Integra il reato di estorsione pretendere denaro dalla compagna per le spese domestiche

L'uomo, condannato per estorsione, pretendeva, con violenza, una sproporzionata cifra rispetto alle disponibilità economiche della partner per la compartecipazione alle spese domestiche.

A dare il via alla macchina giudiziaria, è la pretesa economica vantata da un uomo nei confronti della partner, caratterizzata da violenza e da evidente sproporzione rispetto alle disponibilità economiche della donna, ma da lui giustificata come un mero tentativo di ottenere una legittima compartecipazione alle spese domestiche. Per i giudici di merito, la sua condotta è, invece, qualificabile come tentata estorsione. Con ricorso per cassazione, la difesa sosteneva l'illogicità della qualifica giuridica, a fronte di una condotta integrante il diverso reato dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in quanto «le azioni minatorie violente poste in essere dall’uomo sono state dirette a conseguire le somme che la donna avrebbe dovuto versare per contribuire alle spese domestiche». Per i giudici di Cassazione, però, l'alternativa versione difensiva non è ammissibile: l'uomo è responsabile di tentata estorsione ai danni della partner. In generale, il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, con violenza o minaccia alle persone, e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all'elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie. La diagnosi differenziale basata sullo scrutinio dell’elemento soggettivo è tuttavia, attivabile solo quando l’azione violenta si colleghi alla sussistenza di un diritto concretamente azionabile in giudizio. Nel caso di specie invece, «il fatto che la donna contribuisse alle spese per il mantenimento del ménage domestico non era idoneo a giustificare la richiesta di 860 euro» avanzata dall’uomo, anche tenuto conto che «la persona offesa aveva un'entrata di soli 1.000 euro e che, comunque, ella aveva già elargito del denaro all’uomo». In conclusione, per la Suprema Corte «non vi è alcuna prova dell'esistenza di un diritto azionabile in giudizio, che è il presupposto indispensabile per l'attivazione della diagnosi differenziale tra i reati di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni sulla base dello scrutinio dell'elemento psicologico».

Presidente Petruzzellis - Relatore Recchione Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Bologna confermava la responsabilità di O.P. per i reati di tentata estorsione e maltrattamenti in famiglia in danno di M.B. con la quale aveva intrattenuto una relazione sentimentale e di convivenza. 2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore che deduceva: 2.1. violazione di legge (articolo 498-quater, 500 cod. proc. pen.articolo 572,629 cod. pen.) e vizio di motivazione: la Corte di appello non avrebbe valutato legittimamente i contenuti accusatori provenienti dalla progressione dichiarativa della persona offesa; le diverse dichiarazioni presenterebbero rilevanti discrasie e la narrazione accusatoria - che invero sarebbe inquinata dai sentimenti di gelosia nutriti dall'offesa - risulta essere stata interrotta dalla ritrattazione resa in sede di controesame, in un periodo in cui la relazione sentimentale e di convivenza tra l'O.P. e la M.B. era ripresa; non sarebbe stata rilevata la violazione dell'articolo 500 cod. proc. pen. che, da un lato, ostava all'utilizzo a fini probatori delle contestazioni e, dall'altro, avrebbe richiesto un accertamento incidentale specifico per l'utilizzo delle dichiarazioni predibattimentali. Infine, si deduceva che non sarebbero state rispettate le forme previste dall'articolo 498, comma 4-quater cod. proc. pen. Nel dettaglio si deduceva (a) che narrazione dell'offesa non era omogenea sia con riguardo alla consegna dell'assegno ed al suo incasso che all'uso dell'arma; (b) che il dichiarato della persona offesa non troverebbe conferme in quello della cassiera della banca (che non aveva riferito che la donna si era recata presso l'istituto per incassare un assegno - che non sarebbe stato nella sua disponibilità - ma solo per chiedere se fosse possibile bloccare l'incasso di un assegno); 2.2. violazione di legge (articolo 581 cod. proc. pen., articolo 393 cod. pen.) e vizio di motivazione in ordine la qualificazione giuridica dell'estorsione: il corretto inquadramento giuridico della condotta, qualificata come estorsione, sarebbe stato quello dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni in quanto le azioni minatorie violente poste in essere dall'O.P. sarebbero state dirette a conseguire le somme che la M.B. aveva avrebbe dovuto versare per contribuire alle spese domestiche. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 1.1. Il primo motivo di ricorso, con il quale si contesta la capacità dimostrativa delle dichiarazioni accusatorie, non supera la soglia di ammissibilità in quanto manifestamente infondato. Il Collegio ribadisce che le dichiarazioni della persona offesa possono essere oggetto di valutazione frazionata: è infatti legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa, purché il giudizio di inattendibilità, riferito soltanto ad alcune circostanze, non comprometta per intero la stessa credibilità del dichiarante ovvero non infici la plausibilità delle altre parti del racconto (tra le altre: Sez. 6 n. 20037 del 19/03/2014, L., Rv. 260160; Sez. 6 n. 3015 del 20/12/2010, dep. 2011, Farruggia, Rv. 249200). Il Collegio rileva inoltre che la vulnerabilità del testimone genera un'esigenza di protezione riconosciuta sia dalla normativa interna (articolo 90-quater cod. proc. pen.) che sovranazionale (articolo 22 e ss. della direttiva 2012\29\UE), ma non comporta un abbattimento presuntivo della capacità dimostrativa dei contenuti dichiarativi. Eventuali fratture della progressione dichiarativa (emergenti anche in seguito alle contestazioni) possono infatti essere generate dai condizionamenti prodotti dal legame affettivo della vittima con l'imputato. In caso di narrazioni discontinue provenienti da vittime vulnerabili che hanno una relazione di dipendenza (affettiva o economica) con l'accusato è onere del giudice l'effettuazione di una analitica valutazione della credibilità dei contenuti accusatori. Nel caso in esame la Corte d'appello, nel pieno rispetto di tali indicazioni ermeneutiche ha effettuato una dettagliata e persuasiva valutazione della progressione dichiarativa proveniente dall'offesa, analizzando l'intera narrazione e rilevando che solo in sede di controesame, all'udienza dell' 11 novembre 2017, quando la convivenza della dichiarante con il ricorrente era ripresa, si era verificata una sorta di ritrattazione che, tuttavia non poteva essere ritenuta credibile, tenuto conto sia della congerie di elementi che confortavano la attendibilità delle prime dichiarazioni, sia della riconducibilità della fluttuazione narrativa alla dipendenza affettiva della dichiarante con l'imputato (pagg. 14 e 15 della sentenza impugnata). La Corte d'appello rilevava inoltre che le dichiarazioni dell'offesa erano confortate da quelle della madre, oltre che dai certificati medici acquisiti e dalle testimonianze dei vari pubblici ufficiali che avevano raccolto le sue dichiarazioni (i quali avevano constatato de visu la condizione di paura e di dipendenza dall'O.P.) Il Collegio rileva inoltre che anche le vicende relative all'assegno, oggetto dell'estorsione, ed all'uso dell'arma per azionare la pretesa illecita - la cui ricostruzione è contestata con il ricorso - sono state analiticamente vagliate dalla Corte d'appello e non possono essere oggetto di rivisitazione in questa sede, tenuto conto che la motivazione sul punto (pag. 18 della sentenza impugnata) si presenta logica e coerente con le emergenze processuali. La stessa non si presta, pertanto, ad alcuna censura o rivalutazione in questa sede. Infine, sono manifestamente infondate le censure relative all'inutilizzabilità delle dichiarazioni dibattimentali rese dalla M.B. senza il ricorso alle modalità previste dall'articolo 498, comma 4- quater cod. proc. pen. Sul punto il collegio rileva, in primo luogo che l'attivazione dei presidi di protezione previsti dalla norma è disposta sulla base di una specifica “richiesta” degli interessati, in questo caso assente. E, in secondo luogo, che la norma in questione non prevede alcuna sanzione (in materia di esame disposto con le cautela in assenza di richiesta la Cassazione ha già affermato che non si rinviene alcuna causa di inutilizzabilità: Sez. 2, n. 27743 del 13/06/2024, N., Rv. 286907 - 01) 1.2. Anche il secondo motivo di ricorso non supera la soglia di ammissibilità. Il Collegio riafferma che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all'elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie. (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 - 02). La diagnosi differenziale basata sullo scrutinio dell'elemento soggettivo è tuttavia attivabile solo quando l'azione violenta si colleghi alla sussistenza di un diritto concretamente azionabile in giudizio. Nel caso in esame la Corte d'appello rilevava che il fatto che la vittima contribuisse alle spese per il mantenimento del ménage domestico non era idoneo a giustificare la richiesta di ottocentosessanta euro, tenuto conto che l'offesa aveva un'entrata di soli mille euro e che, comunque, la stessa aveva già elargito del denaro ad O.P.. Dunque, come legittimamente rilevato dalla Corte territoriale, non vi è alcuna prova dell'esistenza di un diritto azionabile in giudizio, che è il presupposto indispensabile per l'attivazione della diagnosi differenziale tra i reati di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni sulla base dello scrutinio dell'elemento psicologico. 2. Alla dichiarata inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell'articolo 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si determina equitativamente in euro tremila. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.