che, dopo l'ennesima formula di cortesia, S. vide bene di recarsi immediatamente a (OMISSIS) per consegnare euro 1.000 in contanti, senza farne cenno ai Carabinieri, con cui pure era già in contatto); il chiaro riferimento ai permanenti legami con la consorteria criminale già diretta dal padre/suocero; la reticenza delle persone offese ad ammettere il proprio stato di timore, viceversa chiarissimo, e le loro informali richieste di aiuto alle Forze dell'Ordine, evitando però la formale presentazione di una denuncia. Il provvedimento impugnato è, dunque, sorretto da un percorso giustificativo tale da ottemperare appieno agli oneri motivazionali imposti dal ribaltamento contra reum della pronuncia di rigetto delle richieste cautelari. 3. Alla luce delle riflessioni che precedono, il secondo motivo risulta insuperabilmente generico, in quanto non si misura con il concreto apparato argomentativo, e manifestamente infondato, in punto di operatività dell'aggravante speciale. Quanto al periculum libertatis, infatti, i giudici di merito hanno chiarito, prima ancora di richiamare la presunzione di cui all' articolo 275, comma 3, cod. proc. pen. , la sussistenza delle esigenze cautelari in tema di inquinamento probatorio e di reiterazione del reato e l'adeguatezza della misura, con argomentazioni tutt'altro che illogiche o contraddittorie. Sono stati, in tal senso, stigmatizzati - la mole di interlocuzioni, pressanti e solo apparentemente garbate, nei confronti di due distinte persone offese, protratte sino a tempi recenti (C.A. era riuscito addirittura a procurarsi un telefono con cui chiamare dall'interno del carcere); - i contatti di R.M.C. con un pregiudicato ben inserito nella malavita romana; - la palese inefficacia deterrente delle precedenti condanne. Per il Tribunale, il contenimento carcerario è, dunque, reso necessario dalla assoluta necessità di isolare completamente gli indagati da ogni interazione con l'esterno. Il solo decorso del tempo, al contrario di quanto prospettato dal ricorrente (anche a prescindere dalla mancata allegazione di puntuali coordinate temporali a sostegno della deduzione), non risulta sufficiente, avuto riguardo all'aggravante “mafiosa” contestata e ritenuta, a superare la presunzione relativa di cui all' articolo 275, comma 3, cod. proc. pen. , per quanto attiene ai requisiti dell'attualità e della concretezza del pericolo (cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 6592 del 25/01/2022, Ferri, Rv. 282766-02; Sez. 1, n. 21900 del 07/05/2021, Poggiali, Rv. 282004-01). Il motivo di ricorso per cassazione che deduca assenza delle esigenze cautelari è ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando – come nel caso di specie, in cui ci si limita di fatto a rimarcare la rilevanza del lasso cronologico intercorso dai fatti e la sufficienza della misura autocustodiale – propone censure che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628-01). Le censure sul punto, in conclusione, risultano generiche e non consentite, nei termini sopra illustrati, e, comunque, manifestamente infondate. 4. I ricorsi, in conclusione, devono essere rigettati e i ricorrenti condannati, ai sensi dell' articolo 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese processuali. La Cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all' articolo 28, reg. esec. cod. proc. pen. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all 'articolo 28 reg. esec. c.p.p .