Scenario della vicenda è il Ministero della Salute. Il lavoratore ha chiesto, inutilmente, ben 75mila euro, catalogando come calunniosa la querela nei suoi confronti, querela che, a suo dire, lo ha sottoposto a quattro anni di patimento per il gravoso processo penale cui era stato sottoposto, con lesione gravissima della sua reputazione, sia professionale che personale. Per i magistrati di Cassazione, invece, la condotta tenuta dalla pubblica amministrazione è stata assolutamente corretta.
Scenario della vicenda è il Ministero della Salute. Ad agire è un dipendente (e rappresentante sindacale) che cita in giudizio il Ministero ritenendolo colpevole di una sorta di persecuzione nei suoi confronti, concretizzatasi in una querela, e chiedendo perciò un adeguato ristoro economico, ossia 75mila euro. Per il lavoratore è logico catalogare la querela come una vera e propria calunnia . Ciò perché la pubblica amministrazione lo aveva denunciato per un presunto utilizzo anomalo del badge ma la denuncia ha portato ad un procedimento conclusosi con un’ assoluzione . A sostegno della richiesta di risarcimento, poi, il lavoratore sostiene che l’operato del Ministero gli ha causato «quattro anni di patimento per il gravoso processo penale cui era stato sottoposto, con lesione gravissima della sua reputazione, sia professionale che personale». Per i giudici del Tribunale, però, l’istanza risarcitoria è priva di fondamento, anche perché, in generale, «la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio non è fonte di responsabilità a carico del denunciante , a meno che non integri il reato di calunnia, poiché, al di fuori di tale ipotesi, l’esercizio dell’azione penale, da parte del pubblico ministero, si sovrappone all’iniziativa del denunciante interrompendo il nesso causale tra la condotta e il danno asseritamente subito dal denunciato, anche nel caso di proscioglimento o assoluzione». Peraltro, nella vicenda in esame si è appurato che «il lavoratore non ha sporto alcuna denuncia per il reato di calunnia » mentre «il quadro probatorio emerso nel processo penale è nelle more mutato rispetto alle risultanze dell’indagine amministrativa», precisano i giudici del Tribunale. Sulla stessa lunghezza d’onda, poi, anche i giudici d’appello, i quali ritengono lampante «l’intrinseca liceità della condotta datoriale». Anche perché «la denuncia» presentata «dall’amministrazione datrice di lavoro non è stata archiviata, ma, al contrario, ha determinato il rinvio a giudizio del lavoratore , imputato di specifici reati», e ciò «esclude una responsabilità dell’amministrazione foriera di danno risarcibile». In particolare, «l’esercizio dell’azione penale consente di dedurre che nella denuncia fossero ravvisabili fatti costituenti reato, con esclusione, quindi, di qualsiasi intrinseca infondatezza della denuncia stessa, escludendo in radice una responsabilità dell’amministrazione. Inoltre, l’esercizio dell’azione penale ha interrotto il nesso eziologico tra la condotta della amministrazione denunciante e il danno eventualmente risarcibile» al lavoratore. Per chiudere il ragionamento, poi, i giudici d’appello aggiungono che «l’obbligo di denuncia sussiste anche in presenza di un mero fumus di reato », come in questa vicenda, e sottolineano che, comunque, «nei fatti denunciati dall’amministrazione erano apprezzabili gli estremi di reato, tant’è che il dipendente era stato rinviato a giudizio» e «l’esito dei processi penali non ha sconfessato questa premessa» poiché «detti processi si sono conclusi con pronunce, per un verso, in rito e, per altro, in merito sull’assunto che il quadro probatorio emerso nel loro ambito era mutato, rispetto alle risultanze dell’indagine amministrativa, per la sopravvenuta ritrattazione da parte di un teste». Inutile il ricorso in Cassazione proposto dal lavoratore, il quale vede respinta definitivamente la richiesta di risarcimento da lui avanzata nei confronti del Ministero della Salute. In premessa, i magistrati di terzo grado ribadiscono un dato fondamentale: «la denuncia dell’amministrazione datrice di lavoro non è stata archiviata, ma, al contrario, ha determinato comunque il rinvio a giudizio del dipendente ». Secondo la difesa, però, «anche il rischio di indagine può integrare il reato di calunnia, che è reato di pericolo», e, comunque, nella vicenda in esame, non vi erano i presupposti per imporre al Ministero «l’obbligo di segnalazione» connesso a quanto previsto dal Codice Penale in caso di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale. Per meglio inquadrare la questione, comunque, i magistrati di Cassazione richiamano alcuni importanti principi. Innanzitutto, «il soggetto che invoca il risarcimento del danno, per avere subìto una denuncia calunniosa, ha l’ onere di provare la sussistenza di una condotta integrante il reato di calunnia , dal punto di vista sia oggettivo sia soggettivo, poiché la presentazione della denuncia di un reato costituisce adempimento del dovere, rispondente ad un interesse pubblico, di segnalare fatti illeciti, che rischierebbe di essere frustrato dalla possibilità di andare incontro a responsabilità in caso di denunce semplicemente inesatte o rivelatesi infondate». Di conseguenza, «la denuncia o la proposizione di una querela per un reato perseguibile d’ufficio possono costituire fonte di responsabilità civile a carico del denunciante o del querelante, in caso di successivo proscioglimento o assoluzione del denunciato (o querelato), solo ove contengano gli elementi costitutivi (oggettivo e soggettivo) del reato di calunnia, poiché, al di fuori di tale ipotesi, l’attività del pubblico ministero titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante-querelante, interrompendo ogni nesso causale tra denuncia calunniosa e danno eventualmente subito dal denunciato (o querelato)». Ciò detto, viene precisato che «ai fini della configurabilità del reato di calunnia non è necessario l’inizio di un procedimento penale a carico del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile . Cosicché, soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare – perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso – la concreta ipotizzabilità del reato denunciato» è presumibile «l’elemento materiale del delitto di calunnia». Applicando questa ottica alla vicenda in esame, i magistrati di Cassazione sottolineano che «nei fatti denunciati dall’amministrazione erano apprezzabili gli estremi di reato» e «l’esito assolutorio dei processi penali non può sconfessare questa premessa, anche in considerazione che essi si sono conclusi con pronunce in limine litis (in un caso in rito per non doversi procedere per difetto di querela e nell’altro caso perché il fatto non sussiste poiché non si ravvisa un atto pubblico nelle attestazioni da parte del pubblico dipendente e della sua presenza in ufficio) e sull’assunto che il quadro probatorio emerso nel loro ambito era mutato rispetto alle risultanze dell’indagine amministrativa per ritrattazione da parte di un teste ». Tirando le somme, anche per i magistrati di Cassazione va esclusa «la manifesta infondatezza della denuncia » presentata dal Ministero della Salute nei confronti del lavoratore, con «conseguente sua irrilevanza penale ai fini dell’integrazione del reato di calunnia. Escluso un comportamento calunnioso dell’amministrazione, nonostante il giudizio penale si sia concluso con la finale formula assolutoria» in favore del lavoratore.
Presidente Marotta – Relatore Garri Fatti di causa 1. P.D., dipendente del Ministero della Salute con inquadramento nel livello F1 e responsabile del sindacato FPL - Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche, agiva in giudizio esponendo che, a causa del suo impegno sindacale, era stato destinatario di vari comportamenti illeciti datoriali (tra cui una querela ingiustificata, configurante, nella prospettazione attorea, il reato di calunnia ai suoi danni: l'Amm.ne aveva denunciato il P.D. ed altro dipendente per l'utilizzo anomalo del badge, denuncia conclusasi con l'assoluzione del P.D.) che gli avevano causato quattro anni di patimento per il gravoso processo penale cui era stato sottoposto, con lesione gravissima della sua reputazione, professionale e personale. Chiedeva, pertanto, la condanna del datore di lavoro a pagargli € 75.000,00 a titolo di risarcimento del danno. 2. Il Tribunale di Roma rigettava la domanda, ritenendo che la denuncia di un reato perseguibile d'ufficio non è fonte di responsabilità a carico del denunciante ai sensi dell' articolo 2043 c.c. , a meno che non integri il reato di calunnia perché, al di fuori di tale ipotesi, l'esercizio dell'azione penale si sovrappone all'iniziativa del denunciante interrompendo il nesso causale tra la condotta e il danno asseritamente subito, anche nel caso di proscioglimento o assoluzione del denunciato. Rilevava, altresì, che il P.D. non aveva sporto alcuna denuncia per il reato di calunnia e che il quadro probatorio emerso nel processo penale era nelle more mutato rispetto alle risultanze dell'indagine amministrativa. Aggiungeva che il danno era stato, comunque, genericamente allegato e sprovvisto di supporto probatorio. 3. La Corte d'appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale. Al riguardo, rilevava che l'appellante si era limitato a ripetere le difese prospettate nel ricorso introduttivo che, a suo dire, avrebbero consentito di configurare il reato di calunnia, ma non aveva impugnato la ratio decidendi del Tribunale secondo cui “sono irrilevanti nel presente giudizio le deduzioni attoree volte a dimostrare il perfezionamento, nella fattispecie controversa, del requisito soggettivo e del requisito oggettivo ex articolo 368 c.p. ... in quanto in alcun modo accertati dall'Autorità Giudiziaria penale, unica competente in materia ... . Il giudice di primo grado aveva, infatti, respinto la domanda risarcitoria sulla base di due distinte ed autonome rationes decidendi; in primo luogo, il Tribunale aveva ritenuto la irrilevanza delle deduzioni attoree volte a dimostrare la sussistenza dei presupposti del reato di calunnia in quanto in alcun modo accertati dall'Autorità Giudiziaria penale, unica competente in materia, in secondo luogo aveva affermato l'intrinseca liceità della condotta datoriale. Conseguentemente, l'omessa devoluzione della prima ratio aveva comportato ad avviso della Corte distrettuale la formazione del giudicato interno, precludendo ogni pronuncia in merito alla sussistenza del reato di calunnia, con conseguente rigetto della domanda risarcitoria ad esso connessa. La Corte territoriale aggiungeva che la denuncia dell'amministrazione datrice di lavoro non era stata archiviata, ma, al contrario, aveva determinato il rinvio a giudizio del P.D., imputato di specifici reati, il che escludeva una responsabilità dell'amministrazione foriera di danno risarcibile. In particolare, l'esercizio dell'azione penale consentiva di dedurre che nella denuncia fossero ravvisabili fatti costituenti reato con esclusione, quindi, di qualsiasi intrinseca infondatezza della stessa, escludendo in radice una responsabilità dell'amministrazione; inoltre, l'esercizio dell'azione penale aveva interrotto il nesso eziologico tra la condotta della amministrazione denunciante e il danno eventualmente risarcibile. Su tale punto la Corte territoriale osservava come il gravame non avesse censurato tale statuizione, con conseguente irretrattabilità della questione relativa alla insussistenza del nesso causale. Riteneva che le pretese del P.D. non trovassero sostegno neppure nella sentenza della Suprema Corte n. 37756/2014, invocata dall'appellante al fine di escludere la configurabilità dell'obbligo del datore di lavoro ex articolo 361 c.p. di denunciare le vicende oggetto di causa, evidenziando che l'obbligo di denuncia sussiste anche in presenza di un mero fumus di reato, come nel caso di specie. Sul punto la Corte osservava che il Tribunale aveva rilevato che nei fatti denunciati dall'amministrazione erano apprezzabili gli estremi di reato, tant'è che il P.D. e il coimputato Z. erano stati rinviati a giudizio ed aveva negato che l'esito dei processi penali avesse sconfessato questa premessa, sull'assunto che detti processi si erano conclusi con pronunce, per un verso, in rito e, per altro, in merito sull'assunto che il quadro probatorio emerso nel loro ambito era mutato rispetto alle risultanze dell'indagine amministrativa per la sopravvenuta ritrattazione da parte di un teste. 4. Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione il P.D. con due motivi. Il Ministero salute ha depositato mero atto di costituzione ai soli fini della eventuale partecipazione all'udienza di discussione della causa ai sensi dell' articolo 370 c.p.c. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell' articolo 324 c.p.c. , ai sensi dell' articolo 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che vi era stata una omessa devoluzione al grado di appello della prima ratio di cui alla sentenza del Tribunale che aveva ritenuto la irrilevanza delle deduzioni attoree volte a dimostrare la sussistenza dei presupposti del reato di calunnia in quanto in alcun modo accertati dall'Autorità Giudiziaria penale, unica competente in materia. Conseguentemente, l'omessa devoluzione della prima ratio aveva comportato ad avviso della Corte distrettuale la formazione del giudicato interno (rilevabile d'ufficio, v. Cass. n. 2322/2017), precludendo ogni pronuncia in merito alla sussistenza del reato di calunnia, con conseguente rigetto della domanda risarcitoria ad esso connessa. In particolare, il motivo contesta la statuizione relativa al giudicato interno sulla questione afferente alla contestata sussistenza del reato di calunnia rilevando di aver puntualmente contestato e devoluto alla cognizione del giudice di appello deducendo a pag. 12 del gravame che non sussiste “… alcuna riserva di competenza del giudice penale teorizzata erroneamente nella sentenza impugnata…”. Inoltre, evoca la locuzione giurisprudenziale di “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità di giudicato interno” eccependo di aver comunque contestato la sequenza logica di fatto, norma ed effetto giuridico con conseguente riapertura della cognizione sull'intera statuizione. 1.1 Il motivo è inammissibile per due ordini di ragioni. 1.2 Esso innanzitutto si palesa non dotato della necessaria specificità ex articolo 366, comma 1, n. 4) e 6) c.p.c. , in relazione tanto al requisito di indicazione e trascrizione degli atti (sentenza di primo grado, atto di appello) nel rispetto del predetto principio di specificità, quanto al requisito di rilevanza-decisività di tali atti tale che, se debitamente considerati, si verrebbe a determinare con certezza la inversione dell'esito della controversia. 1.3 Inoltre il motivo risulta carente il requisito di decisività nella misura in cui la sentenza impugnata è sorretta da una ulteriore ed autonoma ratio decidendi. Difatti, quella della Corte territoriale contestata nella censura in esame è una delle rationes decidendi essendo stato comunque evidenziato (v. il secondo motivo di ricorso) che il diritto dell'appellante non trovava la sua fonte neppure nel fatto, pure prospettato, che anche una denuncia-querela infondata, quale sarebbe quella dedotta in giudizio, avrebbe potuto provocare danni, patrimoniali e non, al lavoratore per effetto del processo penale ingiustamente subito e della lesione a beni, a copertura costituzionale, quali la dignità, l'onore e il prestigio della persona. Come affermato dalla Corte territoriale, la denuncia dell'amministrazione datrice di lavoro non era stata archiviata, ma, al contrario, ha determinato comunque il rinvio a giudizio del P.D.. Tale ragionamento ulteriore, per le ragioni che si evidenzieranno con riguardo al secondo motivo di ricorso, resta fermo e determina l'inammissibilità della censura (v. tra le tante Cass. n. 5102 del 26/02/2024 secondi cui qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l'intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa). 2. Con il secondo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli articolo 361 e 368 c.p. , ai sensi dell' articolo 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Si contesta alla Corte di Appello di non aver ritenuto che anche il rischio di indagine potesse integrare il reato di calunnia che è reato di pericolo e per aver affermato che sussistessero gli elementi fattuali per configurare l'obbligo di segnalazione ex articolo 361 c.p. 2.1 Il motivo è infondato. Va al riguardo premesso che colui che invochi il risarcimento del danno per avere subìto una denuncia calunniosa, ha l'onere di provare la sussistenza di una condotta integrante il reato di calunnia dal punto di vista sia oggettivo sia soggettivo poiché la presentazione della denuncia di un reato costituisce adempimento del dovere, rispondente ad un interesse pubblico, di segnalare fatti illeciti, che rischierebbe di essere frustrato dalla possibilità di andare incontro a responsabilità in caso di denunce semplicemente inesatte o rivelatesi infondate ( Cass. 30/11/2018, n. 30988 ; Cass. 12/06/2020, n. 11271 ). Di recente è stato riaffermato il predetto principio secondo cui “La denuncia o la proposizione di una querela per un reato perseguibile d'ufficio possono costituire fonte di responsabilità civile a carico del denunciante o del querelante, in caso di successivo proscioglimento o assoluzione del denunciato (o querelato), solo ove contengano gli elementi costitutivi (oggettivo e soggettivo) del reato di calunnia, poiché, al di fuori di tale ipotesi, l'attività del pubblico ministero titolare dell'azione penale si sovrappone all'iniziativa del denunciante-querelante, interrompendo ogni nesso causale tra denuncia calunniosa e danno eventualmente subito dal denunciato (o querelato)” ( Cass. n. 13093 del 13/05/2024 ). Sempre questa Corte ha precisato che ai fini della configurabilità del reato di calunnia non è necessario l'inizio di un procedimento penale a carico del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti per l'esercizio dell'azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile; cosicché soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare - perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso - la concreta ipotizzabilità del reato denunciato, è da ritenere insussistente l'elemento materiale del delitto di calunnia. ( Cass. Pen. Sez. 2, Sentenza n. 14761 del 19/12/2017 ). Orbene, nello specifico, la Corte territoriale ha confermato l'accertamento di merito compiuto dal Tribunale, secondo cui nei fatti denunciati dall'amministrazione erano apprezzabili gli estremi di reato negando che l'esito assolutorio dei processi penali potesse sconfessare questa premessa anche in considerazione che gli stessi si erano conclusi con pronunce in limine litis (in un caso in rito per non doversi procedere per difetto di querela e nell'altro caso perché il fatto non sussiste secondo l'orientamento giurisprudenziale espresso da Cassazione sezioni unite 2006 che non ravvisa un atto pubblico nelle attestazioni da parte del pubblico dipendente e della sua presenza in ufficio) e sull'assunto che il quadro probatorio emerso nel loro ambito era mutato rispetto alle risultanze dell'indagine amministrativa per ritrattazione da parte di un teste. Tale accertamento di merito ha, quindi, escluso la manifesta infondatezza della denuncia con conseguente irrilevanza penale della stessa ai fini dell'integrazione del reato di calunnia. In definitiva, la Corte territoriale con accertamento in fatto, insindacabile in tale sede di legittimità, ha escluso gli estremi di un comportamento calunnioso dell'amministrazione, seppure il giudizio penale si sia concluso con la finale formula assolutoria. Si consideri, del resto, che, come è stato da questa Corte di recente affermato (v. Cass. n. 13093 del 13/05/2024 ), la denuncia o la proposizione di una querela per un reato perseguibile d'ufficio possono costituire fonte di responsabilità civile a carico del denunciante o del querelante, in caso di successivo proscioglimento o assoluzione del denunciato (o querelato), solo ove contengano gli elementi costitutivi (oggettivo e soggettivo) del reato di calunnia, poiché, al di fuori di tale ipotesi, l'attività del pubblico ministero titolare dell'azione penale si sovrappone all'iniziativa del denunciante-querelante, interrompendo ogni nesso causale tra denuncia calunniosa e danno eventualmente subito dal denunciato (o querelato). Infine, è da rilevarsi che le ulteriori argomentazioni articolate nel motivo sono tutte finalizzate ad un riesame del merito come accertato nella sentenza impugnata. In conclusione, il ricorso va respinto. Nulla sulle spese stante la mancata costituzione nei termini dell'amministrazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese. Ai sensi dell 'articolo 13, comma 1 quater del DPR 115/200 2, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.