L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha inflitto una multa di 3,5 milioni di euro a Giorgio Armani S.p.A. e G.A. Operations S.p.A., per una “pratica commerciale scorretta” ai sensi degli articolo 20 e 21 del Codice del Consumo. Il provvedimento sanziona un chiaro caso di “s ocial washing ”, in cui le promesse di etica e responsabilità sociale si sono scontrate con una realtà produttiva assai diversa. La stessa Autorità, in un ulteriore procedimento ha analizzato la posizione della casa di moda Dior e valutato la coerenza tra le dichiarazioni etiche della stessa e le condizioni effettive della sua filiera produttiva. Pur non rilevando un illecito, ha accettato impegni vincolanti per garantire trasparenza, rafforzare i controlli, promuovere la formazione e sostenere progetti sociali.
La diffusione da parte delle società Giorgio Armani S.p.A. e G.A. Operations S.p.A. di dichiarazioni ingannevoli in materia di responsabilità etica e sociale, non corrispondenti alle effettive condizioni di lavoro presso fornitori e subfornitori, integra una p ratica commerciale scorretta ai sensi del Codice del Consumo . La diffusione di dichiarazioni etiche e di responsabilità sociale da parte di un'impresa può integrare una pratica commerciale scorretta ai sensi degli articoli 20 e 21 del Codice del Consumo , qualora tali affermazioni risultino non veritiere o non coerenti con le condizioni effettive della filiera produttiva. Anche in assenza di accertamento di illecito, l'Autorità può accettare impegni vincolanti idonei a rimuovere i profili di scorrettezza, imponendo misure di trasparenza, controllo, formazione e supporto sociale, con obbligo di monitoraggio continuativo. Il caso Il provvedimento n. 31638 | PS12793 dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) rappresenta un intervento significativo nel panorama della tutela dei consumatori, in particolare per quanto riguarda la trasparenza delle pratiche aziendali in materia di responsabilità sociale. Tale provvedimento è stato avviato in seguito a segnalazioni e indagini che hanno messo in luce una discrepanza tra le dichiarazioni pubbliche del Gruppo Armani e le condizioni effettive di lavoro nella sua filiera produttiva. Il Codice del Consumo , in particolare agli articoli 20 e 21, vieta le pratiche commerciali scorrette e ingannevoli che possono alterare il comportamento economico del consumatore. In questo caso, l'AGCM ha ritenuto che le affermazioni etiche e di sostenibilità diffuse dal Gruppo Armani fossero tali da influenzare le decisioni di acquisto, inducendo i consumatori a scegliere i prodotti del marchio sulla base di valori non realmente perseguiti. Il Gruppo Armani ha costruito una narrazione aziendale fondata su valori etici, sostenibilità ambientale e rispetto dei diritti umani, diffusa attraverso il proprio sito web e documenti ufficiali come il Codice Etico. Queste dichiarazioni, secondo l'AGCM, non erano supportate da una verifica effettiva delle condizioni di lavoro lungo la filiera produttiva. In particolare, il Codice Etico affermava l'impegno dell'azienda a garantire il rispetto delle normative nazionali e internazionali da parte di tutti i soggetti coinvolti nella produzione. Tuttavia, l'AGCM ha rilevato che tali affermazioni erano generiche, non verificabili e non corrispondevano alla realtà dei fatti. La mancanza di controlli adeguati e di trasparenza hanno reso queste dichiarazioni ingannevoli, configurando una pratica commerciale scorretta. Le indagini condotte dalla Guardia di Finanza e dalla Procura di Milano hanno portato alla luce una situazione allarmante nei laboratori subappaltati coinvolti nella produzione di borse e accessori in pelle per il Gruppo Armani. In questi opifici, spesso gestiti da soggetti cinesi, i lavoratori erano impiegati in condizioni di sfruttamento estremo. Le testimonianze e le evidenze raccolte hanno mostrato turni di lavoro superiori alle 14 ore giornaliere, anche nei giorni festivi, in ambienti privi di sicurezza, igiene e rispetto delle normative sul lavoro. I lavoratori vivevano in dormitori abusivi, privi di servizi essenziali, e ricevevano compensi ben al di sotto dei minimi contrattuali. Queste condizioni contrastano radicalmente con l'immagine di eccellenza artigianale e responsabilità sociale promossa dal marchio. L'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), ha analizzato un ulteriore caso relativo alla nota casa di moda Dior , il quale si inserisce nel più ampio contesto della regolazione delle pratiche commerciali scorrette , in particolare quelle legate al cosiddetto “ greenwashin g” e alla comunicazione etica nel settore moda. L'istruttoria è stata avviata a seguito di segnalazioni e verifiche che hanno messo in discussione la coerenza tra le dichiarazioni pubbliche di Dior in materia di sostenibilità e responsabilità sociale e le condizioni effettive di lavoro riscontrate nella filiera produttiva italiana del marchio. In particolare, sono emerse criticità relative all'impiego di manodopera sottopagata, ambienti di lavoro non conformi agli standard igienico-sanitari, orari e modalità di impiego non compatibili con la normativa vigente. Sebbene non siano state accertate violazioni sistemiche come nel caso Armani, l'AGCM ha ritenuto che le dichiarazioni etiche diffuse da Dior potessero risultare potenzialmente ingannevoli per il consumatore medio, falsando le sue scelte di acquisto. La questione In che modo le affermazioni ambientali utilizzate da Armani nelle sue campagne di comunicazione sono risultate ingannevoli? Perché l'AGCM ha accettato gli impegni di Dior invece di sanzionarlo? Le soluzioni giuridiche Il Provvedimento analizzato ha portato alla condanna delle società Giorgio Armani S.p.A. e G.A. Operations S.p.A. per aver diffuso dichiarazioni ingannevoli in materia di responsabilità etica e sociale , non corrispondenti alle effettive condizioni di lavoro presso fornitori e subfornitori. In particolare, le indagini condotte dalla Guardia di Finanza e dalla Procura di Milano hanno rivelato gravi violazioni presso i subfornitori del Gruppo Armani: lavoro nero, orari e condizioni di lavoro illegali, ambienti insalubri, rimozione dei dispositivi di sicurezza, e presenza di dormitori abusivi; in sostanza è emersa una cultura aziendale tollerante verso pratiche illecite, con controlli focalizzati sulla qualità del prodotto e non sulle condizioni di lavoro. In particolare, sono stati seguiti orari di lavoro illegali: turni di 10–14 ore al giorno, anche nei festivi, senza riposo settimanale; salari inadeguati: imponibili previdenziali inferiori a quelli dovuti, assenza di contratti regolari; e condizioni di sicurezza: rimozione dei dispositivi di protezione dai macchinari, ambienti insalubri, assenza di DPI. Condizioni queste che non rispettano le tutele dei lavoratori riconosciute oltre che dalla nostra Costituzione, dal Codice del lavoro, da Convenzioni internazionali: OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), in particolare le convenzioni n. 29 (lavoro forzato), n. 87 (libertà sindacale), n. 98 (diritto di organizzazione e contrattazione collettiva) e dalla normativa UE: Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (articolo 31), Direttiva 2019/1152 (condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili). Le suddette violazioni non costituiscono episodi isolati, ma sono considerate sistemiche e tollerate all'interno della filiera. La presenza di dipendenti Armani nei laboratori per controlli qualità, senza verifiche sulle condizioni di lavoro, evidenzia una responsabilità omissiva e una colpa organizzativa. La discrepanza tra le dichiarazioni etiche e la realtà operativa configura una violazione dell' articolo 21 del Codice del Consumo , che vieta le pratiche ingannevoli relative alle caratteristiche del prodotto, inclusa la modalità di produzione. L'AGCM ha correttamente rilevato che la mancanza di controlli effettivi e la consapevolezza interna del rischio rendono le dichiarazioni non solo false, ma anche strumentali alla costruzione di un'immagine aziendale non corrispondente alla realtà . Armani ha sostenuto di aver adottato un sistema di controllo conforme alle migliori pratiche del settore, richiamando il parere pro veritate del prof. Enriques relativo l'indagine BVA Doxa. Tuttavia, l'AGCM ha rilevato che il sistema era inefficace, non strutturato, e incapace di garantire la conformità dei subfornitori agli standard etici dichiarati. La diligenza professionale, ai sensi dell' articolo 20 del Codice del Consumo , non può essere valutata solo sulla base di modelli teorici, ma deve essere verificata nella concretezza dell'attuazione. La giurisprudenza europea ha chiarito che una pratica ingannevole è illecita anche indipendentemente dalla diligenza professionale, se idonea a falsare il comportamento del consumatore. Il caso Armani dimostra come un sistema di controllo formalmente esistente possa risultare inefficace e inadeguato, soprattutto in presenza di una filiera produttiva ampia e complessa. Armani ha sostenuto che le dichiarazioni etiche non influenzano le scelte dei consumatori, sempre sulla base dell'indagine BVA Doxa sopra menzionata. L'AGCM ha respinto tale argomento, evidenziando che anche una minoranza significativa di consumatori può essere influenzata, e che la potenzialità lesiva della pratica è sufficiente per configurare l'ingannevolezza . La nozione di “ consumatore medio ” non è statistica, ma giuridica: si riferisce a un soggetto normalmente informato e ragionevolmente attento. La valutazione ex ante della potenzialità lesiva è sufficiente per integrare l'illecito. Inoltre, le dichiarazioni etiche sono state intensamente diffuse e presentate come parte integrante dell'identità del brand, rendendole idonee a orientare le scelte di consumo, anche se non in modo esclusivo. Nel caso Armani, il Tribunale di Milano ha disposto l'amministrazione giudiziaria ai sensi dell' articolo 34 del D.lgs. 159/2011 , riconoscendo una cultura d'impresa favorevole alla devianza, con una struttura formale (codici etici, audit) affiancata da una struttura informale volta alla massimizzazione del profitto. Secondo l'articolo 603-bis c.p. (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), il committente può essere ritenuto responsabile se: trae vantaggio economico dallo sfruttamento; omette controlli sulla filiera; instaura rapporti con soggetti notoriamente irregolari. La responsabilità del committente, quindi, non può essere elusa invocando la complessità della filiera. L'impresa ha l'obbligo di mappare, monitorare e intervenire; conseguentemente la mancata attuazione di audit efficaci e la tolleranza verso subfornitori irregolari configurano una violazione del dovere di diligenza professionale. La quantificazione della sanzione inflitta ad Armani è coerente con i criteri dell' articolo 11 della L. 689/1981 : la riduzione per le misure correttive adottate ex post è giustificata, ma non esclude la responsabilità per la condotta pregressa. Il provvedimento rappresenta un precedente importante per la regolazione delle comunicazioni etiche e sociali nel settore moda e lusso, e riafferma il principio secondo cui la coerenza tra dichiarazioni e realtà operativa è un dovere giuridico, non solo reputazionale. La tutela dei lavoratori deve essere parte integrante della governance aziendale e le imprese devono essere incentivate (e obbligate) a costruire filiere etiche, sostenibili e legali, pena la perdita di reputazione e l'irrogazione di sanzioni. Per quanto riguarda la vicenda Dior, la risposta giuridica dell'AGCM non si è tradotta in una sanzione, bensì in un accordo basato su impegni vincolanti, accettati e formalizzati da Dior. Questi impegni rappresentano un modello avanzato di compliance preventiva e sono stati ritenuti idonei a rimuovere i profili di scorrettezza contestati. In primo luogo, Dior ha proceduto alla revisione delle proprie comunicazioni pubblicitarie e delle sezioni del sito web dedicate alla sostenibilità, assicurando che ogni dichiarazione fosse supportata da dati verificabili e coerenti con la realtà operativa. In secondo luogo, è stato rafforzato il sistema di controllo interno sulla filiera, con l'introduzione di audit più frequenti e approfonditi, la creazione di un reparto dedicato alla supervisione etica e l'aggiornamento del Codice di Condotta dei Fornitori, che ora include obblighi più stringenti in materia di diritti dei lavoratori. Un elemento innovativo è l'istituzione di una funzione aziendale autonoma incaricata di monitorare la conformità etica e normativa della filiera italiana, con l'obbligo di redigere relazioni annuali da inviare all'AGCM fino al 2030. Questo meccanismo di reporting continuo garantisce trasparenza e responsabilità nel tempo. Inoltre, Dior ha stanziato 2 milioni di euro in cinque anni per finanziare progetti a favore delle vittime di sfruttamento lavorativo, con iniziative di protezione, formazione e inclusione sociale, aperte anche ad altri brand del settore moda. A completamento del piano, sono stati previsti programmi di formazione periodica per dipendenti e fornitori, volti a promuovere la consapevolezza sui diritti dei lavoratori e sulla responsabilità sociale d'impresa. Osservazioni Il caso Armani rappresenta un punto di svolta nel dibattito sulla responsabilità sociale d'impresa, evidenziando con forza la necessità di un ripensamento profondo delle dinamiche che regolano le filiere produttive globali. La vicenda mostra come le dichiarazioni ambientali e sociali, se non supportate da dati verificabili e da comportamenti coerenti, possano trasformarsi in strumenti di marketing ingannevole, con gravi ripercussioni non solo per i consumatori ma anche per i lavoratori coinvolti nei processi produttivi. In questo contesto, diventa urgente rafforzare i controlli pubblici lungo tutta la filiera, non limitandosi alla fase finale del prodotto ma estendendo la vigilanza alle condizioni di lavoro, ai diritti fondamentali e alla legalità dei processi produttivi, anche nei Paesi terzi. La Direttiva UE 2024/1760, che introduce obblighi di due diligence sui diritti umani e sull'ambiente, rappresenta un passo importante verso una responsabilizzazione effettiva delle imprese , ma la sua attuazione dovrà essere rigorosa e accompagnata da strumenti sanzionatori efficaci . Le imprese che tollerano lo sfruttamento, anche indirettamente, devono essere soggette a sanzioni proporzionate e dissuasive, che non si limitino a sanzioni simboliche ma incidano concretamente sulla loro operatività e reputazione. La trasparenza contrattuale e la tracciabilità della produzione devono diventare requisiti obbligatori , non solo per garantire la correttezza delle informazioni fornite al consumatore, ma anche per permettere un controllo effettivo da parte delle autorità e della società civile. In questo quadro, la tutela dei lavoratori non può essere considerata un elemento esterno alla governance aziendale, ma deve essere integrata nei processi decisionali, nei codici etici e nei sistemi di controllo interno. Le imprese devono essere incentivate, ma anche obbligate, a costruire filiere etiche, sostenibili e legali, pena la perdita di reputazione, l'esclusione da mercati regolamentati e l'irrogazione di sanzioni. Solo in questo modo sarà possibile costruire un'economia che coniughi competitività e giustizia sociale, innovazione e rispetto dei diritti, crescita e sostenibilità. Da un punto di vista giuridico e strategico, il caso Dior rappresenta un esempio virtuoso di gestione del rischio reputazionale e normativo. L'AGCM ha adottato un approccio collaborativo, valorizzando la capacità dell'impresa di correggere le proprie pratiche e di rafforzare la governance etica. Questo modello dimostra che la conformità non è solo un obbligo difensivo, ma può diventare una leva di reputazione, fiducia e competitività. Le dichiarazioni etiche, per essere legittime, devono essere supportate da azioni concrete e verificabili. La responsabilità del brand si estende lungo tutta la filiera, anche in presenza di subfornitori indiretti, e non può essere elusa invocando la complessità dei processi produttivi. In sintesi, il caso Dior rafforza il principio secondo cui la coerenza tra comunicazione e realtà operativa è un dovere giuridico, non solo reputazionale, e che la tutela dei lavoratori deve essere parte integrante della governance aziendale . Fonte: IUS/Lavoro