L’emissione di fatture per operazioni inesistenti integra il reato di frode fiscale

Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione enuncia due importanti principi di diritto in materia di fatturazione di operazioni su beni non presenti in contabilità o non rinvenibili.

In una causa relativa all'emissione di fatture per operazioni inesistenti, la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che, quando un venditore emette una fattura per un bene che è già stato ceduto ad un altro soggetto, e quindi non è più nella sua disponibilità, si versa in un caso di falsa fatturazione per operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto la fattura documenta una vendita che in realtà non si è verificata, e quindi non corrisponde al vero stato dei fatti. Allo stesso modo, se una fattura riguarda un cespite che non è mai stato registrato nella contabilità del venditore, si tratta di una fatturazione falsa in quanto relativa, anche in questo caso, ad un'operazione oggettivamente inesistente: il cespite, infatti, non è mai esistito ai fini fiscali per il venditore e, quindi, la fattura non documenta una realtà effettiva. Pertanto, «la fatturazione di operazioni su beni già ceduti (e non più disponibili) o su cespiti non presenti nella contabilità del venditore integra il reato di frode fiscale ai sensi degli articolo 2 e 8 del d.lgs. n. 74/2000, attesa l'inesistenza oggettiva delle operazioni fatturate». Quanto all'integrazione del reato di cui agli articolo 2 ed 8, d. lgs. n. 74 del 2000, i Giudici specificano che la frode fiscale in caso di inesistenza oggettiva delle operazioni costituisce illecito penale quando: le fatture sono fittizie, non riferendosi ad operazioni effettivamente realizzate; le fatture sono destinate a creare un'apparenza di legittimazione, sicché l'utilizzo di tali fatture nelle dichiarazioni fiscali attesta documentalmente l'effettuazione di operazioni reali e, quindi, di aver generato un debito fiscale che in realtà non esiste; lo scopo di tali operazioni è la riduzione fraudolenta dell'imponibile, in quanto l'utilizzo in dichiarazione di fatture false consente di dichiarare un reddito inferiore a quello reale, riducendo così l'imposta dovuta.   Dunque, «l'emissione di fatture relative a beni non rinvenibili o la cui effettiva esistenza non è comprovata da alcun riscontro materiale, integra il reato di frode fiscale exarticolo 2 ed 8, d. lgs. n. 74 del 2000, attesa l'inesistenza oggettiva delle operazioni oggetto delle fatture, essendo queste ultime unicamente destinate a creare un'apparente legittimazione fiscale per ridurre fraudolentemente l'imponibile».

Presidente Aceto – Relatore Scarcella Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 28 giugno 2024, la Corte d'appello di Torino, in parziale riforma della sentenza emessa in data 23 marzo 2022 dal Tribunale di Torino, appellata da F.F., assolveva il medesimo dai reati di cui ai capi b) e c), limitatamente alla fattura n. 22 del 19 giugno 2013 per insussistenza del fatto, per l'effetto rideterminando la pena inflitta per i residui reati di dichiarazione infedele, contestato al capo a), e di emissione di fatture per operazioni inesistenti, contestato al capo c), relativamente alle fatture diverse da quella sopra indicata, in 1 anno e 8 mesi di reclusione, riducendo la disposta confisca all'importo di 7350,00 euro, confermando nel resto l'appellata sentenza che lo aveva riconosciuto colpevole di detti reati, contestati come commessi secondo le modalità esecutive e spazio temporali meglio descritte nelle richiamate imputazioni. 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione F.F. a mezzo del difensore di fiducia, articolando tre distinti motivi, di seguito sommariamente enunciati ex articolo 173, disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di motivazione in relazione ai capi b) e c) della rubrica. In sintesi, la difesa del ricorrente si duole del fatto che le due fatture indicate nelle imputazioni farebbero riferimento a società facenti capo al medesimo soggetto e che condividerebbero i locali di impresa e l'oggetto sociale. L'Agenzia delle Entrate non avrebbe eseguito alcun controllo su tali fatture, ma, in ogni caso, come asserito da una teste in servizio presso tale ufficio, non avrebbero avuto alcun risvolto dal punto di vista del reddito, sicché non risulterebbe essere stata provata alcuna evasione delle imposte sui redditi e dell'IVA. Aggiunge che le mere irregolarità, come la mancata iscrizione nel libro dei cespiti e l'omissione della voltura dell'automezzo, non potrebbero determinare l'inesistenza delle operazioni. 2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di motivazione in ordine alla mancata esclusione della recidiva. In sintesi, la difesa si duole della motivazione sulla mancata esclusione della recidiva, negata per la presenza sul certificato del casellario di precedenti penali connotati da particolare gravità rientranti in un disegno criminoso unitario volto alla perpetrazione di condotte illecite sistematiche, senza tuttavia motivare sulla natura di tali precedenti, sul tempo della loro commissione e della sanzione inflitta oltre che sulla modalità di definizione del procedimento. Si tratterebbe di precedenti a pena detentiva sostituita in pena pecuniaria, risalenti nel tempo, e definiti con decreto penale di condanna. Ai fini della valutazione dell'abitualità del comportamento non potrebbero tenersi in considerazione i reati estinti ex articolo 460, comma 5, cod. proc. pen., sicché, ove si fosse valutato tale profilo, la recidiva avrebbe dovuto essere esclusa. 2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di motivazione in relazione all'articolo 62-bis, cod. pen. In sintesi, la difesa si duole del diniego delle circostanze attenuanti generiche, motivato in ragione dell'impatto fiscale rispetto alle fasulle operazioni economiche che hanno inciso sull'imponibile e relativo scaglione Irpef nonché per l'assenza di resipiscenza o comportamento in ordine da far propendere per la non reiterazione del fatt. Diversamente, si sostiene, il comportamento del ricorrente sarebbe stato corretto sin dall'inizio del procedimento ed i precedenti modesti avrebbero consentito il riconoscimento delle invocate attenuanti. 3. In data 27/04/2025 sono state trasmesse a questa Corte le conclusioni scritte del Procuratore generale, con cui ha chiesto annullarsi il provvedimento impugnato relativamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio al Tribunale di Torino, e dichiararsi il ricorso inammissibile nel resto. Secondo il P.G., il motivo concernente la recidiva è fondato, atteso che l'A.G. decidente, come ritenuto dal ricorrente, non ha calcolato l'estinzione dei reati risalenti nel tempo ex articolo 460 c.p.p. Quanto ai restanti motivi, invece, essi sono manifestamente infondati. In particolare, non sussiste il vizio di inidonea motivazione atteso che il provvedimento ha evidenziato le responsabilità del ricorrente oltre ogni ragionevole dubbio saldando in maniera logica e congrua le fonti di prova in atti. Il ricorso, a tratti, scende palesemente nel merito, proponendo un'interpretazione alternativa dei fatti e prospettando il concetto di difetto di prova. Parimenti adeguatamente motivati sono i punti della sentenza relativi al diniego della concessione delle attenuanti generiche, essendo lo stesso stato agganciato alla mancanza di resipiscenza del reo. Considerato in diritto 1. Il ricorso, trattato cartolarmente in assenza di richieste di discussione orale, è fondato limitatamente alla censura relativa alla recidiva, dovendo, nel resto, essere rigettato. 2. Il primo motivo è complessivamente infondato. 2.1. Ed invero, le considerazioni espresse alle pagg. 6/8 della sentenza impugnata, con argomentazioni immuni dai denunciati vizi, chiariscono le ragioni per le quali il quadro probatorio consentiva di ritenere provata la responsabilità del ricorrente quanto ai fatti sub b) e c) relativamente alle fatture contestate, ad esclusione di quella recante il n. 22 del 19.06.2013. 2.2. Quanto alla fattura n. 83 del 3.12.2012, si legge in sentenza, come l'automezzo oggetto della fattura non poteva essere tra i cespiti in uso alla (OMISSIS) SRL né nel periodo in cui era stata emessa la fattura né successivamente poiché era già uscito dal patrimonio della venditrice in data antecedente. Si pone il problema di accertare se ciò sia idoneo ad integrare il reato di cui agli articolo 2 ed 8, d. lgs. n. 74 del 2000, oggetto di contestazione ai capi b) e c) della rubrica. In assenza di precedenti giurisprudenziali specifici, la risposta, ad avviso del Collegio, non può che essere affermativa. Ed infatti, quando un venditore emette una fattura per un bene che è già stato ceduto ad un altro soggetto, e quindi non è più nella sua disponibilità, si versa in un caso di falsa fatturazione per operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto la fattura documenta una vendita che in realtà non si è verificata, e quindi non corrisponde al vero stato dei fatti. Allo stesso modo, se una fattura riguarda un cespite (un bene immobiliare, un macchinario, ecc.) che non è mai stato registrato nella contabilità del venditore, si tratta di una fatturazione falsa in quanto relativa, anche in questo caso, ad un'operazione oggettivamente inesistente. Il cespite, infatti, non è mai esistito ai fini fiscali per il venditore e, quindi, la fattura non documenta una realtà effettiva. 2.3. Deve, pertanto, essere affermato il principio secondo cui «la fatturazione di operazioni su beni già ceduti (e non più disponibili) o su cespiti non presenti nella contabilità del venditore integra il reato di frode fiscale ai sensi degli articolo 2 e 8 del d.lgs. n. 74/2000, attesa l'inesistenza oggettiva delle operazioni fatturate». 2.4. Analogamente deve essere ritenuto quanto alla fattura n. 9 del 15.09.2013. Ed invero, si legge in sentenza che la (OMISSIS) SRL aveva registrato tale fattura nel proprio registro IVA ed inserito i beni fatturati tra i propri cespiti ammortizzabili, indicandoli come beni mobili e macchine ordinarie d'ufficio acquistate dal ricorrente. Era invece emerso che tali beni erano stati originariamente acquistati da altre società con fatture emesse tra gli anni 2006 e 2012, e nessuna alienazione di tali beni era stata riportata nei registri della ditta individuale del ricorrente, né tali beni erano stati rinvenuti presso i locali della predetta ditta individuale o comunque non era stato possibile individuarli, trattandosi peraltro di attrezzature vetuste non più economicamente utilizzabili, sicché il valore indicato nella fattura, pari a 20.000 euro, era puramente simbolico, donde il mancato pagamento della fattura unitamente all'impossibilità di riscontrare la presenza dei beni ceduti corroborava ulteriormente la natura fittizia dell'operazione. 2.5. Anche in relazione a tale operazione, si pone il problema di accertare se ciò sia idoneo ad integrare il reato di cui agli articolo 2 ed 8, d. lgs. n. 74 del 2000, oggetto di contestazione ai capi b) e c) della rubrica. In assenza di precedenti giurisprudenziali specifici, la risposta, ad avviso del Collegio, non può, anche in questo caso, che essere affermativa. Ed invero, la frode fiscale in caso di inesistenza oggettiva delle operazioni, come nel caso di specie, costituisce illecito penale in quanto: a) le fatture erano fittizie, non riferendosi ad operazioni effettivamente realizzate (non era stato possibile riscontrare la presenza dei beni asseritamente ceduti ed oggetto della fattura; i beni erano stati originariamente acquistati da altre società con fatture emesse tra gli anni 2006 e 2012; nessuna alienazione di tali beni era stata riportata nei registri della ditta individuale del ricorrente); b) le fatture erano dunque destinate a creare un'apparenza di legittimazione, sicché l'utilizzo di tali fatture nelle dichiarazioni fiscali attestava documentalmente l'effettuazione di operazioni reali e, quindi, di aver generato un debito fiscale che in realtà non esisteva (i beni fatturati erano stati infatti inseriti dichiarazione tra i cespiti ammortizzabili ed indicati come beni mobili e macchine ordinarie d'ufficio acquistate dal ricorrente); c) lo scopo di tali operazioni era, all'evidenza, la riduzione fraudolenta dell'imponibile, poiché l'utilizzo in dichiarazione di fatture false consentiva di dichiarare un reddito inferiore a quello reale, riducendo così l'imposta dovuta. 2.6. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio: «L'emissione di fatture relative a beni non rinvenibili o la cui effettiva esistenza non è comprovata da alcun riscontro materiale, integra il reato di frode fiscale ex articolo 2 ed 8, d. lgs. n. 74 del 2000, attesa l'inesistenza oggettiva delle operazioni oggetto delle fatture, essendo queste ultime unicamente destinate a creare un'apparente legittimazione fiscale per ridurre fraudolentemente l'imponibile». 2.7. A ciò si aggiunge, peraltro, che il mancato pagamento della fattura costituiva un ulteriore indizio della fittizietà della transazione, denotando la mancanza di un'effettiva volontà negoziale da parte dell'acquirente (posto che il mancato pagamento, ex se, non è elemento determinante per l'indizio di fittizietà dell'operazione fatturata: Sez. 5, 14/05/2020, n. 8919, Rv. 657654 - 01, in motivazione), non rilevando, peraltro, la circostanza, dedotta in ricorso, che le due fatture indicate facessero in realtà riferimento a società facenti capo al medesimo soggetto e che condividessero i locali di impresa e l'oggetto sociale. È stato già affermato da questa Corte, infatti, che in tema di reati tributari, la disciplina in deroga al concorso di persone nel reato prevista dall'articolo 9 D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 non si applica laddove il soggetto emittente le fatture per operazioni inesistenti coincida con l'utilizzatore delle stesse, principio affermato, come nella specie, in relazione a persona fisica amministratore delle società, rispettivamente, emittente ed utilizzatrice delle medesime fatture per operazioni inesistenti (Sez. 3, n. 5434 del 25/10/2016, dep. 2017, Ferrari, Rv. 269279 - 01). 2.8. Quanto, infine, alla circostanza che la condotta non avrebbe avuto alcun impatto e che, pertanto, non vi sarebbe prova dell'evasione, si tratta di argomentazione fondata sul mero richiamo ad uno stralcio dichiarativo riferito dalla teste G., con cui si è, in sostanza, dedotto il vizio di travisamento probatorio, senza tuttavia rispettare il principio dell'autosufficienza del ricorso, atteso che sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione (Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053 – 01). 3. Il secondo motivo è invece fondato, non avendo correttamente esposto i giudici territoriali le ragioni per le quali la recidiva qualificata non avrebbe potuto essere esclusa, limitandosi a riferire le risultanze del casellario con riferimento ai precedenti penali, in particolare per violazione dell'articolo 10-ter, d. lgs. n. 74 del 2000 e per falsità ideologica commessa in atto pubblico nel 2010, fatti che, per la Corte d'appello, risulterebbero connotati da particolare gravità rientranti in un disegno criminoso unitario, volto alla perpetrazione di condotte illecite sistematiche. 3.1. La motivazione sul punto merita censura non avendo assolto il decidente agli obblighi valutativi richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247838 – 01): è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all'eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali. 3.2. Nella specie, il mero richiamo all'esistenza di precedenti penali viene associato ad un generico giudizio di “particolare gravità” dei fatti pregiudicati, esprimendo un giudizio di medesimezza del disegno criminoso che, tuttavia, è distonico rispetto al giudizio che la Corte territoriale era chiamata ad esprimere in relazione al motivo di ricorso proposto, ossia se la recidiva fosse stata correttamente applicata in quanto il nuovo reato sub iudice fosse sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, come richiesto dalle Sezioni Unite, laddove, invece, il richiamo all'unitarietà volitiva dei precedenti penali si pone logicamente in contrasto con il giudizio di pericolosità, essendo noto che l'aumento di pena per la recidiva si giustifica con il rafforzamento della deliberazione criminosa e della maggiore pericolosità del reo denotata dal nuovo reato commesso, elementi questi incompatibili con le valutazioni sottese all'istituto della continuazione, connotato da un giudizio di favor rei (si veda, in motivazione, Sez. U, n. 6296 del 24/11/2016, dep. 2017, Nocerino, Rv. 268735 – 01). 3.3. Infine, per completezza, si evidenzia come il richiamo alla previsione dell'articolo 460, cod. proc. pen. ed alla estinzione dei relativi reati, non coglie nel segno, essendo infatti pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la condanna riportata a seguito di procedimento per decreto rileva ai fini della recidiva atteso che gli effetti preclusivi del decreto penale di condanna riguardano solo il pagamento delle spese del procedimento e l'applicazione di pene accessorie, nonché l'efficacia della pronunzia nei soli giudizi civile o amministrativo (Sez. 4, n. 40302 del 15/11/2006, P.g. in proc. Narduzzi, Rv. 235401 - 01). 4. Il terzo ed ultimo motivo è invece inammissibile, per le ragioni illustrate dai giudici di appello e richiamate integralmente supra in sede di illustrazione del motivo. 4.1. Sul punto è sufficiente ribadire che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell'articolo 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi, Rv. 242419 - 01), come, nella specie, l'asserito buon comportamento processuale o la asserita modestia dei precedenti penali. 5. L'impugnata sentenza dev'essere, conclusivamente, annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Torino, perché operi un nuovo giudizio sulla recidiva tenuto conto di quanto esposto ai precedenti §§ 3, 3.1. e 3.2., dovendosi, nel resto, rigettare il ricorso. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla recidiva e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Torino. Rigetta il ricorso nel resto.