Vicina presa di mira: famiglia condannata per stalking

Padre, madre e figlia colpevoli di stalking, nonostante la mancanza della convivenza e pur non essendo stati sempre presenti tutti e tre agli episodi penalmente rilevanti.

Scenario della vicenda è la provincia lombarda. A richiamare l’attenzione delle forze dell’ordine e, poi, dei giudici è una donna, presa di mira dai vicini di casa, ossia madre, padre e figlia. Ricostruiti, grazie alle dichiarazioni della vittima e di una testimone, i fatti, per i giudici di merito non ci sono dubbi: è evidente la colpevolezza della famiglia nella realizzazione della persecuzione ai danni della vicina di casa. In primo grado, padre e figlia vengono condannati a otto mesi di reclusione mentre la madre viene condannata a dieci mesi di reclusione. In aggiunta, poi, viene riconosciuto un risarcimento – 5 mila euro – alla persona offesa, costituitasi parte civile. In secondo grado, però, le pene vengono ridotte. I giudici escludono le aggravanti riconosciute, ossia i futili motivi e la disabilità della persona offesa, e così padre e figlia vengono sanzionati con sei mesi di reclusione ciascuno mentre la madre con otto mesi di reclusione. Ridotto anche il risarcimento in favore della persona offesa, quantificato in Appello in 3 mila euro. A portare la vicenda in Cassazione sono padre e figlia, contestando il concorso, attribuito a tutti e tre i membri del nucleo familiare, nel delitto di stalking ai danni della loro vicina di casa. Secondo il legale che rappresenta l’uomo e la ragazza, «si è affermata la responsabilità di un intero nucleo familiare senza una doverosa e scrupolosa disamina delle singole responsabilità personali». Ragionando in questa ottica, osserva che «già nella formulazione dell’imputazione le condotte contestate (getto di rifiuti, insulti, minacce) erano attribuite non specificatamente ai singoli imputati, se non per l’episodio degli sputi in faccia, episodio attribuito alla madre». In sostanza, «non è chiaro se il concorso nel delitto derivi da un previo accordo tra i tre soggetti o se la loro contemporanea presenza abbia dato luogo a un’ipotesi di concorso morale anche di chi non abbia materialmente posto in essere le condotte», sostiene il legale, il quale poi aggiunge un ulteriore dettaglio, cioè che «all’epoca dei fatti, la figlia viveva in un’abitazione posta di fronte a quella dei genitori» e ciò «fa ritenere arduo», a suo parere, «che ella sia stata presente alle condotte poste in essere dai genitori». In appello infatti, si è ritenuto «non necessario il concorso di ciascuno dei tre soggetti a ogni episodio persecutorio, rilevando il loro comune movente di concorrere nel delitto di stalking», ma, obietta, «non è chiaro da quale elemento sia stata tratta l’intenzione dei tre soggetti di porre in atto il costante accerchiamento della vicina di casa e la sua continua vessazione». E in questa ottica, sempre secondo il legale, «l’esclusione dell’aggravante dei futili motivi e l’incertezza sulle ragioni delle condotte, ragioni rimaste non chiarite, non consente di valorizzarli al fine di desumere il comune movente persecutorio». Per i magistrati di Cassazione però, le obiezioni sollevate dalla difesa non sono sufficienti a porre in discussione la condanna così come pronunciata in Appello. I giudici sottolineano che «ai fini della sussistenza del concorso di persone nel reato di atti persecutori può avere rilievo il comune movente, che, pur essendo estraneo alla nozione di dolo, lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti atti persecutori e la sua dimensione plurisoggettiva, intesa come volontà comune di concorrere nel reato». Tuttavia, «è vero pure che tale dato può, evidentemente, avere indubbio valore laddove», come nella vicenda in esame, «alcuni dei correi e componenti il nucleo familiare abbiano posto in essere solo uno o, comunque, pochi atti tipici, essendovi, in tal caso, un ragionevole dubbio circa il loro contributo alla vessazione della vittima». Laddove, poi, «sia accertato che gli accusati abbiano posto in essere, ciascuno di essi, una molteplicità di atti tipici, non è, evidentemente, strettamente necessario accertare anche il movente delle singole condotte, integrando ognuna di esse il delitto ed essendo, comunque, in tal caso desumibile dalla loro direzione verso un unico obiettivo la volontà di concorrere ad esso. Ciò tanto più, poi, se tali condotte siano poste in essere nell’ambito del medesimo nucleo familiare, all’interno del quale è chiaro, in siffatte ipotesi, debba presumersi che i singoli componenti siano a conoscenza anche di quanto posto in essere dai congiunti». Su questo fronte il quadro è chiaro: come accertato in primo e secondo grado, vi è stata «la commissione di una serie di condotte minacciose, insultanti e provocatorie, poste in atto sistematicamente e con cadenza sostanzialmente quotidiana» dai tre soggetti sotto processo «ai danni della vicina di casa». Il riferimento è, nello specifico, come certificato da una testimone, ad insulti ripetuti, minacce di morte e, infine, lancio di oggetti e di escrementi di cane nel giardino della persona offesa. Per la Suprema Corte dunque, tutti e tre i soggetti hanno concorso nel delitto di stalking. E' irrilevante che, all’epoca della vicenda, la figlia abitasse separatamente dai due genitori, anche perché ella viveva in una casa vicina a quella in cui i fatti si sono svolti, essendo posta di fronte a quella dei suoi genitori. Tirando le somme, padre, madre e figlia hanno posto in essere, singolarmente, più atti persecutori, in un ambito familiare e di vicinato che li vedeva protagonisti – evidentemente non casualmente - contro la medesima persona, cioè una vicina di casa. Legittimo, quindi, trarne «la comune finalità a cui miravano le singole condotte, indipendentemente dalle specifiche motivazioni».

Presidente Pezzullo - Relatore Cavallone Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 29/1/2019, il Tribunale di Mantova ha dichiarato S. C., D. L. e S. A. colpevoli, in concorso tra loro, del reato di atti persecutori aggravati dall'essere la vittima una persona con disabilità e dall'aver agito per motivi futili. I fatti contestati si sarebbero verificati ad .. (MN) dal luglio 2013 con condotte perduranti ai danni della vicina di casa, F.D., costituitasi parte civile. Il Tribunale ha escluso la recidiva contestata a S. C., condannando questi e S. A. alla pena di otto mesi di reclusione ciascuno, e D. L. alla pena di dieci mesi di reclusione, con sospensione condizionale della pena per tutti gli imputati. Gli imputati venivano altresì condannati in solido al risarcimento dei danni sofferti dalla parte civile, liquidati in via equitativa in 5.000,00 euro. Su gravame degli imputati, la Corte d'appello di Brescia, con sentenza del 10/9/2024, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha escluso le aggravanti contestate (motivi futili e disabilità della persona offesa) e rideterminato la pena inflitta nei riguardi di S. C. e S. A. in sei mesi di reclusione ciascuno e la pena inflitta a D.L. in otto mesi di reclusione. Ha ridotto, infine, la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno in favore della parte civile a 3.000,00 euro e confermato, nel resto, la sentenza di primo grado. 2. Avverso la suddetta sentenza, hanno proposto ricorso per Cassazione S. C. e S. A., chiedendone l'annullamento, deducendo la mancanza e l'illogicità della motivazione in ordine all'affermazione del concorso dei ricorrenti nel delitto. Si sarebbe affermata la responsabilità di un intero nucleo familiare senza una doverosa e scrupolosa disamina delle singole responsabilità personali degli imputati. Viene evidenziato che già nella formulazione dell'imputazione le condotte contestate (getto di rifiuti, insulti, minacce) erano attribuite non specificatamente ai singoli imputati, se non per l'episodio attribuito degli sputi in faccia in data (OMISSIS), imputato a D.L. In particolare, non sarebbe stato chiarito se il concorso derivi da un previo accordo tra i concorrenti o se la loro contemporanea presenza abbia dato luogo a un'ipotesi di concorso morale di chi non abbia materialmente posto in essere le condotte rilevanti. Tale doglianza viene ritenuta particolarmente rilevante con riferimento a S. A., abitando la stessa, all'epoca dei fatti, in un'abitazione posta di fronte a quella dei genitori, ciò che faceva ritenere arduo che ella fosse presente alle condotte poste in essere dai coimputati. Inoltre, si rimarca che il Giudice di pace di Mantova avesse condannato la sola D.L. per minacce nei confronti della parte civile per fatti accaduti il 2/9/2013. Seppure la sentenza d'appello avesse rimarcato non fosse necessario il concorso di ciascuno dei concorrenti a ogni episodio persecutorio, rilevando il loro comune movente di concorrere nel reato, la stessa non avrebbe chiarito da quale elemento fosse stata tratta l'intenzione dei ricorrenti di porre in atto il costante accerchiamento della vicina di casa e la sua continua vessazione: tanto più che l'esclusione dell'aggravante dei futili motivi e l'incertezza di quali fossero le ragioni delle condotte, rimaste non chiarite, non consentiva di valorizzarli al fine di desumere il detto comune movente persecutorio. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato e, per alcuni profili, inammissibile. 2. È vero, infatti, che, ai fini della sussistenza del concorso di persone nel reato di atti persecutori, può avere rilievo il comune movente, che, pur essendo estraneo alla nozione di dolo, lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti atti persecutori e la sua dimensione plurisoggettiva, intesa come volontà comune di concorrere nel reato (così Sez. 5, n. 2675 del 18/10/2021, dep. 2022, Rv. 282772-01, in un caso molto simile al presente, in cui il contributo di ciascuno degli imputati, componenti del medesimo nucleo familiare, alla realizzazione delle condotte criminose è stato ritenuto fosse originato proprio dal comune risentimento nutrito nei confronti delle persone offese per le infamanti accuse mosse contro uno di essi; sul rilievo del movente comune ai fini del dolo di concorso, si veda anche Sez. 2, n. 29968 del 19/7/2024, non massimata). Tuttavia, è vero pure che tale dato abbia, evidentemente, indubbio valore laddove alcuni dei correi e componenti il nucleo familiare abbiano posto in essere solo uno o, comunque, pochi atti tipici: essendovi, in tal caso, il ragionevole dubbio, circa il loro contributo alla vessazione della vittima. Laddove, per contro, sia accertato che gli accusati abbiano posto in essere, ciascuno di essi, una molteplicità di atti tipici, non è, evidentemente, strettamente necessario accertare anche il movente delle singole condotte, integrando ognuna di esse il delitto ed essendo, comunque, in tal caso desumibile dalla loro direzione verso un unico obiettivo la volontà di concorrere ad esso. Ciò tanto più, poi, se tali condotte siano poste in essere nell'ambito del medesimo nucleo familiare, all'interno del quale è chiaro, in siffatte ipotesi, debba presumersi che i singoli componenti siano a conoscenza anche di quanto posto in essere dai congiunti. Nella specie, la sentenza d'appello ha dato atto vi sia stata “la commissione di una serie di condotte minacciose, insultanti e provocatorie poste in atto sistematicamente e con cadenza sostanzialmente quotidiana dagli imputati”. La sentenza di primo grado – conforme a quella d'appello, sicché le stesse si saldano tra loro in un unicum motivazionale da valutare nel suo complesso (Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Rv. 252615-01; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Rv. 197250-01) – ha richiamato, al riguardo, le parole della persona offesa che hanno attestato le aggressioni da parte di tutti gli imputati, nonché quella di una loro vicina di casa. In particolare, si evidenzia che T. C. aveva «affermato di avere sentito gli imputati insultare la persona offesa ripetutamente ((OMISSIS) — cfr verbale Stenotipico pag. 39); rivolgerle minacce di morte (OMISSIS); gettare oggetti ed escrementi di cane dal balcone, nel giardino della persona offesa ((OMISSIS) – pag. 40-41)» (p. 9 sentenza di primo grado). Dunque, i giudici di merito hanno spiegato, in modo congruo, le ragioni per cui hanno ritenuto tutti gli imputati concorrere nel delitto contestato: anche S. A., avendo essi ritenuto evidentemente irrilevante, in tale situazione, che costei abitasse separatamente dagli altri imputati: conclusione del tutto logica, tanto più considerato che, comunque, la stessa occupava un'abitazione vicina a quella in cui i fatti si sono svolti, essendo posta di fronte a quella dei suoi genitori. Non v'è dubbio, allora, che, con accertamento di merito in questa sede non altrimenti sindacabile e conforme ai menzionati principi di diritto, è stato accertato che gli imputati abbiano posto in essere, singolarmente, più atti persecutori, in un ambito familiare e di vicinato che li vedeva protagonisti – evidentemente non casualmente – contro la medesima persona: ciò da cui è stata correttamente desunta, inoltre, la comune finalità a cui le singole condotte miravano, indipendentemente dai motivi sottesi ad esse. 3. Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di rigetto segue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. La materia trattata, inerente dati sensibili o comunque meritevoli di particolare riservatezza, impone di disporre che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, ex articolo 52 d.lgs.196/2003, in caso di diffusione del presente provvedimento. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.