Smart Contract: il patto invisibile del mondo digitale

Il contributo si propone di analizzare la natura giuridica degli smart contract , la loro compatibilità con l’ordinamento italiano ed europeo e le tensioni etiche e sistemiche che ne derivano. Attraverso un approccio interdisciplinare si offre una riflessione critica sul ruolo del diritto nella regolazione di un “patto invisibile” che, pur essendo scritto in linguaggio computazionale, produce effetti giuridici tangibili, irrevocabili e potenzialmente opachi. In tale prospettiva, lo smart contract non è solo uno strumento, ma un sintomo della trasformazione del diritto da sistema di norme a sistema di istruzioni.

Nel panorama giuridico contemporaneo, gli smart contract si configurano come dispositivi normativi algoritmici che, pur operando al margine della visibilità semantica, incidono profondamente sulla struttura del consenso e sull’esecuzione delle obbligazioni . Sebbene oggi siano parzialmente eclissati dalla crescente egemonia dell’intelligenza artificiale, essi continuano a rappresentare un laboratorio concettuale privilegiato per interrogare il diritto nella sua capacità di adattarsi all’automazione, alla decentralizzazione e alla programmabilità del comportamento umano. Definiti come programmi autoeseguibili basati su tecnologie di registro distribuito, gli smart contract sfidano le categorie classiche del diritto contrattuale, ridefinendo la nozione di volontà negoziale, la struttura della responsabilità e il perimetro della tutela del contraente debole. Nel cuore della rivoluzione digitale, lo smart contract si impone come figura paradigmatica, capace di ridefinire le coordinate fondamentali del diritto contrattuale. Non si tratta di una mera evoluzione del contratto elettronico né di una semplice automatizzazione di processi negoziali ma di un patto algoritmico , redatto in linguaggio informatico, eseguito da una rete decentralizzata e vincolante per le parti in modo automatico, irrevocabile e, talvolta, opaco. La sua natura computazionale lo colloca al confine tra diritto e tecnologia , tra volontà e codice, tra interpretazione ed esecuzione automatica. In un contesto in cui la governance algoritmica si espande progressivamente, il dibattito giuridico si è concentrato soprattutto sull’intelligenza artificiale, oggi protagonista nella gestione dei dati, nella profilazione dei soggetti e persino nella redazione automatica di clausole contrattuali. Ciò ha relegato gli smart contract a una posizione apparentemente marginale. Eppure, essi continuano a rappresentare un’infrastruttura invisibile ma essenziale dell’ecosistema digitale, soprattutto in settori ad alta intensità tecnologica come la finanza decentralizzata, la tracciabilità delle filiere e l’autenticazione dei beni immateriali. La normativa nazionale definisce lo smart contract un programma informatico operante su tecnologie basate su registri distribuiti e ne attribuisce la memorizzazione agli effetti della validazione temporale elettronica.  Tale formulazione, pur essenziale, solleva interrogativi di fondo : può un codice informatico sostituire la volontà negoziale? Quale ruolo conserva l’autonomia privata in un contesto in cui la forma contrattuale è tradotta in istruzioni eseguibili? Quali tutele sono garantite al contraente debole, spesso ignaro della logica algoritmica che regola il proprio vincolo? La questione non è meramente tecnica, ma sistemica. Lo smart contract interroga il diritto nella sua capacità di adattarsi a una realtà decentralizzata, automatizzata e programmabile. Esso mette in discussione la centralità dell’interprete, la flessibilità dell’intenzione e la reversibilità dell’accordo. Il contratto non è più soltanto un testo da leggere, ma un codice da eseguire; non più soltanto una narrazione giuridica, ma un’architettura logica che produce effetti in tempo reale. Il quadro normativo italiano ed europeo Il riconoscimento giuridico degli smart contract si è sviluppato in parallelo tra ordinamento europeo e nazionale. A livello europeo , il Regolamento eIDAS del 2014 ha posto le basi per attribuire certezza alle transazioni digitali, garantendo autenticità e validità temporale dei dati mentre la proposta di revisione, nota come eIDAS 2.0 , introduce il Portafoglio europeo di identità digitale e rafforza l’interoperabilità dei sistemi di identificazione, condizione essenziale per l’utilizzo transfrontaliero degli smart contract . A ciò si aggiungono normative settoriali di rilievo: il Regolamento MiCA del 2023 , che disciplina i mercati delle cripto-attività e impone obblighi di trasparenza e governance; il Regolamento DORA del 2022 , volto a garantire la resilienza digitale degli operatori finanziari; la Direttiva AMLD5 , insieme al pacchetto antiriciclaggio del 2021, che estendono gli obblighi di tracciabilità anche ai prestatori di servizi basati su blockchain, il Cyber Resilience Act del 2024 e la Direttiva NIS2 del 2022 che inseriscono requisiti di sicurezza by design e obblighi di gestione del rischio per soluzioni e infrastrutture ICT o ancora; il Regolamento pilota sulle infrastrutture di mercato basate su DLT del 2022 che instaura una sandbox normativa per testare scambi e post-trading su registri distribuiti. il Data Act del 2023 , al cui interno  riconosce il ruolo degli smart contract e e ne disciplina i requisiti essenziali, con particolare riferimento alla loro applicazione nell’esecuzione degli accordi di condivisione dei dati. In sostanza, mentre l’Unione europea ha progressivamente costruito un quadro regolatorio organico e settoriale, l’ Italia ha recepito tali impulsi con interventi mirati, passando da un’applicazione interpretativa delle norme generali a una disciplina positiva che riconosce agli smart contract un ruolo giuridico autonomo, ma ancora in evoluzione. Difatti, fino al 2018, la rilevanza degli smart contract era ricostruita applicando le norme generali sui contratti e la disciplina del documento informatico contenuta nel Codice dell’Amministrazione Digitale , in coordinamento con il Regolamento eIDAS. La svolta è giunta con l’articolo 8- ter d.l. 14 dicembre 2018, n. 135 (“ Decreto Semplificazioni” ), convertito con modificazioni dalla l. 11 febbraio 2019, n. 12, che ha introdotto una definizione legislativa di smart contract , riconoscendone la validità laddove sia accompagnata da adeguata identificazione informatica delle parti e attribuendo alla registrazione su blockchain gli effetti della validazione temporale elettronica. Successivamente, l’ AgID ha emanato linee guida in materia di sicurezza e, con il provvedimento del 2023 sulle garanzie fideiussorie digitali, ha previsto l’uso dello smart contract subordinato a requisiti di identificazione elettronica rafforzata. Parallelamente, il recepimento del Regolamento europeo sul DLT Pilot Regime tramite il cosiddetto Decreto Fintech ha introdotto un quadro sperimentale per le infrastrutture di mercato basate su registri distribuiti, in cui lo smart contract viene considerato una componente operativa soggetta a requisiti di affidabilità, trasparenza e sicurezza. La natura giuridica dello smart contract La progressiva smaterializzazione delle relazioni giuridiche e l’automazione delle prestazioni pongono interrogativi sulla centralità della volontà negoziale e sulla capacità del linguaggio informatico di sostituire o integrare quello giuridico tradizionale. Lo smart contract irrimediabilmente legato al concetto di blockchain, si configura come sintesi tra linguaggio giuridico e codice informatico e la riflessione sulla sua natura giuridica si colloca in un dibattito più ampio sulla trasformazione del concetto stesso di contratto nell’ecosistema digitale. Le posizioni dottrinali si articolano lungo tre direttrici. Una prima, restrittiva, considera lo smart contract un mero strumento tecnico di esecuzione di obbligazioni assunte altrove, privo di autonoma rilevanza negoziale. Una seconda, estensiva, gli riconosce invece funzione negoziale diretta, ritenendo che il codice possa rappresentare, in tutto o in parte, la volontà delle parti, integrando formazione ed esecuzione del contratto. Una terza impostazione, intermedia, lo qualifica come “contratto rafforzato”, frutto della combinazione tra elementi tradizionali e potenzialità della blockchain , capace di potenziare certezza, efficienza e opponibilità. In Italia, il dibattito si innesta sul riconoscimento legislativo contenuto nell’articolo 8- ter recepito nel Decreto Semplificazioni, che definisce lo smart contract come un programma informatico basato su registri distribuiti e ne attribuisce alla memorizzazione gli effetti della validazione temporale elettronica. La norma, tuttavia, non chiarisce se il codice che costituisce lo smart contract possa istituire di per sé un contratto in senso civilistico, lasciando a prassi e giurisprudenza il compito di verificare, caso per caso, la sussistenza degli elementi essenziali di cui all’articolo 1325 c.c. e il grado di integrazione tra componente tecnologica e volontà negoziale. La difficoltà interpretativa deriva dalla natura bifronte dello smart contract : da un lato atto di autonomia privata idoneo a produrre effetti giuridici, dall’altro artefatto informatico funzionale all’esecuzione di un accordo esterno. Ciò solleva interrogativi sulla traducibilità della volontà in linguaggio computazionale, che richiede istruzioni precise e deterministiche, con il rischio di cristallizzare l’accordo in sequenze non adattabili a circostanze sopravvenute. Nei modelli ibridi, in cui coesistono testo giuridico e codice, resta inoltre aperta la questione della gerarchia tra le due componenti in caso di divergenza. In definitiva, la natura giuridica dello smart contract si colloca in un equilibrio delicato tra forma tecnica e sostanza negoziale, tra automazione e autonomia privata . Esso si presenta come istituto giuridico-tecnologico in continua evoluzione, la cui qualificazione richiede un’analisi integrata delle componenti informatiche e negoziali, imponendo al giurista di ripensare le categorie tradizionali alla luce delle nuove logiche operative proprie dell’ecosistema digitale. Applicazioni pratiche degli smart contract Gli smart contract , pur sollevando questioni teoriche complesse in ordine alla loro qualificazione giuridica, non possono essere confinati a un concetto astratto. La loro natura ibrida, a metà tra codice eseguibile e accordo negoziale, consente infatti di tradurre obbligazioni e diritti in istruzioni automatiche, destinate a eseguirsi senza intervento umano. Tale caratteristica ne fa strumenti versatili, già oggi impiegati in ambiti che spaziano dalla finanza decentralizzata alla tracciabilità delle filiere produttive. La finanza decentralizzata (“ DeFi ”) rappresenta il contesto in cui l’uso dello smart contract ha raggiunto la maggiore maturità. In questo ecosistema, l’infrastruttura contrattuale non è affidata a intermediari tradizionali, ma a protocolli distribuiti che operano su blockchain pubbliche e sono governati da codici autoeseguibili. Gli smart contract sostituiscono funzioni tipiche del sistema finanziario classico: dall’esecuzione automatica di scambi alla gestione di prestiti algoritmici, fino all’emissione di asset digitali. Essi costituiscono, dunque, l’infrastruttura logica che rende possibile l’esistenza stessa dei servizi DeFi, garantendo l’applicazione deterministica e trasparente delle condizioni pattuite. Tale modello, tuttavia, non è esente da criticità. L’immutabilità del codice espone a rischi operativi quali: errori di programmazione o vulnerabilità che possono essere sfruttati con conseguenze economiche gravi e difficilmente reversibili. L’assenza di un intermediario identificabile genera inoltre un vuoto di responsabilità, rendendo complessa l’individuazione di un soggetto tenuto a rispondere in caso di malfunzionamenti o di dati manipolati. Ulteriori rischi derivano dall’interconnessione di più protocolli che possono amplificare gli effetti di un singolo errore, e dall’affidamento a database (“ oracles ”) esterni, la cui inattendibilità può compromettere l’esecuzione delle prestazioni. A ciò si aggiunge il ruolo sistemico delle stablecoin, la cui instabilità può incidere sull’intero ecosistema e la vulnerabilità dei bridge inter-chain, strumenti di interoperabilità spesso oggetto di attacchi informatici. Al di fuori dell’ambito finanziario, gli smart contract trovano applicazione nella logistica e nelle filiere produttive , dove consentono di registrare in modo immutabile i passaggi di un bene, integrandosi con tecnologie di tracciamento (es. RFID, QR code, IoT). Essi possono automatizzare pagamenti o penali al verificarsi di condizioni predeterminate, rafforzando la certezza probatoria della sequenza degli eventi. Anche qui, tuttavia, la qualità dei dati immessi è decisiva, difatti, informazioni inesatte o manipolate possono generare esecuzioni indebite, con ricadute in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Ulteriori questioni riguardano il valore probatorio delle registrazioni distribuite , da inquadrare tra documento informatico e riproduzioni meccaniche, nonché la governance del codice, ossia individuare chi sia legittimato a modificarlo e con quali procedure, bilanciando l’esigenza di immutabilità con quella di prevenire esecuzioni aberranti. Si pongono inoltre problemi di interoperabilità tecnica e giuridica, che richiedono standard comuni e una catena di custodia affidabile, pena il rischio di rigidità infrastrutturale e di concentrazione di potere con possibili implicazioni antitrust. Un ulteriore ambito di sviluppo è quello della proprietà intellettuale , dove gli smart contract possono gestire automaticamente licenze e royalty, come avviene nel mercato degli NFT, garantendo all’autore una percentuale sulle rivendite successive. Nel settore energetico, infine, essi potrebbero consentire lo scambio diretto di energia tra produttori e consumatori, con pagamenti in tempo reale basati sui consumi effettivi registrati dai contatori. In conclusione, gli smart contract si presentano come strumenti già operativi in contesti complessi, seppur caratterizzati da un livello di maturità disomogeneo a seconda dei settori di applicazione. La loro capacità di automatizzare l’esecuzione delle obbligazioni e di assicurare tracciabilità e trasparenza si accompagna, tuttavia, a rilevanti rischi tecnici e giuridici. Tali criticità impongono un approccio regolatorio e contrattuale mirato , che vada dalla definizione di regole chiare in materia di responsabilità e governance del codice, alla predisposizione di meccanismi di gestione delle anomalie e di mitigazione delle vulnerabilità, fino al coordinamento con le discipline settoriali e con la normativa in materia di protezione dei dati personali. Solo un quadro giuridico armonizzato, capace di coniugare innovazione, certezza del diritto e tutela delle parti, potrà consentire di valorizzare appieno le potenzialità degli smart contract , accompagnando il passaggio dalle sperimentazioni all’adozione su larga scala. Profili etici e sistemici dello smart contract: tra automazione e giustizia relazionale Lo smart contract , nella sua duplice veste di codice autoeseguibile e atto negoziale, si colloca in una zona di confine tra diritto e tecnologia , assumendo configurazioni diverse a seconda del contesto applicativo e del quadro normativo di riferimento. Tale natura ibrida impone di interrogarsi sulle implicazioni etiche e sistemiche dell’automazione contrattuale. La programmabilità delle obbligazioni, pur garantendo efficienza, tracciabilità e riduzione dei costi, rischia di irrigidire il rapporto negoziale , sottraendolo alla capacità di adattamento a circostanze sopravvenute. Ne deriva una possibile frizione con principi fondamentali dell’ordinamento, quali buona fede, equità e tutela del contraente debole. In assenza di margini di intervento umano la probabilità che eventi imprevedibili possono produrre effetti sproporzionati, difficilmente emendabili senza compromettere l’integrità tecnica del codice aumenta. Ulteriori criticità emergono sul piano dell’ asimmetria informativa , difatti, il contraente privo di competenze tecniche può non comprendere appieno la logica algoritmica del contratto che sta concludendo, rimanendo vincolato a clausole autoeseguibili non realmente negoziate. La trasparenza formale del codice non coincide, dunque, con la comprensibilità sostanziale, mentre la responsabilità per eventuali effetti pregiudizievoli tende a disperdersi tra sviluppatori, piattaforme e utenti, senza un referente giuridico univoco. La dipendenza da oracles introduce, inoltre, vulnerabilità etiche e giuridiche. L’esecuzione automatica basata su dati inesatti o manipolati può alterare l’equilibrio contrattuale, sollevando questioni di ripartizione del rischio e di conformità al GDPR o in merito all’amministrazione del codice, traducendosi in domande a cui nessuno sa dare una risposta precisa (ad esempio: chi può modificarlo? Con quali procedure e in quali tempi?). In questa prospettiva, lo smart contract non può essere considerato uno strumento neutro, ma un artefatto normativo-tecnologico che ridefinisce il rapporto tra volontà, esecuzione e controllo . La sfida etica consiste nel garantire che l’automazione non eroda la capacità del diritto di adattarsi al caso concreto e di proteggere i soggetti vulnerabili. Ciò richiede un approccio regolatorio che integri innovazione e tutela, prevedendo meccanismi di revisione, sospensione e intervento umano, così da preservare la giustizia relazionale anche in un contesto governato dal codice. L’adozione massiva di smart contract in settori strategici solleva, inoltre, questioni sistemiche: dalla concentrazione del potere di scrittura e modifica del codice in pochi soggetti, con possibili implicazioni concorrenziali e di governance, fino alla creazione di infrastrutture contrattuali difficilmente reversibili, anche quando l’interesse pubblico lo richiederebbe. Si pone così il problema di conciliare l’immutabilità tecnica , tratto distintivo della blockchain, con l’esigenza di reversibilità giuridica , necessaria per correggere errori, prevenire abusi e adeguare il vincolo a circostanze sopravvenute, senza considerare che la responsabilità diffusa tipica dei modelli decentralizzati (la quale coinvolge sviluppatori, manutentori, fornitori di oracles e piattaforme) rende complessa l’individuazione di un referente unico per eventuali danni, aggravando le difficoltà in caso di effetti transfrontalieri e richiedendo un coordinamento normativo internazionale ancora frammentario.