Respinta l'istanza risarcitoria avanzata dalla persona danneggiata, oggi maggiorenne. Confermata in Cassazione la valutazione compiuta in Appello: a causare l'incidente è stata la condotta imprudente della ragazzina, che conosceva il luogo, posto vicino alla sua casa.
l caso in esame risale a diversi anni fa, tanto che la vittima, all'epoca una ragazzina, è oggi maggiorenne. Tutto si svolge in pochi secondi: la ragazzina, che vicino casa sta giocando col fratello, si lancia, di corsa, all'inseguimento di un pallone, ma così facendo giunge in una zona pericolosa e accidentalmente si spinge oltre il margine della strada – comunale –, cadendo nel sottostante dirupo. Inevitabili le lesioni riportate dall'allora bambina, lesioni che, assieme alla dinamica dell'episodio, pongono sotto accusa il Comune. Addebitabile all'ente locale la responsabilità dell'incidente, a fronte della pericolosità del contesto in cui la ragazzina stava giocando col fratello? Dopo una lunga querelle giudiziaria, però, a sorpresa, i giudici d'Appello respingono la richiesta avanzata dalla vittima della caduta, richiesta mirata ad ottenere dal Comune un adeguato ristoro economico. Chiara la visione tracciata in secondo grado: la vittima dell'incidente «non ha fornito la prova del nesso causale tra il fatto ascritto alla responsabilità del Comune e i danni da lei riportati», mentre è piuttosto emerso, sulla base degli elementi di prova acquisiti, come «il fatto dannoso debba integralmente ascriversi alla colpa della persona danneggiata, per essersi ella resa responsabile di una condotta altamente imprudente e rischiosa, costituita dall'inseguire di corsa un pallone fino a una zona pericolosa, in pieno giorno e con piena visibilità dei luoghi, spingendosi oltre il margine della strada fino a cadere, per propria esclusiva colpa, nel dirupo» posto ai margini della strada comunale. Ad adire la Cassazione provvede la parte lesa, ma le obiezioni sollevate dinanzi ai Giudici si rivelano assolutamente infondate. Per quanto concerne i caratteri propri del luogo in cui si è svolto l'episodio e il connesso ruolo causale rivestito ai fini della produzione dei danni denunciati dalla vittima della caduta, viene richiamata la valutazione compiuta in Appello: «i fatti si sono verificati in prossimità di una strada asfaltata, di pubblico transito, allorquando l'allora ragazzina, dopo aver attraversato quella strada, si trovava all'interno di uno spazio tra la via ed il dirupo, spazio qualificabile come banchina» e quei luoghi erano «pienamente visibili e probabilmente conosciuti dalla persona danneggiata, nonché notoriamente pericolosi». Irrilevante, poi, secondo i Giudici, il riferimento al dubbio sulla «capacità naturale della minore al momento del fatto e della conoscenza, da parte sua, della pericolosità dei luoghi prossimi alla relativa abitazione». A questo proposito, la Cassazione osserva che in secondo grado si è raggiunta la conclusione che la persona danneggiata «disponesse, illo tempore, di un'adeguata capacità di intendere e di volere», desumendo tale importante dettaglio «dalla circostanza secondo cui ella giocava all'esterno della casa con il fratello ed era stata sentita», dopo l'incidente, «dichiarando cosa era accaduto». In generale, comunque, vale il principio, precisano i Giudici, secondo cui «allorquando la vittima di un fatto illecito abbia concorso, con la propria condotta, alla produzione del danno, l'obbligo del responsabile di risarcirlo si riduce proporzionalmente, anche nel caso in cui la vittima fosse incapace di intendere e di volere, in quanto l'espressione fatto colposo non va intesa come riferentesi all'elemento psicologico della colpa, che ha rilevanza esclusivamente ai fini di una affermazione di responsabilità, la quale presuppone l'imputabilità, ma deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive o dettata dalla comune prudenza». Ragionando in questa ottica, cioè quella «della verifica dell'incidenza causale della condotta della minore, in stato di capacità naturale o meno, nella verificazione dell'evento dannoso», e facendo riferimento al caso specifico, riconducibile alla «ipotesi di danno cagionato dalla condotta omissiva colposa del custode della strada – il Comune – nel predisporre le cautele necessarie affinché si evitasse la situazione di pericolo rappresentata dal precipizio sito ad una distanza di 5 metri dalla stessa sede stradale», sottolineano che «quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere oggettivamente prevista e superata attraverso l'adozione, da parte dello stesso danneggiato, delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze (secondo uno standard di comportamento correlato, dunque, al caso concreto), tanto più rilevante deve considerarsi l'efficienza causale del suo comportamento imprudente (in quanto oggettivamente deviato rispetto alla regola di condotta doverosa cui conformarsi) nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando il comportamento» accertato «sia, benché astrattamente prevedibile, da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale». Ciò posto, «un ruolo decisivo deve ritenersi aver piuttosto assunto l'avere, la ragazzina, inseguito un pallone fino a una zona pericolosa, ovvero in una strada di scorrimento dei veicoli prossima ad un dirupo, in pieno giorno (ore 16,30 del mese di aprile), con piena visibilità dei luoghi, conosciuti, con ogni probabilità, dalla vittima poiché prossimi alla casa familiare, per poi spingersi oltre il margine della strada stessa, fino a cadere dentro il dirupo, probabilmente per la furia della corsa». Anche secondo la Suprema Corte, quindi, ci si trova di fronte ad «una condotta che è ex se altamente imprudente e rischiosa, da cui discende come causalità diretta ed esclusiva la caduta nel dirupo e le conseguenti lesioni riportate dalla vittima, senza che possa avere rilievo la eventuale colpa del Comune» per «non avere adottato protezioni a lato della strada».
Presidente Scrima - Relatore Dell'Utri Ritenuto che con sentenza resa in data 18/2/2022, la Corte d'appello di Reggio Calabria, pronunciando quale giudice del rinvio a seguito di cassazione in sede di legittimità (ordinanza n. 2483/2018), in accoglimento dell'appello proposto dal Comune di (OMISSIS) e in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da T.M. per la condanna del Comune di (OMISSIS) al risarcimento dei danni alla persona subiti dall'attrice a seguito della caduta in un burrone sito ai margini della strada comunale presso la quale la stessa, minore all'epoca dei fatti, era intenta a giocare con il fratello; a fondamento della decisione assunta, il giudice del rinvio, sulla scorta delle indicazioni e dei principi di diritto stabiliti in sede di legittimità, ha evidenziato come l'attrice non avesse fornito la prova del nesso di causalità tra il fatto ascritto alla responsabilità del Comune convenuto e i danni alla persona denunciati, essendo piuttosto emerso, sulla base degli elementi di prova acquisiti al giudizio, come il fatto dannoso dovesse integralmente ascriversi alla colpa dell'attrice, per essersi la stessa resa responsabile di una condotta altamente imprudente e rischiosa, costituita dall'inseguire di corsa un pallone fino a una zona pericolosa, in pieno giorno e con piena visibilità dei luoghi, spingendosi oltre il margine della strada fino a cadere nel dirupo per propria esclusiva colpa; avverso la sentenza d'appello, T.M. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi d'impugnazione; il Comune di (OMISSIS) resiste con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memorie; Considerato che dev'essere preliminarmente rimarcata l'irrilevanza, ai fini della ritualità dell'odierna decisione (segnatamente, sotto il profilo della compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice), della partecipazione all'odierno giudizio del cons. Enzo Vincenti (già relatore ed estensore dell'ordinanza resa in sede di legittimità nel corso del presente giudizio), trovando applicazione, al caso di specie, il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale, qualora una sentenza pronunciata dal giudice di rinvio formi oggetto di un nuovo ricorso per cassazione, il collegio può essere composto anche con magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, ciò non determinando alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice (cfr. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013,Rv. 627789 – 01; cfr. altresì Sez. 3, Ordinanza n. 1542 del 25/1/2021, Rv. 660462 – 01); con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell'articolo 115 c.p.c. (in relazione all'articolo 360 n. 4 c.p.c.), per avere la Corte territoriale ricostruito i fatti di causa travisando i contenuti degli elementi istruttori acquisiti al giudizio, con particolare riguardo alla circostanza relativa all'identificazione dei caratteri propri del luogo in cui la stessa si trovava a giocare prima della verificazione del fatto dannoso denunciato; il motivo è inammissibile; osserva il Collegio come la doglianza in esame muova dal preliminare rilievo secondo cui, ove la Corte territoriale avesse inteso gli elementi istruttori evidenziati in ricorso secondo l'interpretazione sostenuta dalla ricorrente, la stessa Corte avrebbe raggiunto conclusioni diverse in relazione al ruolo causale rivestito dai luoghi di causa ai fini della produzione dei danni denunciati; in particolare, secondo la ricorrente, la Corte del merito avrebbe operato le proprie valutazioni sull'erroneo presupposto che i fatti di causa si siano verificati in prossimità di una strada asfaltata di pubblico transito, allorquando la danneggiata, dopo aver attraversato la predetta strada, si trovava all'interno di uno spazio tra la stessa ed il dirupo qualificabile come ‘banchina'; luoghi, a dire della Corte, pienamente visibili e probabilmente conosciuti dalla danneggiata, nonché notoriamente pericolosi; tale ricostruzione dei fatti, a giudizio dell'istante, sarebbe stata realizzata in forza di una scorretta interpretazione delle informazioni probatorie ricavate dagli elementi istruttori acquisiti, con la conseguente erronea individuazione degli aspetti rilevanti ai fini della corretta ricostruzione del nesso di causalità tra il fatto del Comune e il danno denunciato in questa sede; osserva in contrario il Collegio come l'argomentazione illustrata nel motivo in esame in altro non si traduca se non nella proposizione di assunti meramente congetturali, non potendo in alcun modo escludersi che la Corte territoriale avrebbe raggiunto le medesime conclusioni, sul piano della ricostruzione del nesso causale, pur ammettendo le diverse interpretazioni istruttorie sostenute dalla ricorrente; al riguardo, è peraltro appena il caso di rammentare come, secondo l'insegnamento della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, il travisamento del contenuto oggettivo della prova ricorre nel solo caso di una ‘svista' concernente il fatto probatorio in sé, e non già nella verifica logica della riconducibilità dell'informazione probatoria al fatto probatorio (cfr. Sez. U, sentenza n. 5792 del 5/3/2024 (Rv. 670391 - 01), sì che deve ritenersi inammissibile il motivo d'impugnazione proposto in sede di legittimità attraverso il quale la parte sostenga un'alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme (cfr., da ultimo, Sez. 2, ordinanza n. 10927 del 23/4/2024 Rv. 670888 - 01); ne deriva che la censura in esame, lungi dal prospettare un effettivo e rilevante travisamento della prova, si risolve in una soggettiva rilettura nel merito dei fatti di causa e delle prove, secondo un'impostazione critica non consentita in sede di legittimità; con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli articolo 2727 e 2729 c.c. (in relazione all'articolo 360 n. 3 c.p.c.), per avere la Corte territoriale ritenuto adeguatamente supportata, sul piano probatorio, la positiva affermazione della capacità naturale della minore al momento del fatto e della conoscenza, da parte di quest'ultima, della pericolosità dei luoghi prossimi alla relativa abitazione; e tanto, muovendo dall'errata valutazione di circostanze di fatto di per sé inidonee a costituire valide presunzioni in ordine alla corretta e plausibile ricostruzione di tali premesse; il motivo è inammissibile; osserva il Collegio come la Corte territoriale abbia raggiunto la conclusione che l'odierna ricorrente disponesse, illo tempore, di un'adeguata capacità di intendere e di volere, desumendolo dalle circostanze secondo cui la stessa giocava all'esterno della casa con il fratello di 11 anni e fosse stata sentita dichiarando cosa era accaduto (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata); al di là della congruità logica di questa inferenza critica tratta dalla Corte territoriale, varrà in ogni caso considerare la sostanziale irrilevanza della censura - e, dunque, la carenza di interesse della ricorrente a proporla (o la mancata comprensione, da parte della ricorrente, della ratio della decisione impugnata) sol che si consideri il passaggio della sentenza di legittimità (resa a monte del giudizio di rinvio) che ha inteso ribadire e precisare il principio di diritto in forza del quale, allorquando la vittima di un fatto illecito abbia concorso, con la propria condotta, alla produzione del danno, l'obbligo del responsabile di risarcire quest'ultimo si riduce proporzionalmente, ai sensi dell'articolo 1227, comma primo, c.c., anche nel caso in cui la vittima fosse incapace di intendere e di volere, in quanto l'espressione ‘fatto colposo' che compare nel citato articolo 1227 non va intesa come riferentesi all'elemento psicologico della colpa, che ha rilevanza esclusivamente ai fini di una affermazione di responsabilità, la quale presuppone l'imputabilità, ma deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza. L'accertamento in ordine allo stato di capacità naturale della vittima e delle circostanze riguardanti la verificazione dell'evento, anche in ragione del comportamento dalla stessa vittima tenuto, costituisce quaestio facti riservata esclusivamente all'apprezzamento del giudice del merito (cfr. pag. 11 dell'ordinanza n. 2483 di questa Corte emessa in data 1/2/2018 nel corso di questo giudizio); di seguito, la stessa Corte di legittimità ha evidenziato come, in questa complessiva ottica (ossia della verifica di sussistenza dell'incidenza causale della condotta della minore, in stato di capacità naturale o meno, nella verificazione dell'evento di danno) e facendo riferimento al caso di specie - riconducibile alla fattispecie di responsabilità ex articolo 2043 c.c., giacché ipotesi di danno cagionato dalla condotta omissiva colposa del custode della strada nel predisporre le cautele necessarie affinché si evitasse la situazione di pericolo rappresentata dal precipizio sito ad una distanza di 5 mt. dalla stessa sede stradale (cfr., segnatamente, p. 5 della sentenza impugnata) - quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere oggettivamente prevista e superata attraverso l'adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze (secondo uno standard di comportamento correlato, dunque, al caso concreto), tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del suo comportamento imprudente (in quanto oggettivamente deviato rispetto alla regola di condotta doverosa cui conformarsi) nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale; l'accertamento delle anzidette circostanze materiali, rilevanti ai fini della verifica di sussistenza del nesso causale tra fatto ed evento dannoso, costituisce quaestio facti riservata esclusivamente all'apprezzamento del giudice del merito (cfr. pagg. 11-12 dell'ordinanza n. 2483 di questa Corte emessa in data 1/2/2018 nel corso di questo giudizio); ciò posto, ai fini dell'odierna decisione, lungi dall'assumere un carattere dirimente l'accertamento dello stato di capacità o di incapacità naturale della minore al momento del fatto (posto che l'espressione ‘fatto colposo' che compare nel citato articolo 1227 non va intesa come riferentesi all'elemento psicologico della colpa, che ha rilevanza esclusivamente ai fini di una affermazione di responsabilità, la quale presuppone l'imputabilità, ma deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza), un ruolo decisivo deve ritenersi aver piuttosto assunto l'accertamento di fatto consistito nell'attestare che «l'avere inseguito un pallone fino a una zona pericolosa, ovvero in una strada di scorrimento dei veicoli prossima ad un dirupo, in pieno giorno (ore 16,30 del mese di aprile), con piena visibilità dei luoghi, con ogni probabilità conosciuti perché prossimi alla casa familiare, e spingendosi oltre il margine della strada stessa, fino a cadere dentro il dirupo, probabilmente per la furia della corsa, costituisce ex se una condotta altamente imprudente e rischiosa, dalla quale discende come causalità diretta ed esclusiva la caduta nell'anfratto e le lesioni riportate dalla T.M., senza che possa avere rilievo la eventuale colpa del Comune di non avere adottato ‘protezioni' a lato della strada» (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata); in relazione a tali premesse, l'ulteriore censura avanzata dalla ricorrente, in ordine alla criticata consapevolezza, da parte della minore, dello stato dei luoghi circostanti la propria abitazione, deve ritenersi tale da non assumere alcun decisivo rilievo; da tanto discende l'inammissibilità della censura per carenza di interesse a proporla o, in ogni caso, per non avere la ricorrente còlto con esattezza la ratio della decisione impugnata; con il terzo motivo, la ricorrente si duole della nullità della sentenza impugnata, per violazione degli articolo 132 c.p.c. e 111 Cost. (in relazione all'articolo 360 n. 4 c.p.c.), per avere la Corte territoriale dettato una motivazione meramente apparente a fondamento della decisione impugnata e, in ogni caso, inidonea (in quanto inferiore al c.d. ‘minimo costituzionale') a render conto dell'iter del ragionamento seguito dal giudice a quo al fine di giungere alla decisione contestata; il motivo è infondato; osserva il Collegio come, ai sensi dell'articolo 132, n. 4, c.p.c., il difetto del requisito della motivazione si configuri, alternativamente, nel caso in cui la stessa manchi integralmente come parte del documento/sentenza (nel senso che alla premessa dell'oggetto del decidere, siccome risultante dallo svolgimento processuale, segua l'enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione), ovvero nei casi in cui la motivazione, pur formalmente comparendo come parte del documento, risulti articolata in termini talmente contraddittori o incongrui da non consentire in nessun modo di individuarla, ossia di riconoscerla alla stregua della corrispondente giustificazione del decisum; infatti, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, la mancanza di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, va apprezzata, tanto nei casi di sua radicale carenza, quanto nelle evenienze in cui la stessa si dipani in forme del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi posta a fondamento dell'atto, poiché intessuta di argomentazioni fra loro logicamente inconciliabili, perplesse od obiettivamente incomprensibili; in ogni caso, si richiede che tali vizi emergano dal testo del provvedimento, restando esclusa la rilevanza di un'eventuale verifica condotta sulla sufficienza della motivazione medesima rispetto ai contenuti delle risultanze probatorie (ex plurimis, Sez. 3, sentenza n. 20112 del 18/9/2009, Rv. 609353 - 01); ciò posto, nel caso di specie, è appena il caso di rilevare come la motivazione dettata dalla Corte territoriale a fondamento della decisione impugnata sia, non solo esistente, bensì anche articolata in modo tale da permettere di ricostruirne e comprenderne agevolmente il percorso logico, avendo la Corte d'appello indicato in modo pienamente intuibile e logicamente congruo le ragioni per cui il comportamento della minore, oggettivamente considerato nelle sue occorrenze materiali, fosse valso ad assumere un ruolo causale determinante ed esclusivo nella produzione dell'evento dannoso; l'iter argomentativo compendiato dal giudice a quo sulla base di tali premesse è pertanto valso a integrare gli estremi di un discorso giustificativo logicamente lineare e comprensibile, elaborato nel pieno rispetto dei canoni di correttezza giuridica e di congruità logica, come tale del tutto idoneo a sottrarsi alle censure in questa sede illustrate dal ricorrente; sulla base di tali premesse, rilevata la complessiva infondatezza delle censure esaminate, dev'essere pronunciato il rigetto del ricorso; le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo; si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-quater, dell'articolo 13 del d.p.r. n. 115/2002; P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 6.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori come per legge. Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-quater, dell'articolo 13 del d.p.r. n. 115/2002.