Non integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale la minaccia dell’alunno all’insegnante

Le espressioni di minaccia rivolte al docente, quando non rivelino alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell'atto d'ufficio, ma rappresentino piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale, non integrano il delitto di cui all’articolo 337 c.p.

Il caso in esame riguarda la condanna emessa a carico dell'imputato in relazione al reato di resistenza a pubblico ufficiale , commesso rivolgendo espressioni minacciose nei confronti dell'insegnante di eduzione fisica durante una lezione. Nello specifico, l'alunno si era rivolto al professore pronunciando la seguente frase: «appena finisce la scuola vengo a trovarti, non è una minaccia ma un avvertimento, per me le regole non valgono, tu mi hai fatto sospendere per 25 giorni». Secondo la difesa, nella condotta dell'imputato non sarebbe ravvisabile il reato di resistenza a pubblico ufficiale, posto che la condotta minatoria non era posta in essere per opporsi al compimento di un atto da parte del pubblico ufficiale, ma la manifestazione di una personale avversione indotta da fatti precedenti . Il ricorso è fondato. Nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale, infatti, il dolo specifico «si concreta nel fine di ostacolare l'attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto , cosicché il comportamento che non risulti tenuto a tale scopo, per quanto eventualmente illecito ad altro titolo, non integra il delitto in questione» ( Cass. n. 36367/2013 ). Ne consegue che «non integrano il delitto di resistenza a pubblico ufficiale le espressioni di minaccia rivolte a quest'ultimo, quando non rivelino alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell'atto d'ufficio, ma rappresentino piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale». Pertanto, il reato di cui all' articolo 337 c.p. non può ritenersi consumato se non in presenza di uno stretto collegamento causale , sorretto dal dolo specifico, tra la violenza e le minacce e il compimento di un atto d'ufficio . Viceversa, non è sufficiente il mero fatto che le minacce siano rivolte ad un pubblico ufficiale in occasione del compimento di un'attività inerente alla sua funzione, in mancanza della volontà e idoneità della condotta ad impedire il regolare svolgimento di un atto d'ufficio. Nel caso in esame, la condotta realizzata dall'imputato è consistita nel pronunciare una frase minacciosa e lesiva dell'onore del pubblico ufficiale mentre questi era intento nello svolgimento della propria funzione; tuttavia, la minaccia era direttamente collegata ad un atto d'ufficio già integralmente esauritosi , individuabile nella pregressa adozione di un provvedimento di sospensione dalla frequenza delle lezioni. Pertanto, il ricorrente «non ha inteso impedire il compimento di un atto d'ufficio, bensì ha assunto una condotta minatoria riferita ad un atto pregresso già compiutamente posto in essere ». In astratto, dunque, la minaccia rivolta all'insegnante potrebbe essere ricondotta al reato di minaccia  ex articolo 612 c.p., ovvero nelle diverse ipotesi di oltraggio a pubblico ufficiale .  Di qui, l'accoglimento del ricorso.

Presidente Ricciarelli – Relatore Di Geronimo Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello confermava la sentenza di condanna emessa a carico dell'imputato in relazione al reato di resistenza a pubblico ufficiale, commesso rivolgendo espressioni minacciose nei confronti dell'insegnante di eduzione fisica, mentre questi era intento a svolgere una lezione nella classe frequentata dal predetto minore. 2. Nell'interesse del ricorrente sono stati formulati due motivi di ricorso. 2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurabilità del reato di cui all' articolo 337 cod. pen. , evidenziando che la frase, rivolta dall'imputato al proprio insegnate, non era in alcun modo diretta ad ostacolare un atto d'ufficio. Sottolinea la difesa come la Corte di appello aveva indebitamente valorizzato il collegamento tra la frase minacciosa e la precedente sottoposizione del minore alla sanzione disciplinare della sospensione per 25 giorni dalla frequenza delle lezioni. Invero, al momento della condotta contestata, la sospensione era stata già irrogata, sicché non poteva sussistere alcun nesso tra la minaccia e l'esercizio della pubblica funzione. 2.2. Con il secondo motivo, si deduce il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto. 3. Il ricorso è stato trattato in forma cartolare. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 2. Il primo motivo di ricorso pone la questione della corretta qualificazione giuridica della condotta che, in punto di fatto, è stata compiutamente accertata. Risulta che l'imputato, durante lo svolgimento di una lezione di educazione fisica, si rivolgeva al proprio insegnante pronunciando la seguente frase «(OMISSIS)». Il senso della frase può essere compiutamente colto solo premettendo che l'imputato era stato sottoposto alla sanzione disciplinare della sospensione e, quindi, la frase si poneva chiaramente quale una forma di indebita rimostranza avverso un provvedimento già in precedenza adottato. 2.1. Sostiene la difesa che, nella condotta sopra descritta, non è ravvisabile il reato di resistenza a pubblico ufficiale, posto che la condotta minatoria non era posta in essere per opporsi al compimento di un atto da parte del pubblico ufficiale, bensì era manifestazione di una personale avversione indotta da fatti precedenti. 2.2. La tesi difensiva è fondata. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale presuppone espressamente che la condotta illecita sia finalisticamente diretta ad impedire il compimento di un atto d'ufficio, tant'è che è richiesto il dolo specifico. Per consolidata giurisprudenza, si ritiene che nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale il dolo specifico si concreta nel fine di ostacolare l'attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto, cosicché il comportamento che non risulti tenuto a tale scopo, per quanto eventualmente illecito ad altro titolo, non integra il delitto in questione. (Sez.6, n.36367 del 6/6/2013, Lorusso, Rv. 257100). Ne consegue che non integrano il delitto di resistenza a pubblico ufficiale le espressioni di minaccia rivolte a quest'ultimo, quando non rivelino alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell'atto d'ufficio, ma rappresentino piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale (Sez.6, n. 31544 del 18/6/2009, Graceffo, Rv. 244695). Quanto detto consente di affermare che il reato di cui all' articolo 337 cod. pen. non può ritenersi consumato se non in presenza di uno stretto collegamento causale, sorretto dal dolo specifico, tra la violenza e le minacce e il compimento di un atto d'ufficio. Viceversa, non è sufficiente il mero fatto che le minacce siano rivolte ad un pubblico ufficiale in occasione del compimento di un'attività inerente alla sua funzione, in mancanza della volontà e idoneità della condotta ad impedire il regolare svolgimento di un atto d'ufficio. 2.3. Applicando tali principi al caso di specie, è agevole escludere la configurabilità del reato contestato. A ben vedere, infatti, la condotta realizzata dall'imputato è consistita nel pronunciare una frase minacciosa e lesiva dell'onore del pubblico ufficiale, mentre questi era intento nello svolgimento della propria funzione (tale dovendosi qualificare l'attività di insegnamento). Tuttavia, difetta la finalità della minaccia a impedire il compimento dell'atto d'ufficio, posto che i giudici di merito non hanno in alcun modo accertato che la minaccia era diretta ad impedire la prosecuzione della lezione, piuttosto che all'assunzione di ulteriori provvedimenti disciplinari nei confronti dell'alunno. Risulta pacificamente accertato, invece, che la minaccia era direttamente collegata ad un atto d'ufficio già integralmente esauritosi, individuabile nella pregressa adozione di un provvedimento di sospensione dalla frequenza delle lezioni. Ciò consente di affermare che il ricorrente, pronunciando la frase riportata nell'imputazione, non ha inteso impedire il compimento di un atto d'ufficio, bensì ha assunto una condotta minatoria riferita ad un atto pregresso già compiutamente posto in essere. 3. L'accoglimento del motivo ricorso relativamente alla erronea configurazione della condotta in termini di resistenza a pubblico ufficiale, non esime dal porre la questione di vagliare la riconducibilità della condotta contestata in fatto nell'alveo di diverse fattispecie di reato. In astratto, la minaccia rivolta all'insegnante ben potrebbe essere ricondotta al reato di minaccia, ex articolo 612 cod. pen. , aggravato ai sensi dell' articolo 61, n. 10) cod. pen. , ovvero nella diversa ipotesi di oltraggio a pubblico ufficiale. L'eventuale diversa qualificazione della condotta, richiedendo una rivalutazione nel merito dell'accaduto, impone l'annullamento con rinvio. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla medesima Corte di appello di Miano, Sezione minorenni, in diversa composizione.